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Dalla pericolosità per la coesione sociale, e per gli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro, del disegno di legge Calderoli sull'autonomia differenziata, alla sempre più necessaria difesa e applicazione della Carta costituzionale, antifascista e fondata su lavoro. Senza dimenticare quella che il segretario nazionale Cgil Christian Ferrari ben definisce “la questione delle questioni”, la pace sparita dai radar dei potenti dell'Occidente sul campo di battaglia ucraino. Una pace che invece deve essere riconquistata, “perché non esiste una soluzione militare a questo conflitto”.
E' stata davvero corposa e di interessante attualità la giornata di studio organizzata a Firenze da Lavoro Società per una Cgil unita e plurale, che ha voluto nel capoluogo toscano oltre a Ferrari la segretaria generale della Flc, Gianna Fracassi, il segretario nazionale Anpi Vincenzo Calò e il costituzionalista Massimo Villone. Autori di una approfondita disamina di alcuni temi urticanti al centro del dibattito politico, a partire dalla strategia operata dal governo di destra di Giorgia Meloni e Matteo Salvini di frantumare l'unità del paese, fingendo di bilanciare le spinte centrifughe delle Regioni del nord (e non solo) con la creazione di un presidenzialismo dell'uomo, o della donna, sola al comando, svuotando i poteri di Parlamento e governo.
Sala piena e attenta nell'ascoltare i relatori, dopo le introduzioni di Giacinto Botti e Tania Benvenuti, perché gli scenari tratteggiati impongono, come ha osservato Villone, l'impegno del sindacato a tutti i livelli. “Per contrastare il ddl Calderoli la Cgil è stata ed è essenziale – annota il costituzionalista – perché fino ad oggi non c'è mai stato un dibattito parlamentare sull'autonomia differenziata, nonostante fosse all'ordine del giorno degli ultimi cinque governi. Segno che c'è una parte, non piccola, di questo paese che la vuole”. Per questo la Costituzione va difesa e applicata, ribadiscono i relatori, per la pace, la coesione e l'unità del paese.
La colorata e multiforme manifestazione di sabato 24 giugno è stata un segnale importante della continuità della mobilitazione della Cgil e della società civile contro il governo di destra e per un’idea diversa di società e di Paese. È un fatto davvero importante che il più grande sindacato italiano e una sessantina di associazioni e coalizioni sociali abbiano deciso di avviare un percorso comune, “Insieme per la Costituzione”.
La manifestazione a difesa della sanità pubblica - devastata da un decennio di tagli (37 miliardi in meno) e di nuovo sottoposta, dal governo a guida postfascista, a tagli reali che la porteranno nuovamente al di sotto della percentuale di spesa sul Pil dei principali paesi europei e della stessa media Ue - è solo l’inizio di una mobilitazione che prevede già per il 30 settembre un’altra manifestazione nazionale, per fermare il progetto eversivo del premierato e dell’autonomia differenziata che scardina l’unità del Paese, la democrazia e i nostri assetti istituzionali.
Una mobilitazione che si intreccia con quella contro la guerra, l’invio delle armi, l’aumento della spesa militare italiana, rilanciata a livello europeo e globale dalla conferenza pacifista di Vienna. E che si inserisce in una risposta ampia della società per i diritti sociali e civili delle persone, pesantemente attaccati ad ogni livello: dai più poveri e svantaggiati ai migranti, dalle bambine e ai bambini figli di coppie arcobaleno e omogenitoriali alle persone lgbtqi+. Non a caso i Pride hanno visto una partecipazione straordinaria in molte città.
Contrariamente all’osceno spettacolo della “beatificazione” di Silvio Berlusconi da parte del teatrino politico-mediatico, la società democratica non dimentica. Se oggi abbiamo i postfascisti al governo il principale responsabile è il miliardario di Arcore e la subcultura velenosa che – con il suo monopolio mediatico e le lunghe permanenze al governo, legiferando a favore dei suoi interessi e del suo blocco di consenso, a partire dagli evasori fiscali – ha fatto regredire l’economia, impoverire il Paese, esplodere le diseguaglianze, frammentare ulteriormente la società.
Nella sua piena autonomia la Cgil si è battuta e si batte per la piena affermazione e attuazione dei valori e dei principi della Costituzione antifascista, nata dalla lotta di Liberazione contro il nazifascismo. Con l’oceanica manifestazione del 23 marzo del 2002 fermammo l’assalto del governo Berlusconi all’articolo 18, poi cancellato dal governo Renzi.
Ora, a partire dalle piattaforme unitarie per il lavoro stabile e sicuro, per la garanzia di una pensione adeguata e dignitosa per tutte e tutti, per un modello di sviluppo basato su pace, cooperazione, riequilibrio ambientale, e grazie ad un’ampia alleanza sociale, ci impegniamo a fermare il disegno autoritario, antidemocratico, classista, di divisione sociale e territoriale, di lotta ai poveri del governo Meloni.
Con la necessaria continuità della mobilitazione, fino allo sciopero generale.
La Conferenza di Vienna del 10 e 11 giugno scorsi è stato il primo appuntamento internazionale promosso da un ampio coordinamento di associazioni, movimenti, reti pacifiste e nonviolente. Provenienti da quaranta paesi, nella capitale austriaca si sono ritrovati i rappresentanti di queste realtà, per ribadire la richiesta di fermare le armi per porre fine alla guerra in Ucraina. Di fronte alle migliaia e migliaia di morti, alle indicibili sofferenze delle popolazioni, alle devastazioni del territorio, è stato unanime l’appello alla comunità internazionale di investire tutte le energie possibili nel negoziato, unica strada possibile per raggiungere la pace. Un passaggio fondamentale, concluso con una dichiarazione finale con cui viene chiesto il cessate il fuoco immediato e l’avvio di negoziati basati su principi di sicurezza comune, del rispetto dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli e delle comunità. La dichiarazione è stata inviata ai leader politici di tutto il mondo, ed a Vienna è stata anche fissata una settimana di mobilitazione comune a livello planetario dal 30 settembre all’8 ottobre prossimi. A questo importante risultato hanno contribuito fattivamente le realtà italiane della coalizione “Europe for Peace”, tra gli organizzatori del vertice. Ne parliamo con Fabio Alberti, fondatore di Un ponte per, che era a Vienna come componente dell’esecutivo della Rete italiana Pace Disarmo.
Fabio Alberti, può farci un consuntivo di questa due giorni austriaca?
A Vienna la Conferenza è andata molto bene, prima di tutto per la partecipazione, visto che c’erano quattrocento delegati provenienti da quaranta paesi. Una partecipazione abbastanza consistente dal Sud del mondo, un fatto che di solito non accade in questi appuntamenti, dove a ritrovarsi sono quasi sempre i soli europei. E va segnalata la presenza di attivisti arrivati dalla Russia, dalla Bielorussia e dall’Ucraina. Una buona risposta insomma, perché c’era bisogno di allargare il più possibile la discussione. Una discussione che ha evidenziato anche approcci differenti sul grado di corresponsabilità occidentale nel conflitto. Andiamo da chi dice che è tutta colpa della Nato, e chi invece dice che è colpa di Putin ma non solo. Comunque è stato condiviso da tutti il fatto che le politiche occidentali dopo il 1989 sono state responsabili, se non della guerra, dello sviluppo di una situazione internazionale in cui la guerra si inquadra.
La presenza di delegazioni arrivate dai paesi del Sud del mondo è riuscita ad allargare e approfondire la discussione?
La loro è stata una posizione significativa, per questo è stato importante che ci fossero. Ad esempio, dalla delegata indiana al vicepresidente della Colombia ci hanno detto: “Guardate che la maggior parte dei paesi, pari al 75% della popolazione mondiale, nonostante condannino l’aggressione russa non stanno applicando le sanzioni, e stanno chiedendo a gran voce il negoziato. Siete solo voi europei a puntare sulla vittoria militare”. La spiegazione che viene data è che, nel complesso, il Sud del mondo non si fida dell’Occidente, e pensa che la guerra possa portare ad una nuova situazione di predominio, o meglio al consolidamento del predominio occidentale nord atlantico sul resto del mondo. Tutti i paesi del Sud hanno questa preoccupazione, la sintesi della delegata indiana lo spiega al meglio: “Noi proponiamo cooperazione, voi proponete competizione”.
Sembra di capire che siano due visioni inconciliabili, non trova?
Sono due strategie, due futuri possibili: da una parte una prospettiva di cooperazione e quindi di multipolarismo, dall’altra una prospettiva di dominio occidentale. Il vicepresidente colombiano, sulla stessa linea della delegata indiana, ha spiegato che è necessario farla finita con queste politiche divisorie operate dall’Occidente. Con unEuropa che non ha fatto niente dopo il 1989, non ha proposto un sistema di difesa collettiva alla Russia, e ha sostanzialmente smantellato gli accordi di Helsinki. Non sembri un paradosso, ma proprio gli attivisti statunitensi sono stati quelli che più degli altri hanno detto che è tutta colpa della Nato. A ben guardare non è così strano, perché il loro movimento della pace è composto da persone che hanno cominciato l’attivismo durante la guerra del Vietnam, e sono passati attraverso la Serbia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia. Verso i loro governanti hanno un occhio particolarmente critico. Naturalmente la condanna dell’invasione è stata unanime, nessuno ha detto Putin ha fatto bene, questo va sempre ripetuto.
Come è stato giudicato dagli attivisti per la pace degli altri paesi il movimento italiano?
Premesso che noi abbiamo una grande tradizione, perché nessuno ha dimenticato che nel 2003 la manifestazione più grande contro la guerra in Iraq fu a Roma, mi dai la possibilità di dire che la partecipazione italiana a Vienna è stata, oltre che numerosa visto che andava dalla Comunità di Sant’Egidio fino alla Cgil, all’Arci, alle Acli e a tante realtà nonviolente, anche molto notata. Questo perché tutta Europa guarda due cose. Per prima la capacità di mobilitazione che abbiamo avuto, e le due manifestazioni italiane sono state le più grandi, sia quella del 5 novembre che quella di marzo. Poi la capacità italiana di costruire un fronte molto largo, e questo sì è riflesso sul comunicato finale, che non si sofferma molto su analisi, giudizi e condizione storica, limitandosi a condannare la guerra. Invece si concentra sulle due principali richieste emerse: il cessate il fuoco, aprendo subito un negoziato, e la necessità di mobilitarsi su due direttrici, quella dell’appoggio alle iniziative di mediazione che stanno emergendo, non solo la Cina ma anche l’Indonesia e l’attività del brasiliano Lula, e il lancio della grande manifestazione mondiale che ci sarà tra fine settembre e inizio ottobre. Insomma il modello italiano, che è stato quello di non dividersi sulle analisi ma unirsi sugli obiettivi, è diventato un modello di riferimento.
Come è stato visto a Vienna il dibattito sull’invio o meno di armamenti all’Ucraina?
Sull’invio di armi una larga parte dei delegati è contraria, perché ribadisce la volontà dei paesi finanziatori di cercare una vittoria impossibile, e quindi prolungare la guerra in alternativa al cessare il fuoco. Del resto il motivo per cui questa guerra va avanti è quello di indebolire così tanto la Russia da non renderla più un problema nel momento in cui si dovesse affrontare la Cina. Se la guerra dura per quattro, cinque anni, a loro va bene. Fanno finta di non vederne i terribili effetti collaterali, non solo nelle zone del conflitto. Al riguardo, due delegate africane che sono intervenute hanno ricordato che la crisi alimentare in Africa provocata dalla guerra è stata tremenda, e ha significato l’impoverimento di tantissime persone.
Non sono solo loro a pagare, anche qui in Europa l’economia di guerra sta provocando veri e propri disastri sociali belle fasce più deboli delle popolazioni.
Noi europei perdiamo soprattutto l’occasione di una collocazione autonoma del nostro modello sociale a livello globale. Perché delle due l’una, se si afferma il concetto della supremazia occidentale non c’è niente da fare, il sistema economico politico sociale europeo si deve adeguare a quello statunitense. Se invece si affermasse una strategia multipolare l’Europa avrebbe molta voce in capitolo, e potrebbe anche produrre politiche diverse. L’Europa avrebbe molti interessi a giocare un ruolo diverso da quello che ha scelto di avere. Un’occasione persa dopo l’89, perché un’eventuale saldatura economico sociale tra l’Europa e la Russia, una Russia che probabilmente non sarebbe precipitata in un’autocrazia, avrebbe fatto di questo blocco economico una potenza di primo piano, che quindi poteva svolgere un ruolo a livello globale. La Germania con Angela Merkel ci ha provato…
Da Vienna è arrivata l’agenda delle mobilitazioni di inizio autunno.
Il prossimo appuntamento in Italia sarà a fine settembre, con una grande manifestazione per il cessate il fuoco. ‘Un ponte per’ ha scelto di partecipare a tutte le mobilitazioni della pace, anche nelle differenze di sensibilità. Come ha detto un ex generale degli Stati Uniti, una signora di settant’anni fra l’altro quacchera, il cessate il fuoco non vuol dire dare ragione alla Russia né consolidare i territori che ha occupato. Significa solo aprire lo spazio per una trattativa che può durare anni, però nel frattempo la gente non muore più.
Qui in Italia c’è stato un governo “tecnico” e poi ora uno di destra, entrambi convinti assertori della guerra “fino alla vittoria finale”.
Dalla crisi economica in poi, quella provocata dal disastro finanziario del 2008-09, è come non si fosse fatto più molto caso a quello che succede fuori dall’Italia. Nella prima ma anche nella seconda guerra del Golfo i supermercati venivano presi d’assalto, c’erano gli scaffali vuoti. Quando invece è scoppiata la guerra in Ucraina non è successo nulla. La gente si è abituata all’idea della guerra, pensa che è lontana e qui non arriva. Del resto questi ultimi trent’anni di guerre post 1989, dalla Serbia all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, hanno abituato molti a pensare che la guerra sia una cosa normale. Se poi aggiungi l’impressionante martellamento dei media, hai un quadro piuttosto veritiero della situazione. Anche se un pezzo anche corposo della società italiana resta contrario alla guerra, al riarmo e all’invio di armamenti.
Una strage sei-sette volte più grande di quella di Cutro quella avvenuta a Pyros, nel mar Egeo, vicino alle coste del Peloponneso. Con una dinamica del tutto simile: un barcone sovraccarico di uomini, donne e bambini che hanno pagato migliaia di euro ciascuno all’organizzazione criminale di scafisti; l’avvistamento di Frontex – agenzia europea che si può a buon diritto definire organizzazione per i respingimenti – che segnala il pericolo per i migranti ai governi dei paesi costieri; l’omissione di soccorso o, peggio, il tentativo di trainare la barca in acque internazionali invece di approntare le necessarie misure di soccorso; il tardivo intervento ad affondamento avvenuto.
Pochi i superstiti, centinaia le vittime, di cui probabilmente non sarà nemmeno possibile recuperare i corpi. Lo strazio dei sopravvissuti e la disperazione dei familiari delle vittime. Il governo greco – diversamente dall’arroganza di quello della “cristiana” Meloni – piange lacrime di coccodrillo e indice tre giorni di lutto nazionale.
Ma la vera e propria guerra dell’Unione europea contro i profughi e i migranti non ha il benché minino ripensamento. Se la strage di Cutro è stata seguita dall’omonimo decreto che rende ancor più chimerica la possibilità per i richiedenti asilo di essere accolti in Italia, la strage di Pyros è stata preceduta di qualche giorno dal vertice dei ministri dell’interno dell’Ue, che hanno trovato un faticoso e non unanime accordo per “riformare” le procedure di frontiera e dell’asilo.
L’accordo, che ha riscritto la proposta fatta dalla Commissione, dovrà essere discusso dal Parlamento europeo per l’approvazione. Le nuove regole prenderanno il posto del famigerato regolamento di Dublino III. Teoricamente introducono quote obbligatorie per il ricollocamento dei migranti, che in realtà rimangono facoltative: tutti gli Stati dovranno partecipare alla redistribuzione dei migranti con una quota minima di 30mila ricollocamenti all’anno, ma in alternativa potranno versare un contributo di 20mila euro a migrante al fondo comune per la gestione delle frontiere esterne.
Rimane il principio del regolamento di Dublino secondo cui il primo paese di ingresso in Ue è responsabile delle domande di asilo. L’esame delle domande dovrà avvenire con una “procedura di frontiera” e concludersi entro 12 settimane dalla presentazione; il paese responsabile della domanda di asilo rimane sempre il paese di primo ingresso in Europa, e il periodo durante il quale uno Stato ha la responsabilità dei migranti arrivati sul suo territorio si allunga da dodici a ventiquattro mesi.
La vera novità consiste nel fatto che gli Stati membri avranno autonomia nel definire un paese di partenza o di transito come “sicuro” e quindi potranno attuare respingimenti anche verso un paese di passaggio (e non solo un rimpatrio verso il paese di origine).
Come hanno subito denunciato le Ong attive nell’accoglienza ed esperti di politiche migratorie, si tratta in realtà di un accordo che viola la Convenzione di Ginevra ed altri trattati internazionali, basandosi sui respingimenti e mettendo in seria discussione il diritto d’asilo. Ciò nonostante Polonia e Ungheria hanno votato contro le nuove regole, perché si oppongono ai ricollocamenti, mentre Malta, Lituania, Slovacchia e Bulgaria si sono astenute.
Il nuovo patto è stato duramente contestato dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani, preoccupate in particolare che tutto diventi “procedura di frontiera”, cioè una procedura sommaria di esame delle domande di asilo, e si stravolga il concetto di paese terzo sicuro.
La stessa logica di respingimento e di esternalizzazione delle frontiere europee, del resto, sta alla base dell’attivismo di Meloni e della Commissione europea nei confronti della Tunisia. L’11 giugno scorso Meloni, von der Leyen e il primo ministro olandese Rutte sono stati a Tunisi per convincere il presidente Kais Saied ad attuare le riforme economiche – cioè tagli e privatizzazioni - richieste dal Fmi, in cambio del prestito da due miliardi di dollari necessario a salvare il paese dal default.
Se l’accordo con il Fmi sarà concluso, l’Ue darà a Tunisi altri 900 milioni di euro, 105 dei quali destinati ad un nuovo accordo sul controllo della migrazione e l’aumento dei rimpatri. Saied ha assicurato il suo impegno nella chiusura delle frontiere meridionali della Tunisia, ma ha replicato di non essere disponibile ad aprire centri in cui siano rimandati anche non tunisini, come chiedono Italia e Ue, anche a seguito del nuovo patto sulla migrazione che permetterà di respingere i migranti in paesi terzi.
Per affrontare la grave crisi economica, sociale e democratica del paese – come sostiene anche il sindacato Ugtt – servirebbe una politica diametralmente opposta dell’Italia e dell’Ue: prestiti incondizionati e canali regolari di accesso per tunisini in cerca di occupazione.