Appunti dal sopralluogo al CPR di via Corelli a Milano.
Siamo diciotto, tanti. Parlamentari, consiglieri regionali, membri delle organizzazioni della società civile appartenenti al “Tavolo asilo immigrazioni”, che, alla stessa ora dello stesso giorno, 11 aprile 2024 alle 11, ha organizzato sopralluoghi in tutti gli otto Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) attivi in Italia.
La Cgil è ben rappresentata, segno dell’attenzione che la nostra organizzazione ha saputo mettere, in questi anni, su quello che accade al Cpr di via Corelli, luogo della vergogna della città, contenitore della follia anticostituzionale della detenzione amministrativa. Il ritrovo è sotto il pilone del ponte della tangenziale est, vicino al primo punto di controllo, dove gli agenti verificano la carta di identità. Estrema periferia est della città, ben lontano dalla frenesia che in questi giorni accompagna il salone del mobile e il fuori salone, simboli della Milano attrattiva e internazionale, che sempre più spesso però sembra dimenticarsi delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali che la attraversano.
Ad accoglierci, in attesa dell’arrivo della nuova direttrice in carica dal primo febbraio, a seguito dell’indagine della Procura e del conseguente commissariamento della vecchia gestione, è la psicologa. Per sedici ore a settimana, lei hai il compito di relazionarsi e dare sostegno ad una umanità che non può che essere definita disperata, portatrice di una sofferenza estrema, molte volte di carattere psichico, che continua a farsi la domanda più logica: “Perché sono qui? Perché sono detenuto senza aver commesso alcun reato?”.
L’indagine della procura milanese, con il conseguente commissariamento della struttura, ampiamente documentato dal nostro periodico, ha acceso ulteriormente i riflettori su quando accade al suo interno. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio. Attraverso il commissariamento, il tentativo della Prefettura è quello di far emergere una maggiore trasparenza rispetto al centro. Non è un caso, forse, che, nei diversi sopralluoghi avvenuti lo scorso 15 aprile a Macomer e a Gradisca D’Isonzo, i rappresentanti della società civile non siano fatti stati entrare, mentre credo che la nostra sia stata la delegazione più numerosa mai entrata in un Cpr. Sicuramente in via Corelli.
Al momento sono presenti nel Cpr di via Corelli 44 persone, tutti uomini, su una capienza massima di 48. Più della metà da Marocco e Tunisia, gli altri da Gambia, Algeria, Nigeria e Egitto. Il cibo è dignitoso, gli operatori sociali stanno cercando di prestare maggiore attenzione alla relazione e alla socialità, provando a organizzare alcune attività che riempiano i tempi di giornate completamente vuote. Lo si fa in un contesto carico di tensioni, in cui quotidianamente vengono realizzati atti di autolesionismo da parte delle persone detenute: ingestione di oggetti, fratture degli arti, scioperi della fame. C’è un grande senso di spaesamento, di incertezza del proprio futuro, di non accettazione della privazione della libertà, priva di qualsiasi significato.
Lo dicono con forza le persone che abbiamo incontrato. Uomini che faticano a dialogare con i propri legali, che non hanno consapevolezza dei propri diritti, che non hanno idea di a che punto siano le pratiche della loro richiesta di asilo. Uomini che non vedono tutelato il loro diritto alla privacy, sicuramente nelle celle ma anche nei bagni, dove le porte delle latrine e delle docce, di gomma non si chiudono, e nei colloqui con gli avvocati.
Almeno nella metà dei casi le psicologhe svolgono i colloqui alle finestre delle celle che danno sul cortile. Sono costrette a farlo perché non possono entrare, e perché la lentezza dell’accompagnamento da parte degli agenti negli spazi preposti consentirebbe loro di vedere ben poche persone.
È prevista la compilazione di un registro infermieristico, dove vengono annotati gli episodi di rilevanza sanitaria e gli “eventi critici” che accadono all’interno della struttura. Quest’ultimo aspetto fa riflettere: c’è una estrema arbitrarietà nella definizione di “evento critico” e la sua compilazione, fatta a mano, appare assai pasticciata e lascia profonde lacune rispetto alla ricostruzione di quanto accaduto, oltre a non essere allineata con il registro infermieristico. Il forte aumento delle chiamate delle ambulanze, ben 29 volte dall’inizio del mese di aprile, manifesta ulteriormente l’esistenza di un luogo di profonda sofferenza.
“Come è andata, che emozioni hai provato?”, ha chiesto mia moglie, a casa, discutendo di quanto visto. Indignazione e rabbia, non può che essere questa la risposta. Mi è venuto in mente Manzoni, che nei Promessi Sposi, a proposito della peste e degli untori, ci ricorda che “il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Viviamo tempi bui, ma abbiamo il dovere di resistere, di continuare a chiedere la chiusura dei centri per i rimpatri, perché non hanno alcuna logica, se non quella di violentare quotidianamente il buon senso e i principi della nostra Carta costituzionale.