Per le elezioni europee dell’8 e 9 giugno, Giorgia Meloni si è rivolta agli elettori chiedendo loro di esprimere un puro e semplice “Giorgia” sulla scheda elettorale. È un segnale di forza e autorevolezza da parte della presidente del Consiglio, oppure di una affiorante debolezza? L’interrogativo non è peregrino, se è vero che la costruzione mediatica dell’attuale presidente ha restituito un’apparente credibilità allo schieramento conservatore del nostro paese, a partire dal caso editoriale del suo fortunato libro “Io sono Giorgia”.
Al rafforzamento della sua immagine anche nello scenario internazionale ha inoltre contribuito l’appiattimento atlantico nella guerra per procura in corso in Ucraina da parte del fronte occidentale a guida Usa, in quanto - con il trasformismo che ontologicamente la contraddistingue - ha repentinamente abbandonato qualsiasi riferimento positivo al ruolo giocato dalla Russia, che nel libro sopra citato veniva definita quale “parte del nostro sistema di valori europei, perché difende l’identità cristiana e combatte il fondamentalismo islamico”.
Diversamente non gioca a suo favore, soprattutto sul piano internazionale, il fatto che, da quando è stata nominata presidente del Consiglio, Meloni rifiuti qualsiasi contraddittorio con la stampa, preferendo comunicare con il suo elettorato per via social, contando poi sull’amplificazione dei suoi discorsi alla nazione da parte delle reti televisive sia pubbliche che private. Questa sua postura non è affatto casuale, poiché nella realtà, al di là di ogni benevola propaganda, il decisionismo che ha caratterizzato il suo operato in questo anno e mezzo di governo non ha conseguito misure e risultati eclatanti per il bene del paese.
Pertanto, proprio in ragione della miseria della sua politica, Giorgia Meloni è stata costretta a ricorrere all’espediente elettorale “Giorgia” per garantire i consensi alle liste di Fratelli d’Italia in questo appuntamento decisivo per i disegni reazionari delle destre europee sovraniste, iper-liberiste e xenofobe.
D’altronde, un conto è la politica degli annunci, a partire dal fantomatico piano Mattei e la lotta contro i migranti, mediante l’esternalizzazione delle frontiere (Albania, Egitto, Libia, Tunisia, ecc.), un altro è la situazione economica che Giorgia Meloni ha ereditato. Infatti, finché la situazione economica verrà affrontata attraverso le politiche del fisco amico e della tolleranza degli evasori e degli elusori fiscali, inevitabilmente avremo una ulteriore compressione dello stato sociale (sanità, scuola, ecc.), dei salari nominali e reali, nonché nell’incremento delle diseguaglianze sociali.
Perciò serve a poco sostenere che l’occupazione è cresciuta come non mai, quando 5 milioni e 700 mila dipendenti sono annualmente sotto gli 11mila euro di reddito pro capite. Altresì, il rapporto Istat del 2024 ha certificato che 5.752.000 persone versano in gravi difficoltà economiche e sociali, mentre l’incidenza della povertà negli occupati è aumentata dal 4,9% del 2011 al 7,6% del 2023. Anche per queste ragioni si è verificato un calo della domanda interna del 2,3% nell’arco temporale di un quindicennio a partire dal 2008, mentre la produzione industriale, che è legata gioco forza alla (ex?) locomotiva tedesca, è in negativo da ben quindici mesi.
Come acutamente sostiene il filosofo della politica Carlo Galli nel recente libro “La Destra al Potere”, si tratta di vedere fino a quando Giorgia Meloni sarà in grado di mantenere quell’equilibrio che fino ad ora le ha permesso di essere al governo, e al contempo di accrescere i consensi puntando l’indice contro quelle forze economiche che sul piano europeo e internazionale tramerebbero contro gli interessi della nostra nazione.
La recente dichiarazione “O la va o la spacca!” a proposito dell’annunciato ed eversivo “premierato elettivo”, rivela che la Meloni è tutt’altro che convinta rispetto ad un esito referendario favorevole, soprattutto dopo i tanti e vari pronunciamenti contrari, buon ultimo quello della Cei per voce del cardinale Matteo Maria Zuppi.