La scuola si tinge di nero - di Raffaele Miglietta

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Il nuovo anno scolastico, il primo vero dell’era Meloni, si apre con un segnale politico incontrovertibile, ovvero l’estromissione dell’Anpi dalle scuole. Infatti il ministro Valditara ha ritenuto di non rinnovare l’accordo di collaborazione (gratuita) che consentiva all’associazione di incontrare gli studenti per trattare i temi della Resistenza e della Costituzione. Il ministro ha motivato la sua decisione affermando che la Resistenza è un patrimonio di tutti e non può essere monopolio dell’Anpi. Non sappiamo se, per rompere questo presupposto monopolio, il ministro intenda dare voce anche ai reduci di Salò, ma quello che sembra evidente è che i valori della Resistenza e dell’antifascismo sono sempre meno tollerati dai rappresentanti del governo in carica (ricordiamo, tra gli altri, il presidente del Senato, La Russa, quando ha affermato che nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo).

Purtroppo, il nuovo anno scolastico non è segnato solo da questa novità fortemente simbolica ma anche da altri fatti molto concreti che si ripercuotono negativamente sulle condizioni di studio e di lavoro di studenti e lavoratori della scuola. La questione più grave è la conferma della drammatica carenza di organico (sia docente che Ata) nonostante il ministro avesse perentoriamente affermato che la ripartenza quest’anno sarebbe stata senza problemi. Purtroppo così non è stato e, nonostante le dichiarazioni in favore di stampa, nelle scuole (specie nelle regioni del nord) sono emersi paurosi vuoti di organico per colmare i quali sarà necessario anche quest’anno ricorrere all’assunzione di ben 200mila lavoratori precari. Si tratta di una questione annosa che danneggia sia gli alunni a cui non viene garantita la continuità didattica, sia i docenti precari costretti a cambiare scuola ogni anno e a cui non viene assicurata la stabilizzazione del posto di lavoro.

Più in generale il nostro sistema scolastico fa sempre più fatica a rispondere alle numerose e complesse necessità educative e didattiche di tanti alunni e studenti ormai segnati da profondi divari sociali, economici e territoriali che caratterizzano il Paese. A fronte di un diffuso disagio giovanile, i cui episodi più estremi e violenti anche di recente hanno raggiunto le prime pagine di tutti i giornali, questo governo non trova altra soluzione che ricorrere a misure repressive e punitive che, seppur consone alla propria tradizione e cultura politica, sono però del tutto incongrue e inefficaci.

È quanto avvenuto, ad esempio, con il cosiddetto decreto Caivano (adottato a seguito del grave episodio di violenza accaduto proprio in quel territorio) che - al fine di contrastare la povertà educativa e la criminalità minorile - ha disposto un inasprimento delle pene e dei divieti nei confronti dei minori e dei genitori nella presunzione che i reati e i problemi si estinguano semplicemente rincarando l’azione punitiva (d’altronde è la stessa ricetta utilizzata per fronteggiare l’immigrazione).

Inoltre, il decreto ha previsto interventi - come l’incremento dell’organico per un limitatissimo numero di scuole a rischio - che sono del tutto inadeguati ed estemporanei per prevenire e fronteggiare l’emergenza sociale ed educativa che coinvolge gran parte del Meridione e di tutto il Paese.

Anche le ultime misure per la scuola approvate di recente in Consiglio dei ministri si muovono nella stessa direzione prevedendo in un unico disegno di legge due disposizioni diverse ma paradossalmente complementari. Da una parte la riforma, di stampo classista, degli istituti tecnici e professionali che prevede un percorso dequalificato e ridotto di un anno rispetto a quelli dei licei e che, presumibilmente, sarà riservato a chi, per condizioni sociali ed economiche, sarà costretto ad un precoce addestramento formativo funzionale al sistema delle imprese ma non certo al futuro e alla stabilità occupazionale degli studenti. Dall’altra parte si prevede un inasprimento del voto in condotta quale misura disciplinatrice dei comportamenti scolastici i cui effetti ricadranno prevalentemente sugli studenti meno abbienti, dimenticando che il comportamento è un problema non solo disciplinare ma soprattutto educativo che rimanda alla qualità dell’istruzione e dell’insegnamento in particolare nei confronti dei soggetti più difficili e bisognosi.

La strada per la scuola all’epoca della destra appare pertanto tracciata, con misure punitive, soluzioni classiste, definanziamento dell’istruzione pubblica (a partire dall’assenza di risorse per il rinnovo del contratto del personale della scuola) a favore di un sistema scolastico che salvaguarda i privilegiati e colpisce i più deboli.

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