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Si sta concludendo un anno difficile per il paese, per i più poveri, i lavoratori, i pensionati, le donne e le giovani generazioni. Un anno con un pericoloso governo di destra, con una presidente del Consiglio, la seconda carica dello Stato e alcuni ministri che non hanno mai abiurato al fascismo. Una destra con una sottocultura dittatoriale nell’esercizio del potere, di repressione di chi lotta per il cambiamento e classista sul piano sociale ed economico. Le scelte, gli scioperi e le mobilitazioni, le alleanze sociali che la Cgil ha promosso si sono rivelati giusti. Le conquiste di decenni di lotte non sono mai acquisite per sempre.
L’anno che verrà non sarà migliore! Dovremo continuare la mobilitazione, non arrenderci alla crisi di sistema a livello internazionale, alle guerre “imperiali” nel cuore dell’Europa e in Medio Oriente, con le tragiche conseguenze umane, sociali e ambientali. La crisi climatica è vicina al punto di non ritorno, e una politica miope, al servizio del mercato e del capitalismo, non vuole affrontarla, come dimostra il fallimento di Cop28.
L’Ue e l’Occidente rischiano di perdere la civiltà e i “valori fondativi” sostenendo le atrocità del governo reazionario di Israele che affama e condanna a morte migliaia di palestinesi. Si continuano a costruire armi e a fornirle a dittature, all’esercito israeliano e a quello ucraino, che non conseguirà mai una vittoria militare contro l’aggressore russo. Si continuerà solo a causare morte di civili e militari e devastazione del territorio.
Si fermino le carneficine e si avviino i tavoli della Pace. L'Europa e l’Occidente perdono ogni credibilità perseguendo logiche colonizzatrici e imperialistiche, in difesa dei propri interessi economici, finanziari e geopolitici, disconoscendo il diritto umanitario e internazionale.
Siamo a un passaggio cruciale per un’Ue che ripropone fallimentari politiche neoliberiste e di austerità, vincoli di stabilità che sono una sciagura per molti paesi, tra cui l’Italia, con gravi limiti strutturali e un vertiginoso debito pubblico. Un’Europa che invecchia, circondata da paesi con milioni di giovani in cerca di un futuro migliore, senza uno straccio di politica estera che non sia supina agli interessi di Usa e Nato. Una Ue dove si formano coalizioni di destra, governi nazional-populisti, autoritari e fascisti.
C’è bisogno di un’altra Italia, di un’altra Europa, di Pace, crescita sociale, giustizia e uguaglianza di classe e di genere. Senza la lotta all’evasione, distribuzione della ricchezza, buona occupazione e salari adeguati il nostro paese è destinato al declino. È in crisi la sua tenuta democratica se non si ferma la privatizzazione dei beni pubblici, dell’industria di qualità, se non aumenta la spesa sociale in sanità e scuola pubblica. La nostra lotta economica e sociale si intreccia sempre più con la lotta istituzionale e la difesa della democrazia.
Anche nell’anno che verrà non ci arrenderemo al degrado sociale e culturale: il nostro faro è la Costituzione repubblicana, da difendere e applicare. Gridare “Viva L’Italia antifascista” è ancora necessario. Il paese ha bisogno della Cgil, delle sue donne e dei suoi uomini.
I migliori auguri di buone feste e di un combattivo anno nuovo a tutte e tutti.
Il 12 dicembre, una risoluzione tesa al cessate il fuoco umanitario a Gaza, contestualmente al rilascio senza condizioni degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, ha visto il voto a favore dell'Assemblea generale dell’Onu, con numeri - 153 paesi a favore, 10 contrari e 23 astenuti – che vista la schiacciante maggioranza dei favorevoli al cessate il fuoco non hanno bisogno di ulteriori commenti. La risoluzione si è poi infranta al Consiglio di sicurezza, a causa del voto contrario degli Stati Uniti e dell'astensione della Gran Bretagna.
Tre giorni dopo, Il Consiglio Europeo ha fatto molto peggio, archiviando senza prendere posizione il massacro in corso da due mesi, costato la vita al momento a quasi 20mila palestinesi, a circa 1.500 israeliani, e con atroci, inenarrabili sofferenze delle migliaia di feriti e dell'intera popolazione civile della Striscia di Gaza, come stanno testimoniando i medici dei pochi ospedali ancora in funzione, e i giornalisti che rischiando ogni giorno la vita raccontano la mattanza in corso.
La cosiddetta Unione europea ha addirittura fatto sparire la questione di Gaza nella dichiarazione finale del Consiglio Europeo. Perché alla richiesta di cessate il fuoco avanzata da Irlanda, Belgio, Spagna e Malta, motivata dal fatto che il governo israeliano di Netanyahu può dare la caccia ad Hamas senza per questo condurre l’azione bellica distruttiva che sta portando avanti, si contrapponeva la netta contrarietà di Austria e Repubblica Ceca, contrarietà già manifestata alle Nazioni Unite, così come l'astensione di Italia, Germania, Paesi Bassi, Romania, Slovacchia, Lituania e Ungheria.
Il capo del governo irlandese Leo Varadkar ha amaramente tirato le somme di quanto accaduto: “L’Unione europea ha perso la sua credibilità per non aver preso una linea forte e unitaria sul conflitto. Abbiamo perso credibilità di fronte al Sud globale a causa dei nostri doppi standard. E francamente, chi ci critica non ha tutti i torti”.
La Marcia straordinaria per la pace in Medio Oriente ha avuto al centro l’appello al cessate il fuoco, per fermare la strage degli innocenti. Che si tratti di una strage di civili lo hanno spiegato molto chiaramente i responsabili delle Nazioni Unite presenti, Francesca Albanese, relatrice speciale del Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, che ha ricordato come e quanto il governo israeliano stia violando il diritto umanitario internazionale, e Andrea De Domenico, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati (Ocha), in video-conferenza da Gerusalemme, che ha descritto le condizioni drammatiche di difficile sopravvivenza della popolazione di Gaza, oramai allo stremo, senza più un angolo della Striscia di Gaza che si possa definire “luogo sicuro”. Una crisi umanitaria che non ha precedenti per intensità e rapidità, che distrugge anche la credibilità del diritto internazionale, senza più organi e poteri in grado di garantirne il rispetto e l’applicazione.
La condanna della violenza e del terrore seminato da Hamas il 7 ottobre, e la condanna per la reazione militare scatenata dal governo israeliano come risposta all’azione terroristica, si è ripetuta in ogni intervento. È stato ribadito il diritto di difesa di Israele ma nel rispetto del diritto umanitario internazionale. Su come fare giustizia senza dover fare ricorso ad una nuova ingiustizia ancor più profonda e disumana, come liberare gli ostaggi, come garantire sicurezza a palestinesi ed israeliani, si è sviluppato il dibattito e si è animata la conferenza.
L’ancoraggio al sistema internazionale dei diritti umani, alle convenzioni, ai trattati ed alle risoluzioni Onu sono i fondamentali per costruire l’alternativa e l’uscita dalla logica della guerra e della vendetta. Ma se questi non sono applicati da parte degli Stati e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è bloccato dal potere di veto dei suoi membri permanenti, cosa si può fare?
Su questo punto sono emerse le responsabilità dei governi, a partire dai nostri, che per anni hanno sostenuto la soluzione dei “due Stati per i due Popoli” senza mai applicarla. Anzi hanno lasciato che lo stato di fatto, l’occupazione e la creazione di nuove colonie nei territori palestinesi, andasse avanti, togliendo speranze ad un intero popolo e aprendo la strada ad altre soluzioni, radicali e violente.
Questa tesi, ribadita da molti interventi durante la conferenza di Assisi, richiama la responsabilità di tutta la comunità internazionale e interroga su come costruire una via d’uscita al conflitto israelo-palestinese, fermando la spirale di violenza che ha raggiunto livelli tali da far invocare al Segretario Generale Guterres l’articolo 99 della Carta delle Nazioni Unite, ossia, il rischio della sicurezza globale.
In questo contesto, è stato importante ascoltare le voci di israeliani e palestinesi ancora disponibili a dialogare ed a confrontarsi con il “nemico”, con l’altro, pieni di dubbi e di ripensamenti. Voci sofferte di chi è sotto shock, di chi ha perso amici e familiari, di chi ha visto vacillare le proprie idee e il lavoro di anni di dialogo e di impegno per la pace, di chi non vede più una soluzione politica, di chi invoca la comunità internazionale.
Riconoscere lo Stato di Palestina, ora o mai più, sembra essere il messaggio trasmesso negli interventi di Hassan Khatib e da Alon Liel, anche se in pochi credono alla sua concreta fattibilità ma è ancora l’unica opzione in campo, con una base giuridica internazionale e in grado di creare uguali diritti e legittimità internazionale ai palestinesi. Poi il resto lo farà la storia, lo faranno le rispettive leadership e la volontà popolare, sempre e quando si investa sulle libertà, sui diritti e sulla democrazia.
Per noi, si conferma un contesto politico, sociale e culturale molto complicato, condizionato da una azione mediatica impegnata a promuovere la logica dello schieramento del “pro” o “contro” Israele o “pro” o “contro” i palestinesi, mescolando la critica all’azione del governo di ultra-destra, xenofobo, razzista israeliano con l’anti-semitismo, come il sostegno al diritto di auto-determinazione del popolo palestinese con il sostegno ad Hamas e al terrorismo. E, viceversa, la denuncia dell’atto criminale di Hamas, come sostegno all’azione militare israeliana contro la popolazione di Gaza o di sostegno al progetto sionista.
E' una polarizzazione ed una radicalizzazione delle posizioni che produce un mix pericolosissimo per le libertà d’espressione, d’associazione e per la democrazia, ma anche per ri-costruire e coltivare il terreno del dialogo tra le due parti, del rispetto reciproco e della fiducia. Condizioni, queste, che debbono essere presenti accanto al rispetto del diritto internazionale, per costruire convivenza, diritti e pace stabile.
Il bilancio della guerra in atto in Palestina è sempre più drammatico: al 12 dicembre, a Gaza 18.412 morti, di cui 8.100 bambini, 6.200 donne, 290 operatori sanitari, 86 giornalisti, 64mila feriti, oltre 7.700 dispersi, un milione e ottocentomila sfollati, di cui 1,2 milioni accolti dall’Unrwa, 101 ambulanze distrutte, 221 scuole, 254mila case, tre chiese, 84 moschee, 22 ospedali e 110 strutture sanitarie resi inutilizzabili. In Cisgiordania dall’inizio di quest’anno sono 474 i palestinesi uccisi, 240 solo dal 7 ottobre, e 3.600 gli arrestati.
La Fondazione palestinese contro il muro e gli insediamenti in Cisgiordania pubblica nel suo rapporto periodico numeri incredibili: 1.692 aggressioni di soldati e di coloni contro villaggi e città palestinesi nell’arco del 2023, 35 famiglie palestinesi da Hebron e da Ramallah deportate e, in aggiunta, lo sradicamento di oltre 3.232 alberi di cui 3.082 olivi. Oggi in Cisgiordania ci sono 336 posti di blocco dei soldati, che separano i centri abitati palestinesi impedendo lo spostamento per lavoro, salute o acquisto di generi alimentari.
Dopo 67 giorni di bombardamenti senza precedenti da cielo, mare e terra, su tutto il territorio (Gaza è su 360 km quadrati), con bombe che pesano oltre 900 kg, si può stilare una valutazione di questa sporca guerra.
Il fallimento è di carattere umano, militare, politico, economico, culturale, sia per Israele che per l’Occidente, in modo particolare per gli storici alleati, gli Usa, in buona compagnia con le potenze europee, Inghilterra e Germania, Francia, Italia, che tracciano un’ambigua politica dell’Unione europea.
A livello umano, quando uno o più Stati provocano le tragedie di cui sopra in un arco di tempo così breve e continuano a provocare morti e distruzione e bombardamenti dei civili rifiutando ogni forma di tregua, mettono la firma sulla loro azione politica disumana.
A livello militare è evidente il potenziale presente in zona, con la sesta flotta Usa, le navi inglesi, il ponte aereo per forniture di armi e materiale bellico, con il territorio italiano diventato base importante, non solo Sigonella, per il transito di armi verso il governo israeliano. Ma quando il potente non realizza una forte vittoria significa che ha perso, e quando il debole sopravvive significa che ha vinto. L’accanimento verso la popolazione civile ne è la dimostrazione lampante.
A livello politico, questa guerra ha prodotto e produrrà conseguenze non solo tra Hamas e Israele, ma anche per il futuro dell’attuale governo israeliano e del primo ministro e nell’Autorità Nazionale Palestinese, totalmente inerte in questa fase complicatissima.
In Medio Oriente le conseguenze politiche implicheranno una recrudescenza del terrorismo internazionale, se non si avrà la capacità di fermare il massacro e trovare una soluzione che apra al dialogo reciproco.
Dal punto di vista economico, la distruzione totale delle infrastrutture e la demolizione di tutte le strutture produttive ha già provocato un disastro, povertà e riduzione dell’economia a livello di pura sussistenza. Un’amica mi scrive: “Qui non si muore solo di bombe, ma la gente inizia a morire di fame”.
Dal punto di vista culturale, questa guerra ha allargato il vuoto tra due mondi, il mondo Occidentale e quello Orientale. Da un lato e dall’altro ha unificato altri mondi storicamente antagonisti: il mondo Sunnita, rappresentato dai paesi arabi, e quello Sciita, rappresentato dal mondo persiano. Da questo punto di vista, la guerra e il comportamento dell’Europa ha di fatto dato il colpo di grazia ai movimenti di matrice laica, e regalato il mondo arabo ed islamico agli integralisti. Di conseguenza Hamas oggi e domani può contare su un bacino di 350 milioni di persone disperate e senza futuro.
Nel contesto attuale, nessun palestinese, nessun partito politico, nessuna organizzazione palestinese è disponibile ad ascoltare promesse e slogan da parte di nessuno e, per rispetto delle tante vite spezzate, il mondo intero è chiamato a rendere giustizia al popolo palestinese.
Se il mondo occidentale e in particolare l’Unione europea vogliono recuperare un ruolo agli occhi dei palestinesi, devono diventare fatti le promesse di risolvere in modo duraturo il conflitto palestino-israeliano, attraverso il riconoscimento immediato dello Stato di Palestina.
Quale sarà l’assetto futuro, se con due Stati distinti oppure una confederazione, lo capiremo solo al tavolo di una trattativa seria, che salvi i popoli in guerra e salvi anche gli Stati occidentali e dell’Ue dalla prospettiva di una regionalizzazione del conflitto e dall’allargamento degli scenari di guerra.
Il voto dell’Assemblea Generale della Nazione Unite del 12 dicembre, con una maggioranza storica di 153 Stati a favore del cessate il fuoco immediato, 10 contrari e 23 astenuti, tra cui l’Italia, rappresenta una speranza per mettere fine a questo genocidio. Ci auguriamo che sarà applicato perché potrebbe anche rappresentare l’inizio di un percorso nuovo per dare credibilità e fiducia a queste istituzioni internazionali.