Vincenzo Comito, “Come cambia l’industria. I chip, l’auto, la carne”, Futura Editrice, pagine 181, euro 15.
È stato lo storico francese Fernand Braudel, direttore degli “Annales”, a segnalare che nella storia del capitalismo “ciò che è in gioco ogni volta è lo spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale”. L’ennesima conferma si evince dalla lettura del libro di Vincenzo Comito “Come cambia l’industria. I chip, l’auto, la carne”, che, con una mole impressionante di dati e notizie, documenta lo spostamento in Asia e in particolare in Cina dei settori principali della produzione industriale.
I dati riferiti all’anno 2021 sono eloquenti: il 30,5% della produzione industriale è attribuibile alla Cina, quella in discesa degli Stati Uniti è pari al 16,8%, mentre il Giappone vanta un 7%. Nel dettaglio, la Cina produce il 70% dei pannelli solari su scala mondiale, il 60% delle batterie e delle auto elettriche, oltre a possedere il vantaggio incomparabile del controllo della produzione del 70% delle terre rare.
Al contempo la produzione di fonderia dei chip più avanzati è oggi in capo alla Tsmc a Taiwan, con una quota di mercato superiore al 50%, e alla Samsung nella Corea del Sud con il 17%. Sempre la Samsung, con la SK Hynix, sono il primo e il secondo produttore di chip di memorie al mondo, mentre l’olandese Asml produce sistemi fotolitografici per la produzione dei chip avanzati, con una quota pari al 67% del settore.
Tutto ciò spiega per quali ragioni gli Usa abbiano scatenato una guerra tecnologica e commerciale contro la Cina, chiedendo da un lato alla Tsmc di costruire stabilimenti nel loro paese, nella Ue e in India, e dall’altro lato all’Asml di bloccare tutte le sue esportazioni, innovative o meno, in direzione di Pechino. Con l’evidente obiettivo di riprendere un ruolo di primo piano in questo settore strategico, contando sul peso specifico di alcune aziende, a partire da Intel, da sempre all’avanguardia nella competizione mondiale.
In questo contesto è inevitabile che, attorno all’“European Chips Act”, si registri un diffuso scetticismo sulla sua praticabilità, dato che l’Ue è dipendente per il 98% dalla Cina nel campo delle batterie per il settore dell’auto rispetto al reperimento dei metalli necessari anche per la tanto auspicata transizione energetica. Proprio il settore dell’auto, che fattura annualmente più di 2.000 miliardi di dollari, è caratterizzato sia da un sensibile calo delle vendite, attestatesi a 78 milioni di veicoli nel 2022 (3 milioni in più del 2010), che dal passaggio a quella tecnologia elettrica o ibrida dominata dalle aziende cinesi (Geely, Baidu, ecc.).
Nella competizione globale le grandi multinazionali tedesche e giapponesi si stanno predisponendo per accelerare la riconversione delle loro produzioni, anche se, dopo il caso Volkswagen del 2016, emergono comportamenti di alcuni produttori che contrastano con le normative anti-inquinamento. Di fatto solo la Tesla, a fronte di nove aziende cinesi nei primi dieci posti al mondo, si è dimostrata in grado di competere nel settore dell’elettrico, grazie alla presenza di un suo stabilimento in Cina.
Nonostante ciò, le previsioni di Morgan Stanley stimano che le vetture elettriche saranno nel 2030 solo il 10% del parco circolante: non vi sarà quell’inversione di tendenza finalizzata a contenere il riscaldamento globale, pur se è prevedibile un notevole calo dei livelli produttivi per “il disamoramento crescente verso i veicoli individuali da parte delle nuove generazioni”.
Infine, è notevole lo sguardo che Comito giustamente riserva al settore agro-alimentare, il cui giro d’affari è valutato in 8.000 miliardi di dollari annui. La critica agli allevamenti intensivi e la crescita di consapevolezza sulla sostenibilità ambientale affrontano i fenomeni della degradazione delle terre del pianeta (il 40% al 2022), della grave perdita della biodiversità (l’86% delle specie animali sono a rischio di estinzione), e, purtroppo, stante l’incremento dello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici – in particolare migranti - del grave peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita.
La giusta esigenza di ripensare sia la filiera della carne che quella del settore agricolo, in quanto responsabili di gran parte delle emissioni di gas nocivi e dell’utilizzo smodato di fertilizzanti chimici e pesticidi, nonché del maltrattamento degli stessi animali, si scontra con la difesa ad oltranza degli interessi delle lobby agricole e dei grandi complessi agro-industriali, ma anche con la spaventosa crescita del consumo di carne e latte nel mondo.
Se, come è noto, i nordamericani consumano oltre 100 chili di carne a testa all’anno, i cinesi, che ne mangiavano 4 chili all’anno nel 1979, nel 2013 sono passati a 62 chili. Mentre la produzione di latte dell’India è passata dai 20 milioni di tonnellate del 1970 ai 174 del 2018. Sostanzialmente, sulla scorta delle puntuali e condivisibili riflessioni di Comito, la “trappola evolutiva”, evidenziata dal filosofo della scienza Telmo Pievani ne “La Lettura” del Corriere della Sera del 14 aprile scorso, ci sta conducendo verso una catastrofe ecologica che appare inarrestabile.