Il 25 Aprile scorso, data simbolica e fortemente evocativa dei valori su cui la Cgil fonda la propria azione politico-sindacale, è iniziata la raccolta delle firme per quattro referendum che, accanto ad una proposta di legge di iniziativa popolare, hanno l’obiettivo dichiarato di combattere la precarietà del lavoro e contribuire a ridisegnare un diritto del lavoro degno di questo nome, nel rispetto dei principi della nostra Costituzione.
Non è un caso che sia stata scelta questa data: dopo lo schiaffo che la neopresidente del consiglio Giorgia Meloni ha voluto assestare lo scorso anno approfittando spudoratamente di una data simbolica, il Primo Maggio, per varare in pompa magna un decreto-legge che prosegue nella più che ventennale opera di destrutturazione del diritto del lavoro, la risposta della Cgil non poteva essere più efficace e risoluta. Una nuova Liberazione, quindi, stavolta dallo stantio mantra neoliberista che da troppo tempo esige e disegna un mondo del lavoro sempre più svalutato e sempre più povero.
Le politiche del governo in carica, a partire dalla recente legge delega sulla contrattazione (che ha svilito e svuotato il disegno di legge delle opposizioni sul cosiddetto salario minimo), mirano alla radicale messa in discussione del ruolo del sindacato e della Cgil in particolare, contribuendo altresì all’ulteriore diffusione di precarietà e lavoro povero. Ciò ha richiesto una mobilitazione del movimento sindacale con una serie di iniziative anche di carattere istituzionale.
Di qui la decisione di attivare quattro iniziative referendarie, in abbinamento con una proposta di legge di iniziativa popolare (sulla scia della nostra Carta dei diritti del 2016), e con l’organizzazione di un mirato contenzioso giudiziario. Il tutto avvalendosi di un nutrito e generoso gruppo di giuristi facenti parte della Consulta giuridica nazionale, in sinergia con l’Ufficio giuridico Confederale.
Queste tre nuove prospettive “istituzionali” di impegno sindacale sul fronte del lavoro, realizzate congiuntamente, possono ridurre notevolmente i rischi sottesi a ciascuna di esse: da un lato il mancato superamento del quorum per i referendum, dall’altro l’accantonamento parlamentare della proposta di legge e la proliferazione di un contenzioso privo di una forte guida che ne comprometta l’impatto generale.
Visto che nel nostro ordinamento il referendum ha esclusivamente carattere abrogativo (e non propositivo), ciò che non si è potuto tecnicamente realizzare attraverso i quesiti è stato affidato alla proposta di legge d’iniziativa popolare in cui la Cgil, partendo dalla Carta dei diritti, ha nuovamente affrontato, aggiornandoli e arricchendoli, i contenuti di un nuovo diritto del lavoro “progressivo”, nei temi cruciali: appalti, contratti a termine, lavoro autonomo, intelligenza artificiale e lavoro su piattaforme, part-time, apprendistato e contratto d’ingresso, licenziamenti, costi della giustizia del lavoro.
La scelta referendaria è caduta su temi che rappresentano plasticamente, nella loro involuzione normativa, il percorso declinante del giuslavorismo italiano: licenziamenti, contratti a termine e appalti, la summa degli strumenti attraverso i quali nel nostro Paese il lavoro è stato reso sempre più precario e sempre più povero.
Per quanto riguarda il primo quesito, la disciplina del Jobs Act (d.lgs. 23/2015), escludendo nella quasi totalità dei casi la reintegrazione, ha determinato, soprattutto nei casi di licenziamento per motivi economici, la precarizzazione di tutti i rapporti di lavoro attivati a partire dalla data di entrata in vigore, il 7 marzo 2015. Le norme del decreto costituiscono un sistema improntato alla sola monetizzazione della illegittimità dei licenziamenti, e rispondono ad una precisa opzione di politica del diritto di indebolimento del lavoratore nel rapporto con il datore di lavoro.
Per questi motivi si è scelta un’iniziativa referendaria di totale abrogazione del decreto, anche per assicurare la massima chiarezza e semplicità al quesito. In questo modo, con una richiesta secca di totale abrogazione, dovrebbero essere del tutto evitati eventuali problemi di inammissibilità che la Corte Costituzionale potrebbe sollevare, in ragione del carattere manipolativo del quesito o della sua carenza di chiarezza.
Nell’immediato, il ritorno alla disciplina dell’articolo 18 dello Statuto, oltre a rafforzare la posizione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e a ripristinare in molti casi la reintegrazione come sanzione, avrebbe un importante effetto dissuasivo e deterrente nei confronti dei datori di lavoro.
Con il secondo quesito, sempre in tema di licenziamenti, si è interviene a tutela dei dipendenti di datori di lavoro con meno di 16 addetti, eliminando il tetto massimo (sei mensilità) di indennizzo in caso di licenziamento illegittimo. La stessa Corte Costituzionale, del resto, seppur con riferimento a un’altra norma, ha recentemente riconosciuto (sentenza n.183 del 2022) che “il numero dei dipendenti (...) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro...” criticando l’esistenza di un “limite uniforme e invalicabile di sei mensilità”, applicabile a datori di lavoro - imprenditori e non - che possono rappresentare realtà molto diverse tra loro.
L’abrogazione del tetto massimo all’indennizzo consentirebbe al giudice, qualora considerasse il licenziamento illegittimo, di riconoscere una tutela adeguata al lavoratore, in ragione di diversi parametri (età, carichi familiari, capacità economica dell’azienda), senza limitazioni del quantum. L’ampliamento della tutela indennitaria per il lavoratore svolge anche una funzione dissuasiva e deterrente nei confronti dei datori di lavoro.
Il terzo quesito si incentra sul contratto di lavoro a tempo determinato, oggi disciplinato dagli articoli 19-29 del d.lgs. n. 81/2015. L’attuale disciplina, sulla scia di quanto avviato con la legge n.92 del 2012, si connota per la a-causalità (cioè per la mancanza di condizioni limitative e dunque di una ragione giustificativa obiettiva e temporanea verificabile dal giudice) dei contratti di durata non superiore a dodici mesi; infatti ricorre la previsione di una causale solo in caso di contratti a termine di durata superiore ai 12 mesi (ma comunque non eccedenti i 24 mesi salvo ulteriori prolungamenti nei casi previsti dai contratti collettivi e in sede assistita, vedi articolo 19, commi 2 e 3).
Al fine di ridurre la diffusione di lavoro precario che la disciplina vigente è in grado di alimentare, questa proposta referendaria mira a limitare il ricorso al lavoro a termine, reintroducendo la necessaria presenza di una causale giustificativa temporanea, disciplinata e prevista dai contratti collettivi, per stipulare qualunque contratto a tempo determinato e confermando la durata massima di 24 mesi (fatte sempre salve le diverse estensioni da contratto collettivo). Viene poi confermata la necessità della causale anche nel caso di sostituzione di lavoratori assenti e di proroghe o rinnovi.
Per il ripristino della causale affidata ai contratti collettivi è stato quindi necessario intervenire sugli articoli 19 (commi 1, 1-bis e 4) e 21 (comma 01) del d.lgs. 81/2015. Analogamente si è ritenuto indispensabile intervenire anche sulla causale della lettera b) dell’articolo 19, comma 1, introdotta dal decreto-legge n.48/2023 (quello della “beffa” meloniana del Primo Maggio 2023), che apre la strada ad assunzioni a termine fuori controllo. Secondo l’interpretazione fatta propria anche dal ministero del Lavoro, infatti, in assenza di previsioni dei contratti collettivi, anche le parti ‘individuali’ del contratto di lavoro sono legittimate ad individuare autonomamente le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva giustificative del contratto a termine.
Il quarto quesito mira ad estendere in ogni caso la responsabilità civilistico-risarcitoria dell’imprenditore committente, appaltante lavori o servizi, per i danni derivanti dagli infortuni sul lavoro subiti dai dipendenti dell’appaltatore e di ciascun subappaltatore oltre la quota indennizzata dall’Inail (cosiddetti danni differenziali), attraverso l’abrogazione dell’ultimo periodo dell’articolo 26, comma 4, del d.lgs. 81/2008, che esclude questa responsabilità per i danni derivanti dai rischi specifici dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. Nozione assai dubbia e fonte di incertezze applicative, a danno del lavoratore infortunato.
Il risarcimento del danno differenziale consiste nella differenza tra l’indennizzo che l’Inail riconosce al lavoratore in caso di infortunio o malattia professionale (indennizzo forfetizzato e quindi non onnicomprensivo di tutti i danni subiti), e quello che il giudice riconosce al lavoratore a copertura dei danni ulteriori subiti dal lavoratore stesso in base alle tabelle civilistiche.
L’articolo 26 si inserisce nel complesso degli obblighi di prevenzione delineati, su specifica indicazione della legge delega 123/07, dal d. lgs. 81/08 al fine di prevenire i rischi connessi all’esecuzione di opere e servizi mediante il ricorso ad appalti e subappalti.
La norma merita abrogazione in quanto si presta ad essere interpretata in chiave riduttiva, perché esime dalla predisposizione a carico del committente delle misure di cooperazione e coordinamento sancite dai commi precedenti dell’articolo 26. Inoltre, l’abrogazione vuole assicurare una maggiore tutela del lavoratore in caso di infortunio o malattia professionale, che deriva dalla garanzia dell’integrale copertura dei danni subiti, tanto più rilevante quanto più l’impresa appaltatrice o subappaltatrice sia di dubbia solidità o cessi la propria attività. L’estensione della responsabilità solidale, infine, costituisce un rilevante incentivo per le imprese committenti e, a loro volta, per le imprese che si avvalgono di subappaltatori, a selezionare imprese qualificate e rispettose della normativa su salute e sicurezza sul lavoro.
Si può firmare anche on-line: https://www.collettiva.it/copertine/lavoro/referendum-sul-lavoro-dove-come-quando-e-perche-firmare-l615l6sk