Clicca sulla copertina per scaricare il pdf
- Visite: 472
Ha un duplice senso politico la grazia che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha concesso a Patrick Zaki, condannato appena 24 ore prima a tre anni di carcere. La prima è il chiaro messaggio inviato da al-Sisi al popolo egiziano: il carcere è una possibilità concreta per tutti, prova ne sono gli attuali 60mila detenuti politici incarcerati a causa di una legge antiterrorismo liberticida, e l'autentica via crucis di Zaki, incarcerato senza processo per quasi due anni con accuse pretestuose, e una volta di fronte ai giudici costretto a subire una lunga trafila di rinvii e udienze inutili.
L'attenta Chiara Cruciati, sul manifesto, tira le somme di quanto accaduto: “Festeggiamo la vita libera di Patrick Zaki. Ma consapevoli che al-Sisi ha vinto ancora. Non ha aperto alcuna breccia nel sistema giudiziario che lui stesso ha creato per silenziare ogni forma di dissenso e punire la disobbedienza, vera o presunta. Non ha messo in dubbio l’impalcatura legale del regime. E' lui che dà le carte, e il banco vince sempre”.
La seconda considerazione da fare è che la “magnanimità” di al-Sisi è anche una richiesta di aiuto all’Occidente, visto il pessimismo generale sulle possibilità del dittatore di portare l’Egitto fuori dalla crisi più grave degli ultimi decenni. A giugno l’inflazione è stata del 36,8%, e in meno di un anno la sterlina egiziana ha perso la metà del suo valore. Il pesantissimo indebitamento di un paese dove gli interessi sul debito pubblico hanno raggiunto i 42 miliardi di dollari l'anno. ha costretto l'Egitto ha contrarre un nuovo prestito dal Fondo monetario internazionale.
La morale dunque è quella di sempre: anche in assenza delle pur minime garanzie civili e sociali al loro interno, alcune nazioni sono geo-politicamente indispensabili agli occhi dell'Occidente, sempre pronto ad accusare i paesi “nemici” di violazioni dei diritti umani ma che chiude occhi e orecchi di fronte ai comportamenti indegni dei paesi “amici”.
L’autunno sarà caldo e non solo per il cambiamento climatico. La crisi ambientale, sanitaria, sociale e la guerra segnano una stagione di scontro per il cambiamento. La sfida è sempre quella su chi paga la crisi strutturale del capitalismo, e di come se ne esce.
La guerra è la faccia più cruenta, criminale dello scontro tra potenze e imperi, con l’Italia e l’Unione europea allo stesso tempo complici e vittime, per il ridisegno degli assetti geopolitici, il controllo delle fonti energetiche e delle terre rare.
La destra al governo non è un incidente della storia, come non lo sono le pessime condizioni sociali, le diseguaglianze, le mancanze di diritti sociali e civili, la diffusa precarietà di vita e di lavoro, lo sfruttamento e lo schiavismo subiti da milioni di persone ricattate in lavori poveri, in nero con salari e condizioni di lavoro incivili.
Da tempo subiamo un arretramento culturale, una restaurazione che intacca il tessuto democratico e civile del paese, che avvelena le coscienze e mina la solidarietà sociale.
Da decenni si muore per lavorare, il paese soffoca nel cemento, nelle speculazioni, nei disastri ambientali. Non da oggi ci sono oltre quattro milioni di persone con salari sotto la soglia di povertà. Da anni pensionati e cittadini indigenti non si curano, non fanno prevenzione perché la sanità pubblica è stata saccheggiata dalla privatizzazione, l’ascensore sociale si è fermato e la scuola è ritornata classista, al sevizio dell’impresa, del mercato e del profitto. La concentrazione delle ricchezze, l’evasione e la perdita della progressività fiscale non sono di oggi.
Se non si parte da qui, se non si ricostruisce un’altra visione di società e di progresso, fuori dalla centralità del mercato e del profitto, non cambieremo il paese e non vinceremo la sfida del futuro.
La destra al governo porterà il paese al disfacimento sociale, alla rottura dei suoi assetti democratici, a una involuzione repressiva e antidemocratica, all’ulteriore smantellamento delle tutele sociali, alla sostituzione del sistema pubblico con quello privato nella sanità, nella scuola, nei trasporti, nell’economia. È una destra arrogante, classista, negazionista persino del cambiamento climatico. Va fermata con la costruzione del consenso, con adeguati rapporti di forza, con le lotte settoriali dentro a un quadro generale.
In questo inedito contesto la Cgil ha un compito immane, rinnovandosi a partire dalle sue radici e dalla sua piena autonomia. La Cgil continuerà la sua azione di proposta generale, di mobilitazione, di difesa dei diritti costituzionali contro i progetti liberisti e autoritari del governo Meloni.
L’impegno della Cgil è di allargare l’opposizione sociale, aumentare l’insediamento nei dispersi luoghi di lavoro, nei territori, diventare strumento organizzativo e di confronto con i movimenti che innervano la società, di partecipazione, di scambio intergenerazionale di saperi e speranze. Per la difesa della democrazia e della giustizia sociale, per l’eguaglianza e i diritti universali, per l’emancipazione e l’unità del paese.
Fisico di fama mondiale, eccellente saggista e divulgatore scientifico, Carlo Rovelli ha fatto parlar di sé anche per la sua lucida, impeccabile presa di posizione contro le guerre che insanguinano il pianeta.
Professor Rovelli, ricordando il titolo di un romanzo di Fruttero e Lucentini, ‘a che punto è la notte’ della guerra in Ucraina?
“Sentinella, a che punto è la notte?”, Shomèr, ma mi-llailah? è un verso del profeta Isaia, nel capitolo dove Isaia scrive “il saccheggiatore che saccheggia, il distruttore che distrugge […] sono troppo sconvolto per udire, troppo sbigottito per vedere. Smarrito è il mio cuore, la costernazione mi invade; il crepuscolo tanto desiderato diventa il mio terrore”. Questa è adesso la terra ucraina. In Shakespeare, Macbeth lo chiede angosciato più volte “A che punto è la notte?”, ossessionato dal suo crimine, mentre Lady Macbeth cammina sonnambula, cercando di lavarsi il sangue dalle mani. Così noi tutti abbiamo il sangue sulle mani per le migliaia di ragazzi ucraini e russi che stiamo massacrando per i nostri giochi di potere.
In una recente intervista ha fotografato così la situazione: “ci sono due maschioni tatuati di periferia che si picchiano di santa ragione e sono disposti a tutto pur di non cedere, e per punire l’altro. In mezzo, un popolo devastato e infinito dolore”. Come uscire da questo vicolo cieco?
Uscire sarebbe facilissimo, se lo volessimo. Basterebbe mettere la ragionevolezza davanti alla sete di dominio, chiedere immediatamente un cessate il fuoco e iniziare a negoziare. Cesserebbero massacri e devastazione. Lo chiedono a gran forza tantissimi governi del mondo, lo chiede il papa, lo chiedono tutte le persone civili, che non mettono interessi economici o calcoli geopolitici davanti al dolore. Per le guerre più lontane da noi, come la guerra in Sudan, noi pensiamo e ci diciamo: “che stupidi e incivili che sono: invece di negoziare e trovare un compromesso, si massacrano”. È esattamente quello che stiamo facendo: “Che stupidi: invece di negoziare e trovare un compromesso, ci massacriamo”. Quello che è in gioco non è se un confine sia trenta chilometri più a destra o più a sinistra, che in fondo è irrilevante; quello che è in gioco è mostrare chi sia il padrone del mondo. L’Occidente vuole mostrare di essere ancora il padrone del mondo, nonostante le batoste prese in Iraq e Afghanistan. Lo fa usando i ragazzi ucraini come carne da macello. La Russia vuole mostrare di non essere totalmente sottomessa all’Occidente. Il resto del mondo non ha alcuna simpatia per l’invasione russa, ma ancora meno per le pretese di dominio dell’Occidente, e quindi aiuta la Russia.
Si continua a parlare unicamente di invii di armi, sempre più letali, all’Ucraina.
Le armi che invia l'Italia non contano nulla, sono irrilevanti rispetto alla quantità di armi che inviano gli Stati Uniti. Servono solo a rimarcare la sudditanza dell’Italia all’impero americano. Gli Americani ne hanno bisogno per fare apparire di non essere solo loro. Hanno bisogno che anche altri si sporchino le mani di sangue. L’Occidente ora invia bombe a grappolo, vietate da trattati internazionali, perché, dicono gli americani, sta finendo le munizioni. Questo significa che una quantità di fuoco occidentale spaventosa si è riversata su quella terra sofferente. Il fuoco degli interi depositi di munizioni della Nato. La propaganda che vediamo ogni giorno sui media occidentali ci mostra i morti e distruzioni causate dal fuoco russo. Quelle causate dalle armi Nato sono di più. Devastano l’Ucraina uccidono e creano dolore altrettanto che il fuoco russo.
Certo, ci sono iniziative per il cessate il fuoco e per restituire la parola alla democrazia, ricordiamo l’impegno del cardinale Zuppi per incarico di Papa Francesco, dei paesi africani, dell’America Latina, della Cina. Ma il risultato finora è lo stallo, a causa dei veti posti dai belligeranti e dai loro sostenitori.
In Ucraina non c’è più democrazia. Non c’è più spazio per partiti di opposizione, per esprimere dissenso. Quando si è in guerra, chiunque provi ad esprimere dissenso è denunciato dal potere come traditore che sostiene il nemico. Succede perfino qui da noi, a migliaia di chilometri dal fronte. Là è ovviamente molto più brutale. Zelenski sta massacrando il suo popolo. Quello che sta facendo è come se l’Italia gettasse tutti i suoi ragazzi in una carneficina feroce e infernale per riconquistare l’Istria (ora parte di una prospera Croazia), o se l’Austria si accanisse in una guerra all’ultimo sangue per riconquistare l’Alto Adige. Anzi, neppure, dato che l’Istria è più culturalmente italiana e l’Altro Adige più culturalmente austriaco di quanto il Donbass sia culturalmente ucraino, anche ammesso che queste assurde distinzioni abbiano un senso. Lo stallo viene soprattutto dagli Stati Uniti, che da questa guerra hanno tutto da guadagnare: dissanguano la Russia, che vedono come l’eterno nemico, l’altra grande potenza nucleare, demoliscono la Germania e l’intera Europa, che vista dagli americani stava un po’ troppo cercando di fare di testa propria, riportandola totalmente sotto il loro controllo. I giornali americani stanno celebrando il successo della Nato in questa guerra, che riporta l’Europa sotto di loro. Il sogno europeo di un mondo governato dalla collaborazione e dagli accordi si è infranto, e stiamo tornando al dominio degli eserciti: cioè all’unico terreno dove gli americani sono ancora potenza unica e indiscussa.
A causa della guerra vengono messi in secondo piano obiettivi sacrosanti come la lotta agli stravolgimenti climatici, le risorse a disposizione vengono dirottate verso le spese militari sacrificando quelle per il welfare. L’Ue ne sta uscendo a pezzi, eppure nelle stanze dei bottoni non c’è alcun ripensamento. Avanti fino alla vittoria, con l’annientamento del nemico. Ma così la pace si allontana sempre più, non le pare?
Certo. Ma la pace non è mai stata obiettivo degli americani. Infatti non ne parlano mai. Gli Stati Uniti hanno voluto essere praticamente ininterrottamente in guerra dopo la Seconda Guerra Mondiale. Senza che nessuno abbia attaccato il loro territorio. L’economia americana fin qui ha sempre prosperato con la guerra, eccetto nei momenti peggiori, come il Vietnam. Per gli Stati Uniti, questo è un tentativo di fare dell’Ucraina un Vietnam per la Russia. Per questo parlano di una guerra che durerà a lungo. Oggi l’economia dell’Occidente non ha più il controllo completo del mondo come lo ha avuto durante il colonialismo e nel periodo post coloniale che è seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Oggi i paesi non occidentali hanno un’economia comparabile se non superiore a quella occidentale. La sola Cina ha un’economia di dimensione simile a quella degli Stati Uniti. Questo ha completamente alterato gli equilibri del vero potere. L’Occidente tuttavia mantiene lo strapotere militare. Gli Stati Uniti spendono per spese militari quanto i dieci paesi successivi nella lista, di cui molti sono loro alleati. Spendono 10 volte di più che la Russia. Ma il potere militare senza equivalente potere economico è fragile, instabile, e ha bisogno di essere brandito e mostrato. A me sembra che l’Occidente sia a un bivio storico maggiore. Da una parte, accettare che il mondo è cambiato in profondità e imparare a convivere con il resto del mondo in termini meno sbilanciati. Accettare la diversità dei sistemi politici e ideologici, collaborare sui grandi problemi comuni dell’umanità, ridurre le tensioni, ridurre globalmente le spese militari. Liberare così risorse per il benessere di tutti. Andare nella direzione che ci chiedono tutti i popoli della terra: vivere in pace, rispettandoci nelle nostre differenze. Dall’altra, ostinarsi a difendere quello che Biden ha chiamato il “US-led world order”, l’ordine del mondo sotto gli Stati Uniti. Per questo servono più guerre. E questo porterà a cercare pretesti per uno scontro armato non tanto con la Russia, quanto con la Cina, che è il vero potere economico alternativo. La Cina non ha alcuna possibilità né alcun interesse a dominare il mondo. In media un americano spende tredici volte di più di un cinese per spese militari. Quello che il mondo sta chiedendo all’Occidente è solo un po’ più di democrazia e di giustizia. L’Occidente, come fa da tre secoli, risponde con le cannonate, e mettendo basi militari e missili atomici sotto il naso di chiunque non si sottometta.
Anche lei è stato messo in croce per aver espresso legittimi e elementari dubbi su quello che da un anno e mezzo sta accadendo sotto i nostri occhi. Non le sembra che la democrazia ne risulti imbavagliata?
No. Nei nostri sistemi politici ognuno può dire quello che vuole. Nessuno mi ha mai impedito di parlare e di scrivere. Il fatto che in tanti abbiano reagito con insulti contro di me ha pochissima rilevanza. Se insultano o fanno facce quando parlo è perché non hanno argomenti migliori. Va benissimo che ci sia chi non è d’accordo con me. Se hanno argomenti convincenti, io sono in ascolto. Non sono certo sicuro di avere la verità in tasca. Provo a capire, ad ascoltare tutti nel mondo, a cercare di smascherare l’ipocrisia con cui si nasconde la piccolezza dei calcoli economici dietro la retorica vuota. La verità alla fine è che a tanti non importa nulla che si massacrino i ragazzi russi e ucraini e si devasti quella terra sofferente. Il calcolo è che l’impero americano non ci ha trattato troppo male, ci ha riempito la pancia, siamo fra i privilegiati, e quindi se ci chiedono un po’ di complicità per i loro massacri, e di sporcarsi un po’ di sangue anche noi, perché no, in fondo i ragazzi italiani non stanno (ancora) morendo in guerra? L’intera élite italiana, l’intera stampa e la quasi totalità dei media sono allineati su questa scelta. Io credo che il calcolo sia miope, la storia si sta muovendo in fretta. Possiamo, motivati dalla nostra meschinità, contribuire ad andare verso la guerra che si prepara (l’Italia manderà una portaerei nel mare della Cina?) oppure possiamo cercare di contribuire ad un mondo di giustizia, collaborazione e pace. Il futuro non dipende solo da noi. Ma dipende anche da noi.
E’ cominciato l’iter della discussione parlamentare al Senato, nella commissione Affari Costituzionali, in merito alla revisione costituzionale degli art.116 comma terzo, e art. 117, primo, secondo e terzo comma su cui si basa il tentativo della maggioranza di instaurare nel nostro paese un sistema di autonomia differenziata, che darebbe alle giunte di tutte le Regioni italiane, tramite una trattativa con il governo che escluderebbe il Parlamento, potere di legiferare su ben 23 materie, tra le quali la sanità, l’istruzione, aspetti rilevanti del lavoro, l’energia, i trasporti e via dicendo. Ovvero l’essenza del welfare state e della politica economica del paese.
Contemporaneamente, sempre al Senato, è in corso la discussione sul disegno di legge Calderoli – Atto Senato n.615 - che vorrebbe stabilire le modalità del percorso legislativo per conferire una simile autonomia alle varie regioni che la chiedono sulla base di un accordo con il governo. La discussione dei due disegni di legge procede parallelamente ma questi non possono essere associati in un unico dibattito per il loro carattere differente, essendo l’una - la nostra proposta di iniziativa popolare – di rango costituzionale, e richiede per la sua approvazione una doppia deliberazione da parte di entrambi i rami del parlamento; l’altra, quella del governo, di carattere ordinario.
Logica vorrebbe che la discussione sul disegno di legge di modifica costituzionale precedesse quella sul disegno di legge del governo, perché qualora venisse approvata, seppure in prima lettura, non avrebbe ragione di esistere la seconda, poiché verrebbero a cadere i presupposti costituzionali, introdotti dalla sciagurata modifica del titolo V operata nel 2001, su cui poggia il ddl governativo. Questa sarà probabilmente la richiesta che le forze di opposizione avanzeranno nei prossimi giorni. Ma, come quasi sempre accade, la logica ha poco da spartire con la politica, per cui è improbabile che tale richiesta possa passare.
D’altro canto, almeno per una delle componenti del governo - la Lega - l’approvazione entro l’estate del ddl Calderoli è questione di grande rilevanza, avendo il ministro più volte dichiarato che la sua presenza nel governo è legata all’approvazione del suo disegno di legge. Che però nel frattempo ha subito diversi colpi. Il più clamoroso dei quali sono state le dimissioni eccellenti di cinque “esperti” chiamati a fare parte di un pletorico comitato che, secondo Calderoli avrebbe dovuto definire i Lep, ovvero i livelli delle prestazioni essenziali da garantire in ogni caso. Il che, come ha più volte osservato la Svimez, non può avvenire con i fichi secchi ma richiede una spesa che si aggira tra 75 e 100 miliardi di euro, cosa che il governo si è ben guardato dal garantire.
Allo stesso tempo sono piovute sul progetto Calderoli un fiume di critiche, anche da fonte istituzionale, che hanno prodotto più di uno scricchiolio nell’impianto di legge governativo. Mi riferisco alle critiche avanzate da Bankitalia, dall’Ufficio parlamentare per il Bilancio, dall’ultimo rapporto annuale della Svimez, dallo stesso rapporto Invalsi sullo stato dell’istruzione nel paese. Anche nella chiesa si sono levate voci autorevoli e contrarie, da ultima quella dell’Arcivescovo di Napoli. Ciononostante Calderoli insiste nella speranza di concludere la discussione entro la pausa estiva dei lavori parlamentari.
Un obiettivo assai difficile, visto che l’illustrazione generale degli emendamenti al suo testo in commissione si è conclusa solo alla fine della scorsa settimana, e in quella entrante si dovrebbe passare al loro voto. Ma il loro numero è elevato e la stessa discussione sta mettendo in luce diverse incrinature nel campo della maggioranza, una parte consistente della quale, in particolare quella che fa capo a Giorgia Meloni, sarebbe soprattutto interessata a mandare avanti i progetti relativi al presidenzialismo o quantomeno al premierato.
Il Pd non è certo compatto sul tema, ma la spinta in senso contrario all’autonomia differenziata fornita dalla nuova segretaria Schlein, come si è visto anche nel recente appuntamento napoletano, sta dando voce e forza a chi, soprattutto tra i parlamentari meridionali, era già contrario o quantomeno fortemente dubbioso sugli esiti di un simile progetto.
Insomma, i mesi di battaglia politica che hanno accompagnato la raccolta di più di centomila firme sulle legge di iniziativa popolare hanno rotto il muro dell’indifferenza e contribuito a spostare, nel campo della sinistra e forse non solo, le opinioni preesistenti. Non diamo per scontato che il disegno dell’autonomia differenziata passi, per quanto preponderanti siano i numeri sui cui la maggioranza può contare. Non dimentichiamo che quei numeri sono stati ampliati da una legge elettorale incostituzionale, e che quindi non corrispondono alla reale maggioranza nel paese.
Per questo la manifestazione già prevista dalla Cgil e da 60 organizzazioni di attivismo sociale per il 30 settembre può assumere un ruolo determinante.