Aa. Vv., L’Inflazione, Edizioni Punto Rosso, pagine 202, euro 18.
I fenomeni inflazionistici non sono certo una novità nella storia del capitalismo internazionale. Ognuno di questi fenomeni ha una sua diversa scaturigine, a partire dal contesto economico che ne determina la propagazione in ogni entità nazionale.
L’ultimo processo inflazionistico risale al periodo 1968-1975, tanto che alla Casa della Cultura di Milano, con un ciclo di lezioni svolte tra il 10 dicembre 1976 e il 24 febbraio 1977, venne scientificamente indagato il suo collegamento con la recessione economica che andava profilandosi (si veda: “Lezioni di Economia. L’Inflazione”, Aa.Vv. a cura di Ferdinando Targetti, Feltrinelli 1979).
Oltre al conio del termine “stagflazione”, in quella fase storica fu siglato, il 25 gennaio del 1975, l’importante accordo sul punto unico di contingenza tra la Confindustria e le organizzazioni sindacali, che seppur recuperava solo successivamente gli aumenti dei prezzi, diventò l’incubo delle classi dominanti, e gli incrementi salariali furono accusati di ingenerare la spirale prezzi-salari.
Ora, a fronte di una nuova fiammata inflazionistica innescata a partire dal biennio 2021-22 dal rincaro speculativo dei prezzi dei beni energetici, che ha causato una sensibile caduta dei salari nei paesi Ocse, il libro “L’Inflazione” mette ben a fuoco le cause strutturali e non di natura monetaria che l’hanno provocata.
La stagnazione secolare e il conseguente calo della domanda aggregata, come segnala Giacomo Cucignatto, sono stati acuiti dalla vicenda pandemica e dal conflitto bellico a livello globale, che ha come epicentro l’Ucraina; per cui i dati sul commercio internazionale indicano un mancato recupero dei livelli pre-crisi 2007-2008.
Se poi si considera che, prevalendo la logica di mercato è assente anche nell’Unione europea un sistema di controllo pubblico dei prezzi strategici, è evidente che in un regime oligopolistico sono le società per azioni a stabilire i prezzi, al fine di remunerare oltre misura i loro azionisti. Quindi non possiamo sorprenderci se si parla di inflazione da profitti, o che addirittura la presidente della Bce, Christine Lagarde, stigmatizzi “l’inflazione da avidità”.
Il recente rapporto redatto da Oxfam e ActionAid, a proposito di 722 tra le più grandi imprese del mondo che hanno realizzato nel biennio scorso quasi mille miliardi di extraprofitti, è in questo senso eloquente. Ma lo squilibrio tra profitti e salari, e quindi tra capitale e lavoro, non è solo un fatto recente, dato che i margini di profitto delle imprese non sono mai stati così elevati dal 1950. Da un lato, la stagnazione dei salari è decollata con il 1980 su scala globale: mentre tra il 1960 e il 1980 i salari seguivano il corso della produttività, da quella data fatidica si è determinato, per Roberto Lampa e Gianmarco Oro, uno scollamento di grandi proporzioni, che ha favorito la caduta della domanda aggregata e la crescita delle diseguaglianze sociali. Al punto che il rapporto tra la paga di un lavoratore medio e di un amministratore delegato è salito a 1 a 399 nel 2021, quando nel 1961 era 1 a 20.
Dall’altro lato, per focalizzare lo sguardo sul nostro paese, giustamente Matteo Gaddi ricostruisce un cinquantennio sul piano del conflitto distributivo, rilevando come l’abbandono del sistema di indicizzazione, e la scelta della “moderazione” salariale in nome dell’interesse generale che è avvenuta con l’assunzione del parametro dell’inflazione programmata e successivamente dell’Ipca depurato dai prezzi energetici importati, ha di fatto permesso di fondare il livello di competitività esclusivamente sui bassi salari. Infatti, nella statistica Ocse pubblicata nel dicembre del 2021 relativamente allo stipendio medio di un lavoratore a partire dal 1990, prendendo in esame l’arco di un trentennio, emerge per il nostro paese un tonfo salariale pari a -2,9%.
Per questa ragione è significativo l’intervento di Stan De Spiegelaere di Uni Europa (il sindacato europeo dei lavoratori dei servizi) perché, riprendendo sinteticamente l’indagine svolta sui sistemi di indicizzazione dei salari su sedici paesi europei, evidenzia come per lo sviluppo della contrattazione collettiva la loro rilevanza sia notevolmente aumentata dopo il ritorno dell’inflazione nell’ultimo biennio.
A questo proposito è indicativo come il Belgio, rispetto alla recente caduta dei salari nei paesi Ocse, con un +2,9% vada invece in una direzione opposta, proprio perché in quel paese è previsto, con il sostegno dello Stato, un adeguamento “smussato” dei salari all’inflazione. Quindi, è percorribile una strada alternativa alle fallimentari e regressive politiche monetarie della Bce. Come sempre, però, la sua praticabilità è affidata alla modifica sostanziale del rapporto tra le classi sociali, e quindi alla ripresa di un lungo ciclo di lotte e mobilitazioni su scala europea.