La questione delle violenze a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, e in maniera particolare con il passaggio della legge sulla riforma delle pensioni con l’uso del “49.3”, è in sé, a mio avviso, un esempio di diverse storie che fanno la complessità del presente.
Ogni Paese deve fare i conti con la sua memoria. Ed è molto spesso penoso, duro, e dovrebbe comportare un ripensamento della struttura del potere. Il passato coloniale francese è fatto di vite consumate, storie personali dolorose, morte, orgoglio e umiliazione. Ferite, cicatrici e cancri che restano il grande nodo della discussione.
“La cultura dell’ordine” nasce nella Francia degli anni Trenta del Novecento con la creazione della Gendarmeria mobile e poi, dopo la Seconda guerra mondiale, delle Compagnies républicaines de sécurité (Crs), divisione che ha una formazione e un equipaggiamento specifici e che è pensata per la gestione delle piazze.
I Crs furono coinvolti negli scontri di piazza che portarono alla morte di un manifestante durante le proteste del movimento pacifista francese contro la visita a Parigi del generale americano Ridgway (1952); nell’uccisione di sette manifestanti, di cui sei algerini, il 14 luglio 1953, nel corso di una protesta contro il colonialismo; di diverse decine di morti il 17 ottobre 1961 in quello che è stato definito un “pogrom antialgerino”, e dei cosiddetti “10 del metro Charonne” nel 1962, durante una manifestazione contro la guerra in Algeria.
La polizia francese di oggi, scrive Mathieu Rigouste sul ‘Guardian’ “è plasmata dalla violenza della sua storia: molti dei suoi metodi di sorveglianza e repressione sono arrivati in patria dal repertorio delle forze che si occupavano degli ‘indigeni nordafricani’ nelle ex colonie francesi”. Per tutto il periodo coloniale, agenti e ufficiali di polizia hanno fatto tesoro delle loro esperienze in luoghi come l’Algeria e le hanno applicate alla sorveglianza dei quartieri popolari e alla repressione delle insurrezioni nella Francia continentale. La caccia all’uomo, la cattura e le tecniche di strangolamento, l’uso della violenza sessuale per umiliare, fanno parte di questa lunga storia.
Gli anni Duemila hanno segnato una svolta, perché diversi media indipendenti hanno dato voce e spazio alle famiglie delle vittime, e nel 2010 i giornali hanno finalmente accolto il termine di “violenza della polizia”, anche se sistematicamente virgolettato.
Nel 2019 però Macron sosteneva ancora: “Non parlate di ‘repressione’ o ‘violenza della polizia’; queste parole sono inaccettabili in uno Stato di diritto”. E Castaner, il suo primo ministro all’epoca, dichiarò: “Non c’è la polizia violenta, non c’è la polizia razzista”.
La presenza armata della polizia in zone dove la delinquenza ha tassi più alti è stata una necessità, una scelta e una giustificazione per un controllo stringente del territorio, che si accompagnava, e si accompagna, a pratiche di controllo e ad abusi costanti sulle persone. Controlli condotti anche più volte su una stessa persona, senza motivo; umiliazioni; complicazione della vita quotidiana; violenze più o meno grandi, spesso gratuite.
La violenza delle forze dell’ordine non è (solo) un problema tecnico, è anche una questione di riconoscimento politico. La polizia non si comporta allo stesso modo con tutti i cittadini, né su tutti i territori. Così come non si comporta allo stesso modo con tutti i manifestanti: alcuni sono più severamente controllati, trattenuti, disciplinati o repressi di altri. La violenza della polizia non è il risultato di una perdita di controllo da parte dello Stato: è una tecnica di governo consolidata da tempo. Tecnica che è stata usata nelle colonie, perfezionata nelle banlieues e ora esportata nelle piazze del Paese.
I recenti cambiamenti nella violenza della polizia sono parte integrante della ristrutturazione neoliberale iniziata nei primi anni Settanta con il lancio dei mercati globali della sicurezza e della difesa. Ci sono poi le scelte politiche e la storia di un Paese. Se alziamo lo sguardo all’Europa, vediamo una Francia che va in direzione opposta rispetto alla “de-escalation” negli scontri di piazza iniziata negli anni Duemila, quando Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Inghilterra, Svizzera, Portogallo e Germania hanno iniziato a incontrarsi per discutere la gestione delle piazze e il rapporto tra forze dell’ordine e cittadinanza. La Francia ha rifiutato di parteciparvi.
Primo Paese europeo per immigrazione dalla fine del XVIII secolo e per tutto il XX, la Francia è meticcia ma non riesce a dirlo. L’ideale universalista repubblicano, che vorrebbe tutti i cittadini uguali nei diritti e laici di fronte alla nazione, si frantuma su una realtà che non riesce, ormai da tempo, a rappresentare. Un presente complesso fatto di storia, di politica, di decisioni precise, di voglia di cambiamento, di frustrazione, di nevrosi, di identità e di memoria.