Decreto sicurezza: sorvegliare e punire - di Denise Amerini

Abbiamo già detto, anche nella recente audizione alla Camera chiedendone il ritiro, quanto lo schema di disegno di legge 1660 in tema di sicurezza pubblica sia un condensato di propaganda e populismo istituzionale, diretto solo a dare risposte emergenziali di ordine pubblico, che non affronta il tema della sicurezza come questione sociale a cui vanno date risposte di carattere politico.

Nel disegno di legge anche la questione carcere viene affrontata con una impostazione esclusivamente giustizialista: aumento delle fattispecie di reato, inasprimento delle pene, anche di quelle già previste dal codice. Niente di nuovo, ne avevamo avuto un chiaro anticipo con i decreti Caivano, Cutro, Rave. Si perseguono e si criminalizzano tutti quei comportamenti che nascono e si determinano in ambienti di povertà, di disagio, di marginalità e di degrado sociale, che avrebbero bisogno di una più forte presenza dei servizi sociali e di una rete di sostegno.

In tema di esecuzione penale è rilevante la previsione del carcere nei confronti di donne incinte o madri di figli minori di tre anni, con l’eliminazione dell’obbligo di rinvio dell’esecuzione della pena. Una norma questa che non avrà alcun effetto di deterrenza ma che contribuirà all’affollamento delle carceri e alla presenza di minori all’interno degli istituti, ispirata a colpire soprattutto alcune etnie. Non per niente già si è levato il plauso perché finalmente vengono colpite le donne rom, “borseggiatrici che si fanno mettere incinta solo per non andare in carcere e continuare nelle loro attività”.

Ma c’è di più: si vuole perseguire ogni manifestazione del dissenso. Si aggravano le pene per chi imbratta beni in uso alle forze di polizia o ad altri soggetti pubblici, e si introduce il reato di rivolta in carcere, peraltro già esistente. Non si perseguono, com’è ovvio, gli atti di violenza, ma qualsiasi forma di protesta, perfino la resistenza passiva, rendendo quindi impossibile qualsiasi forma pacifica di dissenso. Un detenuto che batte le sbarre per richiamare l’attenzione rischia fino a ulteriori 8 anni di carcere: può essere in carcere per un reato bagatellare, addirittura essere in attesa di giudizio, e vedersi comminati anni di pena perché ha protestato pacificamente per le condizioni della cella in cui è recluso, perché gli viene negata una telefonata, o una visita a un congiunto.

In questo contesto riteniamo gravissima l’autorizzazione alla detenzione di una seconda arma senza licenza per gli operatori di polizia; suona come un riconoscimento a un esercizio della sicurezza quasi in forma privata, non compatibile con il nostro ordinamento costituzionale. E ulteriore preoccupazione desta l’istituzione, prevista con il decreto Nordio del 14 maggio scorso, dei cosiddetti Gio, i Gruppi di intervento operativo, soprattutto se letta insieme all’istituzione del reato di rivolta carceraria, di resistenza passiva: reparti speciali per sedare le “rivolte” nelle carceri.

La domanda è d’obbligo: è davvero necessario istituire un corpo specializzato per reprimere reati di nuova invenzione, proteste che potrebbero non aver luogo se le condizioni di vita in carcere non fossero inumane, degradanti, se le pene rispondessero al dettato costituzionale? E’ di questo che ha bisogno il personale, o non avrebbe invece bisogno di dotazioni organiche adeguate e di formazione professionale? Ancora una volta il mantra è soltanto repressione.

Così si esprime al riguardo, per fare un esempio, la Camera penale di Roma: “Il nuovo decreto sottrae risorse alla polizia penitenziaria, già numericamente del tutto inadeguata, per istituire nuovi corpi speciali per la repressione delle rivolte e per i quali prevede una formazione di soli tre mesi. Mentre davanti agli occhi scorrono le immagini terrificanti di Santa Maria Capua Vetere, di Reggio Emilia e dell’istituto minorile Beccaria di Milano, riteniamo che appaia indispensabile adottare strumenti che garantiscano l’assoluta trasparenza dell’operato delle forze dell’ordine, soprattutto all’interno degli istituti di pena troppo spesso percepiti come luoghi di buio impenetrabile”.

È del tutto evidente quanto interessi solo e soltanto il “pugno duro”. A fronte di un sovraffollamento che sfiora le condizioni che nel 2013 portarono la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare l’Italia per violazione dei diritti umani, invece di intervenire con misure deflattive, immediatamente realizzabili, si introducono misure che non avranno altro effetto che quello di aumentare ancora di più la popolazione carceraria. L’unica logica che guida le scelte del governo sul carcere è sempre e solo buttare le chiavi. Sorvegliare e punire. Non a caso la presidente del Consiglio vuole togliere, in linea con il perverso disegno di revisione della Costituzione che sta perseguendo il governo, la finalità rieducativa dall’articolo 27.

Dobbiamo assolutamente reagire a tutto questo.

 

 
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