Da qualche settimana in Bosnia Erzegovina si è aperta una crisi, da quando il leader della metà serba di questo piccolo Stato confederale ha minacciato di mettere in atto una secessione per poi fondersi con la Serbia, il cui presidente sembra voglia discretamente appoggiare questa ipotesi, mentre dietro le quinte ci sarebbe anche l’appoggio di Putin.
Ma c’è davvero rischio di una nuova guerra come quella che insanguinò i Balcani occidentali e che fece più di 100mila morti? La realtà è un po’ diversa. Purtroppo, dopo l’implosione della Jugoslavia che riaccese vecchi rancori fra le varie anime dei paesi che ne facevano parte, scatenando una guerra fratricida che coinvolse Serbia, Croazia e Bosnia Erzegovina, gli Stati uniti e la Nato entrarono nel conflitto, bombardando alcuni siti militari serbi ma anche la città di Belgrado, che riportò gravi danni in alcuni quartieri centrali e diverse vittime civili.
A seguito dell’intervento dell’Onu, tutte le parti si trovarono disponibili a una trattativa che si chiuse con gli accordi di Dayton, siglati da tutti i paesi in guerra lasciando però aperti tutti i problemi che erano stati a base del conflitto. In base agli accordi, fu dislocata una forza militare Onu per garantire la “pace” in questa regione. Così la Bosnia Erzegovina – con una popolazione prevalente di bosniaci ma con una minoranza consistente di cittadini serbi e croati - divenne uno Stato federale, all’interno del quale si costituì la Repubblica Srpska con un proprio parlamento e una propria autonomia rispetto al potere centrale.
Un paio di mesi fa il presidente della Srpska, leader del partito nazionalista serbo e componente serbo della presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina, avrebbe minacciato di uscire dalla federazione. Pochi giorni dopo, nove europarlamentari, in rappresentanza di quattro partiti (popolari, verdi, socialisti e democratici), hanno scritto una lettera ai ministri degli esteri dell’Unione, per chiedere urgentemente sanzioni contro il presidente Dodik per aver violato gli accordi di Dayton.
Nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Christian Schmidt, Alto rappresentante e supervisore degli accordi di pace, in carica dal luglio 2021, ha parlato di “una reale possibilità di nuove divisioni e conflitti”. Il 7 novembre il leader serbo-bosniaco ha ricevuto Viktor Orbàn a Banja Luka, incontrato l’indomani a Ljubljana il premier sloveno Janez Jansa, e successivamente ricevuto ad Ankara dal presidente turco Erdogan. Jansa e Orbàn non fanno mistero di questa loro vicinanza al leader serbo bosniaco, essendosi opposti nella riunione degli Affari esteri dell’Ue del 15 novembre a prendere sanzioni contro Dodik e la Repubblica Srpska, approvate invece da Germania, Benelux e Repubblica Ceca.
Quello che è evidente a tutti è l’assenza di risposte dell’Ue. In una visita avvenuta lo scorso 29 ottobre del responsabile della Commissione europea per i Balcani Occidentali, veniva lanciato un appello al dialogo, e l’indisponibilità di procedere alle sanzioni. La lettura più realistica di questo silenzio dell’Ue è che sia troppo divisa e incapace di prendere una decisione, qualunque essa sia.
Se anche Dodik dovesse recedere dal suo piano di secessione, va detto che la posizione assunta dall’Ue sta deludendo sempre di più la società civile e gli interlocutori politici a Sarajevo, soprattutto negli ambienti che in passato erano stati più favorevoli all’integrazione. Di fronte a un rischio – reale o ipotetico – di una nuova secessione, la soluzione più semplice sarebbe stata quella di affrettare un nuovo allargamento dell’Ue, ammettendo la Serbia e tutti gli altri Stati della ex Jugoslavia, compresa la Bosnia Erzegovina.
Certo ci sono dei veti incrociati da superare – come quello della Francia e di altri Stati membri entrati di recente a far parte dell’Unione. Ma sarebbe sufficiente anche solo una dichiarazione ufficiale dell’Ue di voler riprendere le trattative, peraltro già in corso da diversi anni per formalizzare l’adesione di questi Paesi, ad allontanare lo spettro di una nuova guerra. In effetti l’Ue conta sulla collaborazione di questi Paesi per gestire le ondate dei migranti che utilizzano la rotta balcanica per entrare in Europa.
Non bisogna neppure dimenticare che ci sono presunti “alleati” come gli Usa che non sarebbero contrari a entrare di nuovo in campo, con l’intervento della Nato. I Balcani sono essenziali per portare a compimento l’unità politica di questo continente e per costruire un futuro di pace per queste terre. In effetti, come parte di una stessa Unione, verrebbero a cadere tutte le rivendicazioni territoriali che oggi sono riproposte. Saprà l’Ue cogliere questa occasione?
Alla fine del secolo scorso, con la caduta del muro di Berlino, non fu opposto alcun ostacolo all’adesione all’Ue degli ex Paesi dell’Impero sovietico. Perché non potrebbe essere questo il momento per portare a compimento l’unificazione di tutto il continente?