Fabbricare utopie dell’accoglienza. Dalla sicurezza nazionale all’universalismo del lavoro - di Fabrizio Denunzio

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Il campo su cui si costruiscono i modelli valoriali che guidano le politiche dell’accoglienza deve diventare il luogo in cui la ricerca sociale di matrice marxista può superare uno dei suoi principali limiti storici, ossia l’incapacità di fabbricare miti e utopie.

Di tale incapacità, le ragioni epistemologiche sono evidenti, la prima fra tutte l’idea di una scienza sociale dipendente dai modelli positivistici (si pensi al darwinismo), e che per poter affermarsi deve rompere con le forme ingenue, arcaiche e primitive dell’immaginazione, i cui effetti di fascinazione sulla sensibilità umana irretirebbero le coscienze degli individui, distogliendoli dalla comprensione dei meccanismi reali che determinano la loro dominazione. A questo riguardo basta andare a rileggersi le poche pagine che Marx dedica all’arte greca nei ‘Grundisse’, i ‘Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica’, per capire quanto poco una moderna società industriale abbia bisogno di credenze fantastiche per riprodursi.

In realtà, questo stesso limite può essere superato rimanendo all’interno dell’apparato concettuale marxiano, in particolare proprio di quello dei ‘Grundisse’, a patto che l’oggettività della riflessione scientifica si renda disponibile ai sogni dell’utopia, una dimensione che non è fuori della realtà o la nega, ma è sua parte integrante e fonte di rigenerazione, come hanno dimostrato alcuni testi di ispirazione marxista del ‘900, dallo ‘Spirito dell’utopia’ (1918) di Ernst Bloch al ‘Desiderio chiamato Utopia’ (2005) di Fredric Jameson.

L’idea è semplice, come lo sono quelle che hanno animato le utopie: creare una città migliore dove l’intera popolazione possa vivere felicemente. Il semplice fatto che si progettino utopie vuol dire che quella attuale non è la città migliore e che i suoi cittadini non sono felici. L’esistenza stessa delle utopie è una contestazione di ciò che è. Certo, il vaglio critico di ogni proposta utopica è sempre necessario, si pensi ad esempio che nel modello originario di tutte le città ideali, ‘La Repubblica’ di Platone (III, 381), alle madri veniva fatto divieto di narrare ai loro figli quei miti che raccontassero di dei travestiti da stranieri, così da evitare di disporre gli animi dei bambini alla virtù etica dell’ospitalità. Ma, al netto di tutto ciò, la forza sovversiva immanente a ogni progetto utopico non deve mai essere sottovalutata.

L’idea semplice con cui fabbricare un’utopia dell’accoglienza nell’era del capitalismo neoliberale è quella di immaginare i processi migratori non più governati dal ministero degli Interni ma direttamente dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Questo passaggio di competenze non si risolverebbe affatto in un mero cambiamento delle istituzioni deputate all’amministrazione burocratica del fenomeno migratorio, in effetti implicherebbe e realizzerebbe una trasformazione ontologica radicale delle modalità di percezione dello straniero e, di conseguenza, delle politiche di integrazione.

Nell’immigrato non si vedrebbe più un soggetto pericoloso da trattare con quei protocolli securitari razzializzanti fondati sul colore della pelle e sulla confessione religiosa, provvedimenti che hanno fatto e fanno la gloria di ogni compagine partitica avvicendatasi al governo del nostro paese negli ultimi trent’anni, ma lo si percepirebbe contemporaneamente come altro a cui si deve eticamente un’ospitalità incondizionata (Jacques Derrida), e come lavoratore a cui si deve, visto che la società da lì a breve gli riserverà un destino di sfruttamento, una coscienza di classe.

Le organizzazioni dei lavoratori, in linea con il principio morale della fraternità, a suo tempo fondativo dell’Internazionale (Sinistra Sindacale, 2023, n.1), avverse a ogni forma di nazionalismo, l’arma usata da sempre dalla borghesia industriale per dividere gli operai (Sinistra Sindacale, 2022, nn. 16 e 19), si ritroverebbero ad accogliere umanamente lo straniero che arriva e politicamente il lavoratore che diventerà.

Sebbene Marx nei ‘Grundisse’ invitasse ad abbandonare ogni funzione sociale significativa legata alle forme dell’immaginazione (tanto mitica quanto utopica), individuava comunque nel sistema monetario la potenza oggettiva con cui il capitalismo creava un falso universalismo (tutti uguali davanti al valore delle merci), una vuota omogeneizzazione indotta dal calcolo; ora grazie all’utopia di un’accoglienza offerta direttamente dalle organizzazioni dei lavoratori a quei lavoratori a venire che sono gli immigrati, si renderebbe quell’universalismo concreto perché ognuno, al di là delle differenze individuali di cui è portatore, sarebbe tenuto a riconoscersi uguale “davanti a una verità” (Alain Badiou), ossia di condividere la stessa condizione di subalternità dentro e fuori i processi produttivi e, di conseguenza, lo stesso percorso di lotta per emanciparsene.

 

Bibliografia

A. Badiou (1999), San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli.

F. Denunzio (2011), Mito, politica e scienze sociali. Intervista a Pierre Macherey, “Critica marxista”, n. 5.

 

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