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Più di 8.000 morti sulle rotte del Mediterraneo verso l'Europa continuano a non turbare i sonni dei governanti continentali. Dei generali della Fortezza Europa, che al di là delle parole di circostanza insistono a ribadire un solo concetto di fondo: “Fermiamoli a casa loro”. Eppure questi uomini, donne e bambini sono vittime di guerre, violenze e persecuzioni, di carestie, siccità e condizioni di vita intollerabili. Tanto da decidere di fuggire, a qualsiasi costo e con rischi inimmaginabili.

Chi ha partecipato al corteo silenzioso che ha percorso la spiaggia di Steccato di Cutro, per ricordare le vittime dell'ultimo tragico naufragio, tutto questo lo sa. E sa quanta ipocrisia si nasconde dietro le dichiarazioni dei vertici politici del vecchio continente: “L’Italia e l’Europa stanno concentrando i loro sforzi sull’obiettivo di proteggere i confini e impedire le partenze – riassume pet tutti l'associazione umanitaria Save the Children - come se ogni volta quello che succede fosse un drammatico incidente, invece di mettere in campo un sistema di ricerca e soccorso coordinato e strutturato, e di predisporre vie di accesso legali e sicure per chi cerca salvezza e futuro”.

“Le persone in mare vanno sempre soccorse – ripete ancora una volta la Cgil - senza se e senza ma. Ed è una grande falsità pensare che si possano fermare i migranti nei paesi di provenienza”. Eppure i potenti del pianeta insistono, sordi e ciechi davanti all'evidenza dei fatti. Si costruiscono muri, come negli Usa. Si promuovono leggi folli e inumane, come successo in Australia e come sta accadendo oggi nella “civile” Inghilterra, progettando deportazioni in sperdute isole del Pacifico o nei più poveri paesi africani. Ma senza un radicale cambiamento delle politiche migratorie il mare continuerà a riportare a riva cadaveri, come accade sulla bella spiaggia bianca del crotonese dove, in estate, si prende il sole e si fa il bagno.

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Un congresso per il futuro del paese reale - di Giacinto Botti

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Con il Congresso nazionale della Cgil, a Rimini dal 15 al 18 marzo, si conclude un significativo percorso collettivo che, pur nelle difficoltà da non rimuovere, ha visto la partecipazione di oltre un milione e mezzo di iscritte e iscritti. Un congresso di confronto libero, di verifica, di prospettiva e di incontro fra generazioni, che cade in una situazione difficile sul piano democratico, sociale ed economico. Dobbiamo contrastare le scelte di un governo di destra, in continuità con gli indirizzi economici e sociali di quello guidato da Draghi, conservatore e rappresentativo di interessi corporativi e di classe, bellicista e di “legge e ordine”, con ministri fascistoidi, inumani, razzisti, e contro la rappresentanza generale del mondo del lavoro, contro la Cgil in quanto sindacato generale.

In questo impegnativo percorso non ci siamo distratti dal nostro essenziale impegno: essere presenti - pensionati, delegati, operatori e dirigenti sindacali - nelle nostre sedi di accoglienza, nelle Camere del Lavoro, nei luoghi di lavoro, nei territori, in ogni lotta per la pace, il lavoro, i diritti sociali e civili, la democrazia. Le bandiere rosse delle categorie e della confederazione sempre ben visibili e rappresentative.

Siamo ed eravamo nelle piazze per la pace, contro la guerra, il riarmo e l’invio di armi, in difesa della sanità e la scuola pubblica; nelle due piazze, quella di Firenze contro il fascismo, lo squadrismo e il governo reazionario, e quella di Milano e di molte altre città contro il razzismo e la disumanità verso profughi e migranti: un’unica mobilitazione partecipata di donne e uomini di diverse generazioni che si sostengono e si riconoscono in valori condivisi. Piazze della sinistra antifascista, sociale e politica, del sindacato, della Cgil, legate dal filo rosso di principi e cultura della nostra moderna e attuale Costituzione antifascista. Una Costituzione, vilipesa da decenni, che abbiamo il dovere di difendere e applicare.

Siamo una Confederazione di uomini e donne, militanti con valori e senso di appartenenza a un’organizzazione con radici nella migliore storia del movimento operaio internazionale e della sinistra sociale e politica. Nel paese, nei luoghi di lavoro e nella società c’è ancora più bisogno della Cgil.

Dal congresso dovremo uscire ancora più forti, con una Cgil unita e plurale, solidale e coerente. Una Cgil rinnovata, forte della sua autonomia d’azione, di pensiero e di proposta generale di società e di progresso, con lo sguardo rivolto all’orizzonte, a quanto sta avvenendo in Europa e sul piano internazionale, immersa nella quotidianità e nella concretezza dei problemi e dei bisogni individuali e collettivi di chi rappresentiamo, con quella visione generale che vive nel nostro quadrato rosso.

 

Donna, vita, libertà - di Frida Nacinovich

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Le testimonianze di una donna iraniana e una donna afghana, contro le guerre e i regimi autoritari.

Non sono solo le guerre a cancellare vite, speranze, progetti di futuro. Anche gli autoritarismi, in ogni loro forma, minano alla radice quei diritti fondamentali che ogni uomo e ogni donna dovrebbero avere fin dalla loro nascita. Autoritarismi che non sono mai dichiarati ufficialmente ma si affacciano dietro ogni prevaricazione subita dai più deboli, dai migranti, dagli omosessuali, dalle donne. In occasione dello scorso 8 marzo, a Roma dietro l’ideale striscione ‘Donna, vita, libertà’ si sono alternate le testimonianze di giovani ragazze iraniane, afghane, ucraine, siriane, arabe. Testimonianze scritte, lette da loro coetanee dei sindacati italiani, che da sempre difendono valori elementari come la libertà di espressione, il diritto a studiare, a lavorare, a costruirsi un futuro migliore. Abbiamo intervistato due di loro, l’iraniana Samira e l’afghana Maryam, e le loro parole sono la miglior risposta a quei poteri che, con le guerre, le discriminazioni e le prevaricazioni, soffocano valori e diritti in tante parti del pianeta,

Samira, hai partecipato a questa manifestazione in memoria di Mhasa Amini e di chiunque stia lottando per diritti troppo spesso negati. Puoi raccontarci la tua storia?
“Io sono iraniana ma anche italiana. Sono qui per tutte le donne e uomini che in questo momento buio, nel mio paese, stanno combattendo a mani nude per la loro libertà, rischiando la vita. Come ormai sapete, in Iran è un periodo particolare, segnato dalle proteste contro il governo a causa della violenza della ‘polizia morale’ contro le donne, costrette da leggi retrive a coprirsi completamente, dalla testa ai piedi, per uscire di casa. Donne che si vedono negati i più basilari diritti di libertà personale. Io credo sia insensato perseguitare, fino ad arrivare a uccidere come ha fatto la ‘polizia morale’, una ragazza di vent’anni solo per un ciuffo ribelle di capelli che usciva dal velo. Ed è per denunciare l’omicidio di Mhasa Amini che sono iniziate le proteste, dallo scorso 16 settembre. Giorno dopo giorno ci sono state manifestazioni, in tutto l’Iran, perché è apparso subito intollerabile che Mhasa Amini, dopo l’arresto perché non vestiva come impone la legge della sharia, sia stata picchiata a morte dagli agenti. Ma le proteste sono state sedate con le armi dall’esercito iraniano, con più di 500 morti e 11 condanne a morte, fino ad ora”.

Come si può processare e condannare chi è sceso in piazza per manifestare il proprio sdegno per quanto accaduto a Mhasa Amini?
“Il capo di accusa principale per i manifestanti è ‘muharebe’, e cioè ‘guerra contro Dio’. Le condanne vengono emesse al termine di processi farsa, durante i quali vengono utilizzate confessioni estorte con la tortura. Io stessa ormai 11 anni fa ho lasciato il mio paese, la mia città, i miei familiari e i miei amici, perché ero in cerca di quelle libertà che per chi vive qui sono così normali da essere scontate. Invece nel mio paese esiste un sistema di leggi che privano le libertà delle donne, leggi che vivevo ogni giorno sulla mia pelle. Ricordo ancora quando riuscivo a procurami dei cd con i film stranieri non censurati dal governo, provavo un senso di vittoria, ma breve perché quei film mi ricordavano quanto poco avessimo. E mi mancavano sempre di più le libertà, anche piccole, che qui sono la normalità, e che invece in Iran sono vietate. La mia generazione è chiamata la ‘generazione bruciata’, perché siamo la prima venuta dopo la rivoluzione islamica del 1979, e la prima che ha avuto meno libertà dei nostri padri”.

Ma come è possibile che tutto questo accada in una culla di civiltà come l’Iran, l’antica Persia, con una storia e una cultura antichissima?
“Il mio paese è un posto bellissimo, non fraintendetemi. Molti stranieri che lo visitano rimangono innamorati per la bellezza dei luoghi e la sua lunghissima storia. Ma l’idea che ancora nel 2023 le donne vengono uccise per una ciocca di capelli, e che esistano delle leggi che lo rendano possibile, non è accettabile. E non è accettabile che le persone debbano lasciare la loro terra natale per poter avere le libertà più elementari. Le proteste di questi mesi sono un segnale, la popolazione è stanca di scappare e lasciare la propria casa solo perché soffocata da leggi di migliaia di anni fa. Il mio più grande desidero è quello di vedere le future generazioni non soffrire più come abbiamo sofferto noi”.


Maryam, oggi hai parlato in italiano, hai detto di volerlo fare anche a costo di qualche errore, perché tutti e tutte capissero il senso delle tue parole.
“L’ho fatto perché mi avete dato l’opportunità di essere qui, e di essere la voce delle donne afghane che non hanno voce. Quelle donne che sono state dimenticate ed escluse dalla società, che sono private da sempre dei loro diritti fondamentali, e che sono le prime vittime della guerra, della tradizione e della politica. Donne che da quindici mesi sono chiuse in casa e non possono andare a scuola e all’università, che non hanno diritto di lavorare e neanche di uscire per respirare un po’ di aria fresca. Vedi, negli ultimi venti anni non abbiamo avuto la pace, però avevamo il diritto di essere trattate come essere umani. Il diritto di andare a scuola e all’università, di lavorare, la gente accettava la nostra presenza nella società. La mentalità maschile nei confronti delle donne era un po’ cambiata, ma adesso è tornato tutto come prima, e ancora una volta noi donne afghane stiamo rivivendo lo stesso incubo”.

Che lavoro facevi nel tuo paese, prima di essere costretta a fuggire?
“Io lavoravo come giornalista, e sono dovuta andare via dall’Afghanistan perché i talebani uccidono i giornalisti, soprattutto le donne. I media afghani sono sotto controllo e vengono repressi, perché sono l’unica fonte che può raccontare quello che stanno combinando i talebani. Loro non sono cambiati, noi donne invece sì. Vent’anni fa eravamo private di qualsiasi diritto e attività sociale, ma dopo abbiamo avuto la possibilità di studiare, e siamo diventate consapevoli dei nostri diritti, sia religiosamente che culturalmente. Ma per molti questo non è accettabile, per questo motivo i talebani stanno uccidendo le donne che hanno studiato, le donne che hanno imparato qualcosa”.

Dopo la fuga precipitosa dei militari statunitensi e degli altri paesi che avevano dei contingenti in Afghanistan, la comunità internazionale sembra aver cancellato ogni riferimento alla situazione che si è venuta a creare. Come se negli accordi stipulati con i talebani ci fosse quello di non ingerenza sui cosiddetti ‘affari interni’.
“Noi donne afghane siamo deluse dalla comunità internazionale, perché ci ha completamente dimenticato. Il mondo è silenzioso, non si parla più di quello che sta succedendo in Afghanistan e soprattutto delle donne. Io me lo chiedo sempre: perché i talebani sono così potenti che nessuno può fermarli o controllarli? Perché siamo state dimenticate nonostante tutti i nostri problemi? Non riesco a trovare la risposta, ma posso dire che noi donne afghane siamo una al fianco dell’altra, non vogliamo arrenderci, Ci sono donne che insegnano ancora alle ragazze giovani, in segreto nelle loro case. E ci sono donne che in questo momento, nonostante tutti gli ostacoli, protestano ed escono per le strade, sperando che un giorno si possano recuperare quei diritti che meritiamo. Come ragazza afghana, invito la comunità internazionale a prestare attenzione e sostenerci in questa battaglia di civiltà, e chiedo soprattutto di dare la possibilità di studiare alle donne afghane, come ad esempio attraverso le borse di studio. Perché solo con l’educazione e l’istruzione noi donne possiamo contrastare quanto sta accadendo nel nostro paese, l’istruzione e l’educazione sono l’arma più efficace contro l’ignoranza”. l

 

 

 

 

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Re dollaro e il piano di pace cinese - di Alessandro Volpi

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Gli Stati Uniti devono attraversare una fase storica cruciale; battere la concorrenza cinese e quella europea. Per poterlo fare hanno bisogno di generare tanta spesa pubblica e attrarre tanti investimenti; una condizione possibile solo con il monopolio monetario globale. In altre parole, poter stampare dollari senza limiti, perché il dollaro è la sola valuta globale. Ciò diventa praticabile se nell’immaginario mondiale rappresentano la sola iperpotenza che impone le proprie strategie ovunque, con la guida delle organizzazioni internazionali e con le guerre ‘necessarie’.

Negli anni ottanta del secolo scorso il ‘Washington consensus’ serviva a costruire la centralità del mercato, oggi serve a sostenere il connubio fra finanziarizzazione e intervento pubblico in nome dell’‘American first’. Cinesi ed europei devono accettarlo o sono tacciati di essere contrari alla libertà e alla democrazia, naturalmente degli americani stessi.

Provo ad essere ancora più chiaro con due considerazioni specifiche. La prima ha un’evidenza numerica. Il debito pubblico americano è pari a 31mila miliardi di dollari, di cui circa 7mila sono in mani straniere. I cinesi ne hanno 800 miliardi, la metà di quanti ne avevano nel 2015. Questo debito lieviterà di 20mila miliardi nei prossimi dieci anni. Dunque, per essere finanziato, avrà bisogno di attirare capitali esteri in misura ancora maggiore. Gli alti tassi della Federal Reserve servono a quello ancor più che a contenere l’inflazione.

Per coprire il costo della gigantesca produzione di debito e, in particolare, della sua monetizzazione, senza aumentare le imposte, occorre così una grande produzione di dollari possibile solo se gli scambi in dollari crescono a livello mondiale. Sottrarre all’euro fette crescenti di geografie monetarie permette dunque di dollarizzare ancora di più il pianeta, e rende possibili i tassi alti che finanziano il debito Usa.

La guerra serve anche a questo: a riaffermare che solo il dollaro è la valuta globale, e quindi la merce più preziosa che gli Stati Uniti possono produrre senza limiti e vendere al resto del mondo.

La seconda considerazione riguarda il ‘piano di pace’ cinese. Tale testo ha certamente molte contraddizioni strumentali, tuttavia è un segnale importante e diretto alla Russia perché accetti di interrompere le ostilità. È evidente che la Cina teme un indebolimento delle sue relazioni con i mercati internazionali, avendo chiaro che non ne può fare a meno. Al tempo stesso con il suo piano la Cina vuol far capire a Putin che è difficilmente immaginabile un blocco cino-russo autosufficiente. Quindi, mi sembra di poter dire, semplificando molto, che quella cinese è un’apertura per rendere possibile un confronto.

La reazione statunitense è stata però molto dura, decisamente preoccupata, perché sembra sempre più evidente che l’amministrazione Biden vuole, come accennato, un mondo unipolare dove gli Stati Uniti attraggono capitali e risorse e forniscono al mondo moneta e finanza: si tratta della strada per tornare ad avere un secolo americano.

Di fronte alla Cina, il democratico Biden riprende le tesi neocon di Bush junior. In quest’ottica, l’Europa va disgregata, divisa, decentrata, come dimostra la visita del presidente degli Stati Uniti a Varsavia e non a Bruxelles. Ma, in un simile contesto, la posizione più incomprensibile è quella europea espressa da Josep Borrell, il “titolare” della politica estera dell’Unione, subito prona a quella Usa e ancora più duramente anticinese: una scelta che significa accettare la periferizzazione e la rinuncia ad ogni interlocuzione con la Cina, che dovrebbe diventare invece “la patria dell’euro” per consentire al vecchio continente di finanziare la propria indispensabile spesa pubblica e di non essere travolto dai colossali aiuti di Stato Usa, finanziati, appunto, con il dollaro.

L’Europa e la Bce sembrano invece invocare una nuova austerity, destinata a frenare l’inflazione e aumentare le disuguaglianze. L’istituto di Francoforte, infatti, alza i tassi e smette di comprare debito producendo un effetto immediato; i mutui costano di più, ed è probabile dunque che gli europei ne faranno di meno raffreddando l’inflazione e innescando spirali recessive, almeno per la parte più fragile della popolazione che non potrà reggere il costo dei nuovi mutui. Nel frattempo il rialzo dei tassi scatena gli utili delle banche – quelle italiane hanno fatto 12 miliardi di utili in pochi mesi - distribuiti in larga parte ai grandi fondi hedge, che sono nel loro azionariato, e gela la spesa pubblica, non più coperta dalla stessa Bce. In sintesi meno spesa pubblica e più profitti per pochi. Ma il problema sono i cinesi.

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