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Care compagne, cari compagni, basta! Troppe ipocrisie, troppe parole vuote dinanzi all’ennesima strage di Stato che si è consumata a Cutro. Abbiamo il diritto di non dimenticare e il dovere di ricordare. Io ricordo le parole del dottor Pietro Bartolo dopo la visita alle carceri libiche: “Li ho visti scuoiati vivi, le ho viste stuprate fino alla paralisi…ho visto anche cosa succede a chi scappa dalla Libia e viene portato lì… Nessun essere umano può essere riportato in Libia. Nessuno”.
“Aiutiamoli a casa loro” si traduce in facciamoli morire. Il commissario delle Nazioni Unite aveva parlato di “un oltraggio alla coscienza dell’umanità”, e l’Onu aveva definito la guardia costiera libica un miscuglio di milizie e di trafficanti di esseri umani. Dal 2017, con il memorandum della vergogna tra Italia e Libia che porta la firma di Marco Minniti, ministro degli Interni del governo Gentiloni, stiamo ancora finanziando economicamente, e con l’invio di mezzi e di armi, la violazione dei diritti umani, della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.
Le politiche repressive dei vari governi degli ultimi decenni nei confronti di un fenomeno epocale come quello dell’immigrazione sono oggi rilanciate da un governo di destra che meriterebbe uno sciopero solo per la sua violenza, la sua disumanità verso i deboli. I poveri e i migranti.
In questi anni oltre ventimila morti annegati, tanti i corpi in fondo al mare, altri rimasti senza nome, mai identificati. I loro morti sono come i nostri. Il dolore di non sapere non ha distinzione di colore, di ceto e di genere. Sono stragi frutto di una politica europea e italiana che si arroga il diritto di vita e di morte sulle persone, facendo divenire un reato il diritto all’immigrazione. Tu sì, se servi al mercato, se fuggi dalla guerra in Ucraina, se sei bianco e ricco. Tu no se sei nero, fuggi da paesi poveri e dalla guerra. Solo il razzismo, il fascismo, l’indifferenza rendono tollerabile lo strazio di migliaia di donne, uomini, bambini e bambine.
Nel 1998 la legge Turco Napolitano istituì i primi Cpt. Nel 2002 la Bossi-Fini, mai messa in discussione dai governi tecnici e di centrosinistra. Nel 2013, il governo Letta istituì il programma “Mare Nostrum” che fu smantellato un anno dopo dal governo Renzi.
Ricordiamo. Il 3 ottobre 2013, a Lampedusa, la più grande strage di immigrati con centinaia di morti, rimasti per mesi in fondo al mare. Nel 2020 il memorandum con la Libia fu rinnovato dal governo M5s-Pd nonostante gli appelli di centinaia di associazioni, compresa la nostra Cgil. Il governo di destra lo ha rinnovato per altri tre anni, ma le responsabilità delle politiche di respingimento non sono solo dell’attuale governo o di quello Conte-Salvini dei decreti sicurezza, che tra l’altro criminalizzavano le Ong identificate come “taxi del mare”.
Il nostro sdegno, il dolore, si trasformino in rabbia, in un sussulto di ribellione, in una critica impietosa verso l’Unione europea finanziaria, mercantile e bellicista, verso i governi e le forze politiche italiane che non hanno prevenuto le stragi. Per questo le bandiere rosse della Cgil hanno riempito le strade di Cutro, e prima ancora quelle di Milano contro il razzismo e la disumanità verso i profughi, e poi quelle di Firenze contro lo squadrismo, il fascismo e la deriva reazionaria. Le nostre piazze sono legate da un filo rosso fatto dei valori, dei principi e della cultura che si trovano nella nostra moderna e attuale Costituzione antifascista, vilipesa e non rispettata, che abbiamo il dovere di difendere e applicare.
Oggi l’Italia è in guerra, contro la maggioranza del popolo italiano e la sua Costituzione che la ripudia. La guerra, essa stessa un crimine, come ci ricordava Gino Strada. Siamo al disfacimento di un’Europa piegata agli interessi Usa, corresponsabile della guerra in Ucraina e della sua pericolosa escalation che si poteva evitare e oggi bisogna fermare. È questa la priorità assoluta, ed è per questo che bisogna dire basta all’invio di armi e al riarmo.
È una guerra per procura e di potere tra imperi, gli Usa contro Cina e Russia, per la conquista e il possesso delle materie prime e il controllo delle vie commerciali, in un mondo in cui, su otto miliardi di persone, noi occidentali siamo un’esigua minoranza. Un conflitto spacciato come difesa della democrazia e della civiltà, le stesse menzogne usate per giustificare le altre guerre in Jugoslavia, Iraq, Afghanistan e Libia. Solo un pazzo o un bugiardo può pensare che si possa arrivare a una vittoria militare contro la Russia e la Cina, sua alleata. Occorre non rassegnarsi alla guerra e avviare una trattativa che porti a una tregua subito e a una Pace possibile, condivisa e duratura.
Il governo classista aumenta le diseguaglianze e la precarietà di vita e di lavoro, privatizza il sistema pubblico, la scuola, la sanità, e vorrebbe con l’autonomia differenziata la secessione dei ricchi e l’isolamento del Sud, scardinare con il presidenzialismo la nostra democrazia parlamentare. Un governo lontano dai valori della Costituzione, con una presidente del Consiglio che non riesce a condannare gli squadristi di Firenze, gli assalitori della nostra sede, i raduni fascisti e nazisti nella Milano medaglia d’oro della Resistenza. Una presidente del Consiglio incapace di prendere le distanze dal ventennio, che giustifica e copre la celebrazione da parte della seconda carica dello stato della nascita del Msi. Si è reso onore ai militanti e ai fondatori di un partito di fucilatori di partigiani, di reduci e collaborazionisti di Salò. Noi rendiamo invece onore e siamo riconoscenti a chi ha lottato ed è morto per la libertà e la nascita della Repubblica.
Una presidente, madre e cristiana, che vuole portare indietro le lancette della storia offuscando non solo i diritti delle famiglie arcobaleno ma quelli delle bambine e dei bambini: negando il diritto all’amore.
Per questa ragione, nonostante il corretto invito istituzionale al nostro Congresso della presidente del Consiglio, rivendico il mio diritto, altrettanto legittimo, di esprimere con rispetto la mia distanza, perché l’antifascismo è elemento costitutivo della mia storia personale e di militante della Cgil. La Cgil è un presidio di democrazia, e affonda le proprie radici nella migliore storia del movimento operaio e della sinistra politica.
Care compagne e cari compagni, il nostro congresso avviene in una fase complicata, dopo quattro anni difficili che hanno visto una pandemia e una guerra, la crisi economica e ambientale. È un momento di libero confronto, di verifica e di prospettiva, di rigenerazione del pensiero e della militanza. Non è un appuntamento di semplice costruzione e rinnovo del gruppo dirigente, ma momento conclusivo di partecipazione attiva e militante nel quale le generazioni non si rottamano, ma si riconoscono, si sostengono, scambiano esperienze e valori, e lottano insieme per conquistare diritti sociali e civili e un paese migliore.
Sappiamo che dobbiamo risalire la china, affrontare l’arretramento culturale, l’individualismo che attraversa anche la nostra rappresentanza, ricostruire i rapporti di forza tra capitale e lavoro, tra sfruttati e sfruttatori, tra ricchi e poveri. Perché il vecchio e il moderno scontro tra capitale e lavoro non è mai scomparso. Riappropriamoci delle nostre antiche quanto moderne parole che hanno il valore della storia e fanno parte della nostra identità.
La battaglia sui valori va ripresa con decisione. E dovremo tenere alta la guardia sulla questione morale che è questione politica. Il verminaio che ha coinvolto il Parlamento europeo, un ex sindacalista Cgil e il segretario generale dell’Ituc, è per noi una ferita, soprattutto per gli accostamenti offensivi con la nostra organizzazione. Ma non siamo tutti uguali. La Cgil ha buoni anticorpi e la nostra diversità etica è indiscutibile. La Cgil è parte lesa: non potrà mai essere la casa dei corruttori e dei corrotti; è il luogo della solidarietà e della militanza, del confronto e dell’espressione del pluralismo delle idee e del pensiero, ed è proprietà collettiva delle iscritte e degli iscritti e non proprietà individuale.
La Cgil non ha bisogno di uomini soli al comando né di fedeltà, ma di lealtà e senso di appartenenza. La distanza tra quanto diciamo e scriviamo e quello che realizziamo è segno della necessità di recuperare confederalità rafforzando il nostro insediamento nei luoghi di lavoro e nella società, attorno al ruolo essenziale delle delegate e dei delegati. Occorre rimettere al centro le idee forti di “lavorare meno, lavorare tutti” per redistribuire il lavoro e “pagare meno per pagare tutti” per sconfiggere l’evasione fiscale e recuperare risorse per lo stato sociale e i servizi pubblici.
La nostra mobilitazione confederale generale nel paese dovrà intrecciarsi con l’azione contrattuale nazionale, territoriale e sociale, sapendo mettere coerentemente contenuti che pongano al centro l’aumento del salario e non surrogati ad esso, e la riduzione e il controllo degli orari.
Dal congresso dovremo uscire più forti, con una Cgil unita, coerente e plurale. Una Cgil gelosa della sua autonomia di pensiero e di proposta, non dipendente dai partiti e dai governi ma mai autosufficiente, indifferente e antipolitica. Noi sappiamo quale sia la differenza storica tra sinistra e destra, e speriamo che la politica progressista e di sinistra ricominci a giocare la sua partita a fianco della Cgil e del mondo del lavoro. Una Cgil con lo sguardo rivolto all’orizzonte, a quanto sta avvenendo in Europa e sul piano internazionale, immersa nella concretezza dei problemi e dei bisogni individuali e generali di chi rappresentiamo.
Questo dipende da noi, tutte e tutti. Siamo il sindacato democratico di rappresentanza generale, la casa della solidarietà e dell’eguaglianza, delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, sempre ancorata a quella visione e a quell’interesse generale che vive nel nostro quadrato rosso.
Care compagne, cari compagni, fuori da qui c’è il paese reale, c’è bisogno di noi, di tutte e di tutti. C’è bisogno della Cgil. Viva la Cgil!
*Intervento al XIX Congresso nazionale Cgil, Rimini 15-18 marzo 2023
Intervento al XIX Congresso nazionale Cgil, Rimini 15-18 marzo 2023.
Quando mi hanno chiesto di intervenire qui, al XIX Congresso della Cgil, mi è mancato il fiato per diversi minuti, poi ho pensato che qui sono libera di dire ciò che voglio e come meglio riesco, perché siamo tra compagni e compagne e tra noi si usa così. Ho anche ripensato a quando, nei vari direttivi a cui partecipo, sento dire che la Rsu, e i delegati quindi, sono la base della grande piramide su cui si regge la confederazione e che quindi siamo l’asse portante della Cgil, e ho deciso che avevate ragione e mi sono fatta coraggio!
Ho pensato che fosse troppo per me parlare di politica, guerra, inflazione e lavoro, poi ho pensato (e mi state facendo pensare tantissimo) che in fabbrica ne parlo tutti i giorni con 800 operai e colleghi; quindi vi racconterò di come tutto questo viene vissuto tra un occhiale e l’altro in una fabbrica del 'Granducato' del Veneto.
Di politica parliamo spesso e volentieri in fabbrica. La considerazione che viene fatta più spesso è “a me non interessa più perché tanto i partiti sono tutti uguali”! Oppure, ancora peggio, mi dicono di votare FI o Lega, per cambiare perché gli altri hanno fatto male o proprio perché si sentono di destra. Il dilemma è quindi se tentare di spiegare che questo è un controsenso, viste le politiche attuate dalla destra per i redditi medio bassi, o evitare la discussione per paura di perdere un iscritto; dobbiamo capire se tentare di fare un ragionamento più ampio e fidelizzare gli iscritti perché hanno i nostri stessi ideali, o 'accontentarci'. Questo per dire che alcuni argomenti così sensibili sono difficili da affrontare, come appunto politica e il nostro sentire, perché c’è sempre la paura di perdere una tessera.
Inflazione si traduce in “quanto mi costa adesso fare la spesa, la benzina, bollette e mutuo?”. Lo lego a welfare e ben stare in fabbrica, conciliazione vita-lavoro, di cui stiamo tanto parlando adesso in sede di rinnovo del Ccnl occhialeria e del contratto integrativo aziendale Luxottica. Penso ad esempio a tutti i bonus che sono stati erogati e utilizzati tantissimo dalle famiglie per la gestione dei figli, ad esempio. Ve lo dico però: credete che ai single come me sia servito il bonus bicicletta del 2020?. Meglio sarebbe stato ragionare di qualcos’altro, di fare qualcosa di diverso. Abbiamo il dovere come sindacato di tutti di ricordarci anche dei lavoratori singoli che hanno sicuramente genitori anziani, o fratelli e sorelle che magari hanno bisogno di aiuto.
Ci lego poi le gabbie salariali e l’autonomia differenziata, tanto caldeggiata in Veneto, che si traduce in basta tasse a Roma e investiamo i nostri soldi in casa nostra. Ricordo sempre ai miei colleghi che c’è molto altro dietro, oneri e onori, e che il discorso così messo è banale. Ricordo a loro le parole di Giorgia Meloni in campagna elettorale, che mi hanno fatto rabbrividire, perché vuol dire lasciare al loro destino i deboli e i fragili: “chi più produce, più lavora e più verrà premiato”. Non possiamo accettare tutto questo, né che i figli di operai studino per continuare a fare gli operai, e che non esista l’ascensore sociale.
Per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro, voglio fare solo un nome per cui la Cgil di Treviso si è costituita parte civile al processo per la sua morte in cantiere: Mattia Battistetti, schiacciato da una gru a soli 23 anni.
Concludo con il messaggio di una collega giunto dopo la proclamazione dello stato di agitazione per come stanno andando le trattative in sede di rinnovo Ccnl. Sabato 11 marzo era per noi un giorno di lavoro, per recupero di flessibilità, e con orgoglio siamo riusciti a tenere fuori più del 40% dei lavoratori (vi assicuro che si tratta di un numero strepitoso in un’azienda in cui il “paron” viene visto come il benefattore). Così Claudia mi scrive: “Grazie a te e alla Cgil, se non ci fosse il sindacato il mondo del lavoro sarebbe ancora più triste”.
Storica responsabile delle relazioni internazionali dell’Arci, oggi vicepresidente vicaria con delega al coordinamento del programma dell’associazione, Raffaella Bolini è soprattutto una infaticabile attivista dei movimenti sociali per la pace, contro il razzismo, per un altro mondo e un’altra Europa possibile. “Faccio parte della generazione pacifista degli anni ‘80 – ha raccontato sul palco di piazza San Giovanni alla manifestazione del 5 novembre della rete Europe for Peace - cresciuta contro la guerra nucleare, per l’Europa unita e poi nei conflitti del Medio Oriente e dei Balcani. Una generazione accudita da Tom Benetollo, don Tonino Bello, padre Ernesto Balducci, Luciana Castellina”.
Bolini, qui si va di male in peggio. Torniamo ai proiettili all’uranio impoverito, quelli che Londra vuole fornire a Kiev, secondo i maligni anche perché costano meno degli altri. Che cosa le ricordano?
“Io ci sono stata nei Balcani, con le missioni umanitarie, mentre nella ex Jugoslavia piovevano proiettili all’uranio impoverito. Una cosa allucinante, ricordo che a un certo punto il governo si inventò una specie di questionario, inviato a tutti quelli che erano stati lì in quel periodo, avvertendo che c’era pericolo e che ai primi sintomi di malessere avresti fatto parte di una banca dati delle potenziali vittime. Lo ripeto, è allucinante, stiamo parlando di qualcosa i cui effetti nefasti sono già stati provati”.
Del resto leggendo il Corriere della Sera saremmo anche allo ‘scontro di civiltà’, nondimeno. Mentre, pur con le sue ambiguità, la Cina è intervenuta proponendo un piano di pace. Ma gli Stati uniti e la Nato non lo hanno neanche letto ...
“Questo dà l’idea di dove siamo arrivati. Abbiamo sostituito il passaggio del negoziato con quello della vittoria, con l’obiettivo della vittoria. La decisione peggiore possibile, perché la guerra prima la fermi e poi negozi. È evidente che questo non deve voler dire che chi ha invaso porta a casa il risultato, è talmente scontato che non andrebbe nemmeno rimarcato. Invece qui abbiamo fatto un cambio di registro che è culturale, tremendamente politico. La guerra va vinta. Ma vinta come? Da un lato ti dicono che non è possibile il cessate il fuoco, perché se tu fai il cessate il fuoco lo fai con i russi dentro l’Ucraina. Dall’altro dicono di essere per il cessate il fuoco una volta che i russi se ne saranno andati. E questo vuol dire che tu prima devi vincere … Penso anche sia demenziale che ogni due per tre la nostra stampa mainstream dia la notizia di quanto i russi sarebbero in difficoltà sul fronte. Magari è vero che hanno sbagliato i calcoli, perché si aspettavano una guerra lampo. Ma stanno comunque continuando a trattare questo conflitto come una guerra su un territorio limitato, perché il giorno che i russi tirano fuori gli arsenali che hanno, nucleari e non, a quel punto è evidente che si corra un pericolo gigantesco. Io non riesco a capire come si possa rischiare una situazione del genere. Intanto gli Stati uniti stanno portando a casa un riallineamento completo dell’Europa sulle posizioni della Nato, mentre noi portiamo a casa il fatto che torniamo sotto lo status dell’autonomia limitata”.
Un’Europa supina, ma non certo afona. Non passa giorno che non ci sia un profluvio di dichiarazioni belligeranti o molto vicine ad esserlo.
“L’Europa ha fatto sentire la propria voce, e si è pure unita. Unita dal punto di vista sbagliato. Certo, c’è chi vorrebbe tirare domani mattina la bomba atomica a Putin, e qualche governo che invece resiste alla spinta, ma in realtà abbiamo completamente accettato l’idea di una Europa unita sotto l’ombrello della Nato. Più guerrafondaia degli Stati uniti, come spesso avviene quando sei in posizione subalterna. Dà più prova di moderazione Biden dei nostri politici europei, che alle volte sembra non capiscano di cosa si sta parlando. Del resto una politica che ha completamente abdicato al potere finanziario è una politica che non esiste più. Non ha più una visione, non rappresenta più i cittadini, gestisce il presente in una visione completamente determinata dal potere finanziario”.
Se questi sono i governanti, la domanda viene spontanea: e i governati che ne pensano?
“C’è una retorica mostruosa che riguarda noi europei, anche di sinistra. Ci consideriamo solo e soltanto la culla della democrazia, dei diritti, delle libertà. Siamo quelli della rivoluzione francese, siamo quelli delle costituzioni più belle del mondo. Ma noi europei siamo anche quelli che si sono inventati il colonialismo, che hanno fatto la tratta degli schiavi, che hanno combattuto fra di loro per centinaia, migliaia di anni. Uno dei nostri miti fondativi è Omero, che parte raccontando una guerra. In realtà siamo quelli che si sono inventati i totalitarismi, e abbiamo dato vita a due guerre mondiali. Se allora, dopo anni di abdicazione della politica dai valori, l’unica visione che ritorna è quella dell’Europa guerriera, a me pare una cosa sconvolgente. Quasi che il lato oscuro dell’Europa stia prevalendo. C’è sempre stato, anche se abbiamo fatto finta che non ci fosse. E ora stiamo tirando fuori dal cassetto i miti fondativi …”.
Una parabola che infiniti lutti addusse agli europei. Che fare allora per allontanare questa nefasta prospettiva?
“Io sono cresciuta dentro un pacifismo e una sinistra che si poneva il problema di buttare giù quel muro per ricostruire un’Europa unita. Quando parlavamo dell’Europa unita, parlo del movimento pacifista degli anni ottanta, dicevamo di una Europa unita dall’Atlantico agli Urali. Con il muro di Berlino ancora in piedi c’erano Willy Brandt, Berlinguer e altri politici di prima grandezza che ragionavano sull’idea di una sicurezza comune. E si ponevano il problema di come un meccanismo di sicurezza europeo dovesse includere la Russia. Perché considerare la Russia come un corpo estraneo all’Europa è una falsità. Prima di tutto storica e culturale, nell’Ottocento avevi i nobili europei che passavano a Mosca o San Pietroburgo l’estate e l’inverno a Parigi. La Russia che è un paese enorme, in parte dentro l’Europa, in parte in Asia, in parte addirittura fino al grande Medio Oriente. E non puoi tagliarne un pezzo, non puoi amputarne una parte”.
Alla fine ogni donna e ogni uomo di buona volontà si ritrovano ad ascoltare Papa Francesco.
“L’unica voce preoccupata è la sua. Perché è una delle poche persone a dire che noi stiamo dentro una guerra mondiale a pezzi, ed è vero. In una guerra mondiale a pezzi che ogni giorno fa tantissime vittime e immani devastazioni. Ma davvero c’è chi pensa che esista una guerra pulita? La guerra l’hanno sempre pagata i civili, i crimini di guerra sono la guerra”.
Bolini, come si esce da questo incubo?
“Difficile immaginarlo. Difficile pensare che bisogna puntare sull’interesse di Biden a concentrare le forze su quello che sarà il prossimo conflitto, quello con la Cina, e quindi sperare che non abbia voglia di voler combattere su due fronti. Del resto questa guerra è cominciata perché nessuno ha voluto realizzare gli accordi di Minsk, che pure erano stati firmati. Allora noi pacifisti abbiamo un dovere, non solo rappresentare la nostra opinione e continuare a mobilitarci per la pace, anche tentare di dare una rappresentanza a chi non ce l’ha. Perché, nonostante la continua narrativa della guerra, i sondaggi dicono che la maggior parte della popolazione è contraria. Anche per i suoi effetti collaterali, penso all’aumento a dismisura delle spese militari, soldi che vengono sottratti ad altre necessità di cui avremmo bisogno, e ai rincari generalizzati che pesano sempre di più nei bilanci familiari, frutto di speculazioni di ogni genere. Poi la speranza di tutti è che non ci sia un incidente di percorso, che pure è sempre dietro l’angolo in situazioni del genere, perché allora non avremmo più di che preoccuparci per il futuro”.
Un’ultima domanda. Pensa che la sua esperienza, quella della sua generazione, possa far capire ai ventenni, ai trentenni di oggi quale sia la posta in gioco?
“Tempo fa ero a Padova ad una iniziativa e mi sono messa a discutere con due ragazzi. Loro dicevano che Putin ha invaso l’Ucraina, e quindi va fermato con le armi. Non riuscivamo a capirci, penso perché questi ragazzi sono nati in un periodo in cui non hanno mai visto la politica all’opera. Quindi sono fermi alla logica amico-nemico. Ma se dai ragione all’idea che l’unica soluzione sono le armi, poi dai ragione a chi dice che se ti rapinano in casa è giusto che tu ti difenda sparando. Se la violenza torna ad essere il modo per risolvere una ingiustizia, allora giustifichi quelli che girano armati. E così torniamo nel Far West”.
Firmiamo online la proposta di legge di iniziativa popolare.
Il disegno di legge Calderoli sulla Autonomia differenziata è stato definitivamente approvato dal Consiglio dei ministri dello scorso 16 marzo. Calderoli aveva promesso un confronto con le Regioni di cui avrebbe tenuto conto. In realtà la ragion politica è prevalsa sul merito, quindi le Regioni che si sono espresse sfavorevolmente al testo di legge governativo sono risultate solo quattro (Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Puglia), quelle rette dal centrosinistra che pure, soprattutto nel caso dell’Emilia, ha le sue pesanti responsabilità per avere avviato il cammino di questa pessima proposta.
L’Anci aveva espresso invece un marcato dissenso. Ma l’esito finale è stato un testo di legge che, salvo qualche integrazione scarsamente significativa, ha confermato l’impianto iniziale, ribadendo che non ci saranno nuovi oneri per la finanza pubblica. Il che liquida in partenza la possibilità che ci siano prestazioni uniformi sul territorio nazionale, poiché il riequilibrio fra Sud e Nord non si può fare coi fichi secchi!
Ora spetterà al Parlamento esaminare il disegno di legge. Ma, anche se il disegno di legge non ci fosse, basterebbero le intese tra Stato e le singole Regioni a fare passare il progetto di autonomia differenziata, visto che il parlamento su queste è chiamato ad una semplice ratifica. Come sappiamo è soprattutto la Lega che spinge per l’approvazione rapida del testo. Sarebbe una sua vittoria politica. La Meloni e la sua parte politica sono più interessati a portare avanti una revisione costituzionale nel senso del presidenzialismo. Ma le ipotesi in questo campo sono ancora indefinite (alla francese, all’americana, alla tedesca, in questo ultimo caso con il premierato?) e comunque richiederebbero tempi più lunghi di approvazione.
Tutto ciò ci richiama ad un impegno più intenso contro l’autonomia differenziata. Nel congresso della Cgil, attraverso le parole del segretario Landini, il pronunciamento contrario al progetto governativo è stato forte e chiaro. Solo che per bloccarlo effettivamente bisogna modificare gli articoli della Costituzione, cioè parti del 116 e del 117, introdotti nel 2001 che già ora permettono l’attuazione della autonomia differenziata tramite intesa fra Stato e singole Regioni. Quindi bisogna sostenere la proposta di legge di iniziativa popolare, elaborata da Massimo Villone e moltissimi altri giuristi, che chiede di impedire il passaggio alle regioni di competenze fondamentali per lo Stato e restituisce al Parlamento un vero ruolo decisionale in materia, introducendo anche una clausola di supremazia dello Stato in materie di interesse strategico per il paese.
Alle parole però non corrispondono del tutto i fatti. Non tutte le categorie della Cgil si stanno muovendo nella raccolta (anche digitale) delle firme, mentre manca poco più di un mese al termine della raccolta ed è necessario quindi un colpo di reni per raggiungere l’obiettivo.
Tanto più che, nel corso della manifestazione del 17 marzo a Napoli delle centinaia di Comuni raccolti sotto la sigla “Recovery Sud”, la stessa vicepresidente del Senato, Mariolina Castellone, ha dichiarato che fisserà subito la discussione sulla materia appena la proposta di legge di iniziativa popolare sarà depositata, come del resto prevede il regolamento di quel ramo del Parlamento. Almeno la discussione è garantita. Il rischio che le 50mila firme finiscano in un cassetto come nel passato non c’è. Ma bisogna raggiungerle.
Nel frattempo le prese di posizione, le dichiarazioni, le argomentazioni contrarie all’autonomia differenziata si moltiplicano, sia a livello istituzionale (vedi ad esempio l’intero consiglio comunale di Napoli), sia a livello politico (vedi le dichiarazioni di Elly Schlein), sia a livello di centri studi.
A quest’ultimo riguardo è significativo citare quanto afferma l’autorevole Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano diretto da Gianpaolo Galli, ex deputato del Partito democratico, nonché ex direttore della Confindustria tra il 2009 e il 2012, che boccia il progetto considerandolo “un chiaro win-win (vittoria comunque ndr) per le Regioni (ovvero i suoi gruppi dirigenti ndr), ma rischia di essere un lose-lose (perdita in ogni caso ndr) per lo Stato e la collettività nazionale, costretti a rincorrere con extra risorse gli squilibri che così si possono generare”. Per conquistare gli appetiti del ceto politico regionale, il governo ha recentemente elencato 500 funzioni statali che potrebbero diventare di competenza regionale. E così la disarticolazione dello Stato sarebbe compiuta.
Per firmare online con lo Spid: www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it