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“Sabato 4 marzo saremo in piazza a Firenze, insieme a tante realtà antifasciste e democratiche. Dopo il pestaggio davanti al liceo Michelangelo e le parole del ministro Valditara sulla preside Savino, manifesteremo a difesa della scuola, della Costituzione e dell'antifascismo”. Partecipando alla manifestazione di migliaia di persone di Europe for Peace intorno alla Galleria degli Uffizi, il segretario generale della Cgil regionale Rossano Rossi, e la segretaria generale della Camera del Lavoro fiorentina Paola Galgani, hanno spiegato i perché della mobilitazione decisa dai sindacati confederali di scuola, università e ricerca, in risposta a un appello delle Rsu delle scuole cittadine.
Nell'appello delle Rsu si osserva: “Crediamo di interpretare il sentire delle lavoratrici e dei lavoratori che ci hanno elette, esprimendo la nostra grande preoccupazione per l’aggressione di matrice neofascista agli studenti, che ricorda i momenti più bui della nostra storia recente, e le inaccettabili parole del ministro Valditara, che invece di condannare le violenze si è scagliato contro la dirigente Annalisa Savino del liceo Leonardo da Vinci, attaccandola per aver invitato la propria comunità scolastica a vigilare contro il ritorno di ideologie violente e totalitarie. Un attacco alla stessa libertà di pensiero e di espressione”.
A Valditara, che continua a glissare sulle violenze al pari dell'intero governo Meloni, è arrivata anche una lettera aperta degli studenti del da Vinci: “La professoressa Savino ha scelto di non restare indifferente alla violenza e, nel pieno esercizio della sua funzione scolastica, si è rivolta a noi studenti ricordando l'importanza di salvaguardare i principi fondamentali che sono alla base della nostra Costituzione”.
Le attestazioni di solidarietà per la preside, attraverso la petizione on line lanciata da Priorità alla Scuola, sono arrivate a contare 125mila firme, e continuano ad arrivare numerose.
Dopo un anno di guerra per procura nel cuore dell’Europa, la Cgil torna in piazza con il popolo della Pace che si oppone alla logica bellicista e all’escalation del conflitto. Perché alla guerra non possiamo rassegnarci, per incalzare la politica, le istituzioni e i poteri internazionali affinché si fermi questa follia in un’Europa evanescente, priva di una propria politica estera e subalterna agli interessi Usa, emblema del fallimento del sogno europeo dei padri fondatori e della sua possibile fine.
Il governo tradisce la Costituzione e la maggioranza del popolo italiano che rimane saggiamente contraria alla guerra, all’aumento delle spese militari e all’invio di armi che prolungano sofferenze, distruggono vite e territori, alimentano odio e uccidono ogni forma di umanità.
La guerra accentua la crisi democratica, sociale ed economica, e accresce l’impoverimento degli strati sociali meno protetti e del mondo del lavoro. Come tutte le guerre è fonte di orrore, violenze e barbarie, di morti civili e di oltre duecentomila giovani militari sacrificati sui due fronti. È un conflitto globale tra Usa e Russia, mirando alla Cina, che ridisegna gli assetti, le alleanze geopolitiche, gli scambi commerciali, il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime. La vittoria sul piano militare non esiste, l’unica vittoria possibile è la Pace!
Tra le vittime ci sono la verità, il pensiero critico, la libera stampa, in Italia piegata ideologicamente al potere. L’esecrabile invasione da parte della Russia di una libera nazione confinante non può impedire una lucida analisi delle molteplici cause di una guerra alimentata, che non nasce dal nulla, che si sarebbe dovuta evitare.
Il blocco occidentale a guida Usa mistifica da tempo le ragioni delle sue guerre nascondendosi dietro la parola “democrazia”: guerre di potere atroci quanto fallimentari, costruite sulle menzogne e propagandate come crociate del bene. Ieri le guerre per “esportare la democrazia”, oggi la cobelligeranza per “difendere la democrazia e la civiltà occidentale”, senza nessuno spiraglio per la diplomazia e la ricerca di una tregua.
Sulla pelle della popolazione ucraina, lo scontro è geopolitico e mondiale tra imperi, in vista del confronto “diretto” tra Usa e Cina. Siamo alla linea rossa: ulteriori invii di armi ci porteranno dentro a una guerra mondiale. Certi politici, giornalisti e opinionisti sotto l’elmetto hanno spento il cervello.
Per il movimento operaio e sindacale la guerra è questione dirimente. Dovrebbe esserlo anche per chi si richiama alla sinistra politica. La Cgil è una Confederazione generale, ha radici nella migliore storia della sinistra e nella Costituzione antifascista, si batte per l’interesse generale del paese e dell’umanità. La Cgil è per la Pace, non si arrenderà mai alla follia della guerra.
Don Alessandro Santoro è un parroco di strada, ancora oggi che ha 58 primavere sulle spalle. Ne aveva meno di trenta quando arrivò nel quartiere fiorentino delle Piagge, giovane prete alle prese con una realtà difficile fatta di abbandono e trascuratezza, in una periferia dove l’edilizia popolare aveva dato casa a tante famiglie meno abbienti ma senza alcun servizio. Rimboccandosi le maniche don Santoro si è messo all’opera, traducendo in pratica le lezioni di don Milani studiate in gioventù. È nata così la Comunità di base delle Piagge, prima tappa di un cammino che ha visto fiorire l’associazione Il Muretto, le cooperative il Pozzo, il Cerro ed EquAzione, nate per creare opportunità di crescita sociale, culturale ed economica nel quartiere. Ancora, il periodico l’Altracittà giornale di periferia, e il Fondo etico e sociale delle Piagge, che oggi è un quartiere ben più vivibile di quello degli anni ‘80-‘90 del secolo scorso.
Don Santoro, abbiamo una guerra nel cuore dell’Europa che sta scivolando verso scenari apocalittici, visto che sia da una parte che dall’altra si promette di andare avanti “fino alla vittoria finale”. Come si può fermare questa follia?
Beh, mi verrebbe da dire che prima di tutto bisognerebbe chiamarla con il suo vero nome, ‘follia’. Quello che sta accadendo, ad un anno dall’inizio di questa fase della guerra, è soprattutto una follia. Come si può andare avanti in questo modo? C’è un’assuefazione incredibile alla guerra. Si giustifica la consegna delle armi, motivandola come un aiuto a Kiev per vincere la guerra. Addirittura. Un passo all’indietro enorme, un salto nel vuoto, come se avessimo dimenticato quello che è successo nella seconda guerra mondiale, ai tempi della guerra fredda, oppure della minaccia nucleare che abbiamo sul collo. Penso che per fermare questo conflitto dobbiamo insegnare nuovamente alle persone, a loro ma anche alla politica, soprattutto alla politica, a chiamare questa guerra con la parola che più la rappresenta: follia. E quindi cambiare registro rispetto alla pantomima dell’inevitabilità di quanto sta accadendo. Perché in guerra non vince nessuno, proprio questa è la follia del ricorso alle armi. Nessuno può vincere, ci sono soltanto morte e distruzione. Con ‘effetti collaterali’ che durano nel tempo. E oggi c’è anche il rischio di arrivare alla distruzione finale, perché la minaccia nucleare che abbiamo sulle spalle è davvero molto gravosa. Pesantissima.
La rete Europe for peace è tornata a chiedere l’immediato cessate il fuoco, rivolgendo un appello all’Onu per una conferenza internazionale di pace. Le realtà che vi aderiscono, da Emergency alla Comunità di Sant’Egidio, dall’Anpi a Sbilanciamoci!, e ancora la Tavola della Pace, Stop the war now, le Acli, l’Arci e la Cgil, nell’anniversario dello scoppio della guerra hanno promosso manifestazioni in oltre 50 città italiane ed estere, compresa una Marcia straordinaria della pace da Perugia ad Assisi. Perché i potenti del pianeta non ascoltano le voci della pace?
Dobbiamo inondare le piazze di gente stufa di questa retorica di guerra che avvolge tutto e tutti. Non possiamo mollare la presa, credo sia molto importante mettere insieme tantissime persone, anche molto diverse tra loro, in maniera trasversale. Fare in modo che nessuno possa mettere il cappello sulle nostre manifestazioni perché la pace è di tutti, riguarda tutti, non importa da che parte stai. È fondamentale. Se i potenti del pianeta non sentono le voci della pace è perché ascoltano unicamente i propri interessi di potere, è questa l’unica logica all’interno della quale si muovono. Potere, predominio, ricchezza. E allora la guerra in Ucraina è stata consegnata su un piatto d’argento, costruita ad arte. Lo so, si rischia di essere etichettati come putiniani, fuori dal mondo, folli. Ma bisogna denunciare che questa è, nei fatti, una guerra per procura. Non riesco a cancellare dalla mia testa questa idea. L’Europa, compresa l’Italia, non è in grado di smarcarsi dalla logica guerrafondaia, costringendosi a una sottomissione acritica al predominio statunitense e della Nato.
Il capo di stato maggiore statunitense, Mark Milley, ha detto a più riprese che non ci sarà una vittoria militare, nel senso stretto del termine, né da parte dell’Ucraina né da parte della Russia, quindi è necessario pensare ad altre opzioni, evidentemente diplomatiche. Invece nelle sedi della cosiddetta politica istituzionale si continua a parlare di guerra e di armi come si parla di calcio al bar. Come si esce da questo incubo?
L’Europa avrebbe dovuto costruire fin da subito un percorso diplomatico, per impedire che questa guerra arrivasse, per fare in modo che non si allargasse e aumentasse di intensità fino al livello che abbiamo raggiunto. La gestione della sua partecipazione al conflitto è inaccettabile e dannosa per noi tutti. Lo ripeto: si chiede continuamente di mandare armi all’Ucraina per far vincere Zelensky. Ma ci rendiamo conto di quel che diciamo? Dopo gli accordi di Minsk del 2014 non siamo stati capaci di lavorare per costruire un’intesa che era necessaria, e poi di mantenere questa intesa, salvaguardarla, cercando di fare in modo che i russofoni in Ucraina e la Russia stessa potessero recuperare quella che io definirei ‘armonia’, che può essere trovata solo con un lavoro, fondamentale, di diplomazia. Ma fino a quando gli interessi che predominano su tutto il resto sono quelli della guerra e del militarismo, purtroppo la diplomazia sarà sempre dimenticata o messa da parte. ‘Restiamo umani’, come diceva Vittorio Arrigoni a Gaza.
Sempre la rete Europe for peace denuncia che in questi anni abbiamo avuto un aumento della spesa militare sia in Italia che nel resto del mondo. C’è stato un aumento di più di 2mila miliardi di dollari spesi ogni anno per le armi. Se solo una piccolissima parte, il 5%, di queste spese militari fossero usate per combattere le pandemie, l’emergenza climatica, l’emergenza alimentare, risolveremmo tanti problemi ai quattro angoli del pianeta. Ma di fronte alla richiesta di disarmare per investire sulla pace, si va avanti nella corsa al riarmo. Impareranno mai gli uomini dalle terrificanti lezioni del passato?
Ci fanno pensare che siamo impotenti, che non possiamo fare niente di fronte a questa guerra. Bisognerebbe recuperare la capacità di lottare, opporsi totalmente a una deriva del genere. Già prima dell’Ucraina era stato denunciato come ‘la Nato abbaiasse ai confini dell’Europa’. Siamo completamente succubi di un’alleanza che avrebbe dovuto essere difensiva, ma che invece è diventata il sistema di controllo statunitense sul mondo. Per me sarebbe da ridurre ai minimi termini. Invece viene chiesto a tutte le nazioni europee di spendere di più in armamenti. Una corsa a cui non riusciamo ad opporci adeguatamente. Dovremmo gridare forte non solo la nostra indignazione, ma la nostra indisponibilità ad accettare questa logica. La politica della guerra è una politica di morte. La politica del riarmo è una politica di morte, distruttiva. Globalmente distruttiva. Di fronte alle emergenze climatiche ambientali, alle migrazioni, dovremmo riuscire a chiedere il disarmo. Perché quello che risparmiamo disarmando potrebbe essere spostato su un’economia di pace, costruita dal basso. Ci considerano degli utopisti quando diciamo queste cose, allora dovremmo recuperare l’insegnamento di padre Balducci, perché se ci mettessimo a tavolino capiremmo che questa utopia è di un realismo estremo. Basterebbe poco, la riduzione delle spese militari per aiutare l’istruzione, la sanità. Invece non muoviamo foglia. Addirittura un ministro di questo governo lavorava privatamente per arricchire chi costruisce armi. Un ministro dello Stato italiano. Ma l’articolo 11 della Costituzione non dice forse che l’Italia ripudia la guerra? Su tutto questo pesa poi l’assenza dell’Onu, che è terribile. Una debolezza che porta a un silenzio inaccettabile. E’ importantissimo andare in piazza, ma deve nascere anche una forma di disobbedienza alla guerra, disobbedienza vera, anche fiscale, una diserzione in risposta alla logica delle armi. Il rifiuto della guerra, la nostra ferma opposizione alle armi deve essere concreta. Bisogna essere operatori ‘facitori’ di pace, e decostruire la logica della guerra.
Papa Francesco non perde occasione per denunciare la follia di un conflitto che, come accade in ogni guerra, provoca migliaia di vittime, sofferenze insopportabili nelle popolazioni civili, e immani devastazioni. Ma la sua parola, e quella del popolo della pace, continua a non essere presa in alcuna considerazione. Che fare?
Da anni questo Papa denuncia la follia della guerra. Una guerra mondiale a pezzetti, ed ecco a cosa hanno portato questi pezzetti. Abbiamo sempre considerato le parole del Papa profetiche, ma abbiamo anche visto che i potenti della terra hanno bypassato il messaggio. Così purtroppo continuano ad essere inascoltate. Eppure sono parole che si ritrovano nella ‘Pacem interris’ di Giovanni XXIII: nessuna guerra è giusta, non può esistere una guerra giusta. Come diceva Lorenzo Milani, come ripetiamo noi, e come è stato detto tante, tante volte dal Papa. Non esiste una diplomazia delle armi, qui si continua a predicare bene ma ad essere succubi di interessi che non tengono conto della profezia di pace che il Papa porta avanti, una profezia evangelica. Allora mi rivolgo a tutti i credenti: non vi fa specie che le parole di Papa Francesco, così importanti, che riecheggiano nel mondo, nelle nostre parrocchie e nelle nostre chiese, siano spesso dimenticate o poco considerate? A me questo fa male, tanto. Se ci fosse una cultura di pace che parta anche da quegli ambienti che dovrebbero avere un respiro evangelico, forse qualcosa potrebbe cambiare. Perché sufficienza e inerzia di fronte a questo scempio che sta accadendo non sono accettabili.
“Ce studie mangi iaddine, ce na studie mangi lupine” (chi studia mangia carne di gallina, chi non studia mangia lupini), recitava un antico proverbio contadino. I nostri padri, con il loro bagaglio di saggezza popolare, volevano che i loro figli studiassero per avere un futuro migliore. Così si arrivò all’alfabetizzazione di massa che permise al Paese di uscire dalla povertà, ed entrare a testa alta tra le grandi potenze economiche.
Anche qui la Carta costituzionale fece la sua parte: “E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”: l’articolo 3 fece in modo che anche il figlio dell’operaio poté diventare dottore. L’istruzione è lo strumento utile a superare le disuguaglianze sociali ed economiche, un individuo è più libero e ricco di possibilità perché maggiori sono gli strumenti culturali di cui è dotato.
Alcuni economisti ci ricordano che la mancanza di istruzione genera povertà e, come il serpente che si morde la coda, la povertà genera mancanza di istruzione. La povertà crescente, in particolare al sud, come evidenzia l’ultimo rapporto Svimez, genera una crisi della coesione sociale che si traduce in una società frammentata e potenzialmente più conflittuale. La scuola potrebbe essere una potente arma di coesione sociale per il Paese, se solo il governo decidesse di garantire un’offerta formativa di qualità, omogenea, sull’intero territorio nazionale.
Ma così non è. Il recente rapporto Svimez 2022 “Un Paese, due Scuole” svela il profondo divario già oggi esistente tra nord e sud in materia di istruzione, ed entra di forza nell’acceso dibattito che vede la Cgil contraria alle proposte di autonomia differenziata che, in particolare nel settore dell’istruzione, andrebbero ad aumentare enormemente gli squilibri già presenti.
Lo studio fotografa un’offerta educativa differenziata tra le regioni del Mezzogiorno e il resto del Paese, in particolare evidenzia una riduzione del “tempo scuola” maggiore nel sud rispetto al nord. Infatti operano i seguenti fattori: insufficienza degli asili nido, scuole dell’infanzia con un’alta percentuale di tempo ridotto; carenza del servizio mensa nella scuola primaria per i deficit strutturali degli edifici scolastici (46,53% al nord e 78,82% al sud, in Puglia 65,2%); presenza del tempo pieno nella scuola primaria con il 48,53% del nord a fronte del 18,60% del sud. La Puglia si attesta al 16,60%.
Questo significa che i bambini delle regioni del sud fanno 4 ore di scuola in meno a settimana, per una media annua di 200 ore che coincide, nell’arco di un quinquennio, ad un anno di scuola persa.
Ancora, c'è una spesa pubblica destinata all’istruzione dalla quale emerge un generale, progressivo disinvestimento da parte dello Stato nel settore dell’istruzione, con punte più elevate nelle regioni del sud - nella scuola il rapporto spesa-studente vede uno scarto di circa 300 euro al sud (6.025) rispetto al centro-nord (6.395). Poi una elevata dispersione scolastica: la percentuale dei tassi di abbandono si attesta al 16,6% nel Mezzogiorno a fronte del 10,4% delle regioni del centro-nord.
Cresce il divario tra nord e sud anche nel settore dell’edilizia scolastica e di investimenti ad essa destinati (rapporto di Legambiente Puglia); edifici scolastici vecchi e poco sostenibili, ma soprattutto insicuri (più del 50% delle scuole non possiede la certificazione di agibilità).
Le 622 autonomie scolastiche pugliesi rischiano di ridursi ulteriormente (da 20 a 80 scuole in meno), a causa della legge di Bilancio 2023 già impugnata dalla Regione Puglia alla Corte Costituzionale.
Il quadro per le regioni del sud è sconfortante, la perdita di apprendimento che si scarica sugli alunni lede il diritto costituzionale allo studio e mette in discussione la funzione stessa della scuola repubblicana che è, come ci ricorda il direttore della Svimez, Luca Bianchi, quella di “fare uguaglianza”.
Le recenti proposte per la creazione di sistemi regionali con risorse e regole differenziate, con il rischio di un ritorno alle gabbie salariali, vanno nella direzione opposta a ciò che serve per invertire questa tendenza. L’istruzione è un diritto universale che non può essere racchiuso nei recinti delle regioni.
Il modello di autonomia differenziata che si prefigura l’attuale governo sembra voler fare da apripista per imporre una logica competitiva che fa piazza pulita dell’idea solidaristica su cui si sono fondate l’Europa e le attuali autonomie locali. È su di un cambio di valori che si sta lavorando, ed è per questo che si sceglie di partire dalla scuola.
La Cgil Puglia sta lavorando da tempo con grande impegno e passione per contrastare questo scellerato progetto. Il 18 febbraio si è svolta una grande manifestazione regionale che ha visto la presenza delle istituzioni, delle forze politiche progressiste e di tante associazioni locali e nazionali. Si è lavorato a costruire un fronte ampio, metodo certamente più faticoso, ma necessario a dare alla Cgil tutta e al Paese un reale contributo di cambiamento.