Definire Giacomo Matteotti un “riformista rivoluzionario” può sembrare un autentico ossimoro. Tuttavia, proprio il paradossale e singolare accostamento tra queste qualità “discordanti” costituisce, forse, il miglior viatico critico per ben comprendere l’opera, il pensiero ed anche la singolare ed originale collocazione di Matteotti nel quadro complessivo della storia italiana. Infatti Matteotti è, indubitabilmente, un eminente uomo politico italiano, anche se è poi alquanto difficile poterlo inserire sia nella tradizione del riformismo socialista, sia anche in quella rivoluzionaria. Proprio perché Matteotti è stato anche, dichiaratamente, un “anti-italiano” pur essendo, al contempo, un “arci-italiano”.
È stato un “anti-italiano” perché - per dirla con Piero Gobetti - è stato un “intransigente del ‘sovversivismo’”. Ovvero un intransigente sempre coerente con le proprie prese di posizioni ed anche con le stesse idealità della sua vita interiore. Dal pacifismo all’antimilitarismo dichiarato, professato nel corso del primo conflitto mondiale, al suo impegno, inesorabile, nella lotta agraria in Polesine, sua terra di origine, in cui la sua ‘intransigenza’ lo distingueva sia dal tradizionale opportunismo dei sindacati riformisti, sia dal vuoto verbalismo dei sindacati massimalisti. Al contrario, nella sua azione politica e civile si fondeva la sua specifica competenza giuridica ed economica con un impegno quotidiano di serio organizzatore, espletato nella puntuale assistenza amministrativa, ponendo al centro della sua opera le realtà del comune, delle scuole, delle cooperative e delle leghe.
Per questa precisa ragione il suo antifascismo si è plasmato nel Polesine, dove Matteotti ha visto nascere e formarsi, giorno dopo giorno, il movimento fascista, finanziato dagli agrari locali. Come ha rilevato Gobetti, “Giacomo Matteotti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario […]; come medievale crudeltà e torbido oscurantismo verso qualunque sforzo dei lavoratori volti a raggiungere la propria dignità e libertà”. In questo preciso e concreto contesto storico-agrario Matteotti “sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo”. Matteotti ha costantemente combattuto la sua lotta al fascismo con tutta la sua opera concreta e fattiva, nonché con tutta la sua conseguente intransigenza morale e civile.
Il suo libro “Un anno di dominazione fascista” (pubblicato e distribuito clandestinamente nel 1924) è emblematico non solo (e non tanto) per la puntuale e più che analitica “cronaca” di tutte le molteplici violenze perpetrate dal fascismo su tutto il territorio nazionale (violenze che configurano un “fiume di sangue” che ha variamente imperversato), ma anche, e soprattutto, per un bilancio, sempre documentato, della precisa situazione economica e finanziaria del nostro Paese.
Scorrendo le pagine di questo suo denso dossier critico di “contro-cultura” civile e sociale, il lettore incontra molteplici considerazioni sui cambi, sulla bilancia commerciale, sulla circolazione bancaria, sui fallimenti, sui capitali azionari, sull’andamento dei profitti e dei salari, sull’emigrazione, sulla disoccupazione e gli scioperi, sui disavanzi di bilancio dello Stato, sul bilancio statale, sulle sue entrate tributarie, ed anche sulle imposte locali comunali e provinciali.
Alla luce di questa ampia, analitica e sistematica disamina critica ed ‘analisi concreta della situazione concreta’, Matteotti passa quindi ad analizzare, con altrettanta ‘concretezza positiva’, i molteplici atti politici del governo fascista, i suoi numerosissimi decreti legge, la sua politica tributaria, doganale e economica (che ha riaperto le porte alla speculazione privata), la politica operaia, la burocrazia, la condizione dei servizi elettrici e postali, delle Ferrovie statali, dei lavori pubblici, della giustizia, delle scuole e dell’istruzione elementare, degli ordinamenti militari, della polizia di partito e dell’asservimento progressivo dello Stato ad un Partito (quello fascista), l’andamento delle elezioni, la sistematica mutilazione delle autonomie locali (Matteotti fornisce anche l’elenco analitico, veramente impressionante, di tutte le amministrazioni comunali sciolte arbitrariamente con la forza dal fascismo).
Alla luce di questi sintetici cenni è agevole comprendere tutta la forza e l’originalità dell’impianto analitico e di studio, altrettanto puntuale, da cui scaturiscono tutte le numerose critiche mosse da Matteotti ad un anno di autentica dominazione fascista. Esattamente in questo aspetto ‘analitico’ e ‘concreto’, si radica la forza e l’originalità dell’antifascismo di Matteotti. Un antifascismo che, insomma, non si nutre della tradizionale retorica, ma che entra sempre nel merito dei problemi considerati, onde analizzare le molteplici ed articolate ‘pieghe istituzionali’ della vita amministrativa, burocratica, economica e politica posta in atto dal fascismo, onde documentare la sua progressiva occupazione delle istituzioni con il loro conseguente “svuotamento” e “devastazione” a favore di una sola parte politica che esercita un ruolo complessivamente parassitario e criminale nei confronti dell’intera Nazione.
Da tutte queste minuziose e puntuali disamine emerge così, e nuovamente, lo spessore e l’originalità dell’antifascismo conseguente e coerente di Matteotti. Si tratta di un antifascismo che non si nutre di parole, ma che, radicandosi nei fatti e nella concretezza delle azioni effettivamente realizzate dal fascismo, fornisce una fotografia impressionante della genesi specifica di un regime dittatoriale e criminale come quello fascista. Il che ci consente di comprendere come in Matteotti la rivolta della coscienza morale e la sua stessa dichiarata “repugnanza morale” al fascismo si radichi, ancora una volta, in un preciso e puntuale ‘atto di conoscenza e di studio della realtà effettuale del fascismo’. Il suo antifascismo è così nutrito di ‘studio’ e di ‘indagine critica’ e, proprio per questo, si distingue dalla tradizionale retorica tribunizia che, per molti anni, ha invece contraddistinto l’azione socialista, sia quella riformista (sempre compromissoria), sia quella massimalista, “rivoluzionaria” solo a parole.
Quest'ultimo aspetto conferma, nuovamente, non solo l’estraneità, autenticamente “protestante”, di Matteotti rispetto alla tradizionale retorica italiana, (variamente compromissoria e variamente transigente), ma ci consente anche di cogliere il suo tratto di autentico “arci-italiano”. Per quale motivo? Perché proprio nell’intransigenza morale di Matteotti, nonché nel suo ‘studio concreto della situazione concreta’, emergono le migliori virtù di un popolo come quello italiano che, di fronte al disastro complessivo della nazione, proprio quando tutti tradiscono e si adeguano, ebbene questo “arci-italiano” sa invece stare al suo posto, ergendosi come un saldo punto di riferimento, “irto ed incorrotto”. Un punto di riferimento talmente “irto e incorrotto” - come poi accadrà con i partigiani nel 1943 - che riesce a dare a tutti gli italiani una sicura, affidabile e strategica “bussola di riferimento”. Così se si inserisce Matteotti nel preciso clima politico del 1924 – l'anno che ha portato al suo assassinio pianificato e programmato dal capo-banda di una associazione a delinquere come effettivamente fu il fascismo mussoliniano - si capisce, allora, tutto l’isolamento di Matteotti, ma anche la sua indubbia originalità.
Matteotti infatti si distingue nettamente sia dai socialisti parolai, massimalisti e variamente disposti a compiere tutti i compromessi del caso, sia anche da quelle forze politiche che si appellavano apertamente alla forza (vuoi quella fascista oppure quella comunista teorizzata dai bolscevichi) per introdurre una significativa “sterzata” (rispettivamente a destra e a sinistra) nella politica italiana. Matteotti non si riconoscere in nessuna di tutte queste seducenti, ma false, alternative e in questo preciso contesto denuncia sia l’illegalità complessiva del Parlamento scaturito da elezioni del 1924 in cui il cittadino non è stato libero di esprimere il proprio voto, sia anche la sistematica violazione della legalità operata e teorizzata apertamente tanto a destra quanto a sinistra.
Proprio per questa ragione Matteotti si trovò infine isolato tanto tra le forze della sinistra quanto anche in quelle di destra. E fu isolato e criticato proprio nel momento in cui, da solo, difendeva il Parlamento e l’importanza della stessa ‘legalità’ in quanto tale. Per questa ragione - come ebbe giustamente a scrivere alcuni anni fa Sebastiano Timpanaro (in una sua premessa alle “Lettere a Giacomo” di Velia Titta Matteotti) - è “riduttivo vedere in Matteotti soltanto “il martire” - anche se non a caso egli diventò il simbolo dell’eroica lotta, fino al sacrificio, contro la barbarie fascista -, ignorando la sua eccezionale lucidità politica, il suo antifascismo precocissimo e combattivo non accompagnato mai da nostalgie dei regimi politico-sociali prefascisti […], il ripudio di qualsiasi miope fiducia nutrita non solo da liberali come Giolitti e Croce, ma anche, in una certa misura, da gran parte del Psi e, dapprima, dei comunisti stessi, che il fascismo fosse destinato a “esaurirsi da sé” per cedere di nuovo il passo allo Stato liberale”.
Al contrario per Matteotti il socialismo andava invece costruito dal basso, passo dopo passo, con quella pregnante coerenza rivoluzionaria che solo gli autentici riformisti sanno attuare… Per questa precisa ragione la scelta aventiniana - praticata dalle opposizioni subito dopo l’assassinio di Matteotti - costituisce, secondo l’acuta analisi di Aurelio Macchioro, “la scelta più anti-matteottiana che potesse darsi: un rivolgersi a un paese-non-si-sa-quale con la Questione morale piuttosto che affrontare i rischi di spostare i voti della Camera e di essere, sia pure, accoppati per strada dall’ultima ondata di squadrismo”.