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Lo sciopero è riuscito e le piazze si sono riempite di cittadini, di lavoratrici e di lavoratori, di pensionate e di pensionati, di studenti, di giovani e di donne, loro che più di altri stanno pagando la crisi di sistema. Nella piazze della protesta e della proposta, del bisogno di giustizia, di uguaglianza e buona occupazione, del riconoscimento del lavoro e del suo valore, si è materializzato, sentito e visto il Paese reale. Una giornata di lotta e di solidarietà, piazze colorate e determinate, piazze di unità di classe, nonostante tutto. Nonostante le difficili condizioni sociali e sanitarie, nonostante la scelta della Cisl di rompere l’unità sindacale. Il conflitto è il sale, la forza propulsiva e di cambiamento di ogni società democratica, lo sciopero un diritto costituzionale da esercitare dalla parte più debole della società, da chi non detiene poteri economici, finanziari e di casta.
Lo sciopero è riuscito e ha trovato consenso, approvazione e solidarietà ben più ampi di quanto ci dicono le stesse piazze. Nonostante l’odio di classe sparso da giorni, l’accanimento contro un diritto, il conformismo, la vigliaccheria, la stupidità, gli insulti e le menzogne che ci hanno accompagnati in queste settimane, da parte di una stampa illiberale e sempre più sotto controllo dei poteri finanziari ed economici; di partiti e politicanti della destra economica e sociale; di ex ministri e politici di partiti di governo; di una “sinistra” dispersa, lontana dal mondo del lavoro di ieri e di oggi, senza radici sociali e malata di governismo. Una sinistra che ripercorre gli stessi errori fatti con il governo Renzi, malata di potere e impregnata di un deleterio interclassismo. Lo sciopero è riuscito nonostante ex sindacalisti, economisti e giornalisti da strapazzo, che vengono usati per rilasciare dichiarazioni di cui dovrebbero vergognarsi. E’ un segnale che si stiamo incamminando verso un pericoloso regime autoritario e illiberale, verso un presidenzialismo che fa a pezzi la nostra Costituzione antifascista.
Lo sciopero è riuscito nonostante Confindustria e il suo presidente Bonomi, che dichiara la sua tristezza per la proclamazione dello sciopero mentre oggi, con il sorriso, afferma che l’astensione dal lavoro nelle aziende sue associate non supera il 5%. È l’ulteriore dimostrazione che Confindustria è sempre meno rappresentativa, e che il suo presidente è un marziano che non vede la realtà del sistema industriale del Paese, dello sfruttamento e dello schiavismo, del lavoro nero, dei salari da fame e della precarietà diffusa, che tolgono la possibilità a milioni di persone di prospettarsi una vita e un lavoro degni di una nazione civile. È il capitalismo rapace, provinciale, egoista, senza responsabilità sociale che, insieme ai partiti di governo, al presidente del consiglio liberista e dalla cultura mercantile, sta conducendo una vera lotta di classe su come indirizzare e utilizzare le ingenti risorse del Pnrr. Le piazze irrompono nello scontro politico e sociale in atto, chiedono al governo e ai partiti che lo sostengono, almeno a quelli che si definiscono democratici e di centrosinistra, di uscire dal palazzo, dai giochi di potere, dalle alchimie consociative e trasformiste. Aprono varchi nella coscienza del Paese, fanno saltare silenzi e conformismi, mettono in luce ipocrisie e mancanze. Rimettono al centro la condizione sociale, i livelli di vita e di lavoro di milioni di persone, di un pezzo di popolo colpevolmente non rappresentato dalla politica. È questo il momento del cambiamento, è questo il momento di imporre una prospettiva e un domani alternativo. Abbiamo vissuto e siamo stati protagonisti di una bella giornata di lotta, di solidarietà e di democrazia partecipata.
La manovra è sbagliata, espansiva forse per l’economia e una parte del Paese, ma regressiva e classista sul piano sociale, sul mondo del lavoro, sulla parte d’Italia che si impoverisce e vive fuori dal benessere, sui giovani precari, sulle donne discriminate nella società e nei luoghi di lavoro. Sulla gran parte dei pensionati che vivono con una pensione di sopravvivenza.
Noi possiamo solo ripartire da quelle piazze e dare continuità, forza, consapevolezza e partecipazione a una lotta per il futuro, a una visione generale e non corporativa di società. Una prospettiva che ridisegni i rapporti tra le classi, e costruisca un modello economico e sociale radicalmente alternativo all’attuale.
La strada è lunga e difficile ma per noi, per le future generazioni, per ciò che rappresentiamo come confederazione, come Cgil, possiamo solo percorrerla da protagonisti, insieme alla parte migliore della società. Con coerenza, e forti della nostra storia, della nostra autonomia e della nostra militanza.
E' in via di approvazione la modifica di alcune parti del Testo unico sicurezza sul lavoro, ex decreto-legge 21 ottobre 2021, numero 146 (‘decreto fiscale’). Il provvedimento contiene diversi aspetti particolari (sulle funzioni del preposto, un certo incremento delle sanzioni, sulla formazione, ecc.), ma il carattere più rilevante è l’estensione, a tutti i settori lavorativi, dei compiti di vigilanza in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (Inl). Un sovvertimento dei principali principi fondativi della riforma sanitaria del ‘78, che assegna al Servizio sanitario nazionale i compiti ‘integrati’ di prevenzione, vigilanza e controllo, e assistenza.
Dopo gli anni ‘80 si erano stabilizzate alcune importanti conquiste legislative sulla salute nei luoghi di lavoro, esitate nel DLgs 81/2008 (con un ruolo dell’allora sottosegretario alla Sanità, Giampaolo Patta), registrando anche un certo miglioramento degli indici infortunistici. Successivamente è iniziato un lungo periodo in cui i rapporti di potere nei luoghi di lavoro sono cambiati, in corrispondenza ad un incremento delle condizioni di precarietà. Colpisce particolarmente che ancora oggi i tipi di incidenti mortali siano simili a quelli ‘antichi’, da anni ‘50 del secolo scorso. La stragrande maggioranza di questi incidenti erano e sono evitabili con pratiche concrete di valutazione e gestione dei rischi.
La vigilanza da parte dello Stato nelle sue articolazioni è fondamentale, ma non potrà mai sostituire il compito delle imprese nella valutazione e rimozione dei rischi, con il contributo di controllo dei lavoratori. I determinanti che spesso hanno causato l’incidente o le malattie da lavoro riguardano la precarietà, la mancata e/o inadeguata formazione alla sicurezza, l’‘informalità maligna’ che regola l’organizzazione di talune imprese.
A fronte di questa ‘realtà effettuale’, il decreto-legge 146/2021 rischia di essere un passo falso perché crea una condizione di non chiarezza sul ‘chi fa che cosa’ circa l’attività di vigilanza sul rispetto delle misure di sicurezza; appare sostanzialmente orientato alla ‘repressione’; opera una separazione dalla ‘prevenzione’. Si accantona una delle innovazioni più importanti della legge 833/1978, che assegnava le competenze relative alla salute dei lavoratori al Ssn come una delle funzioni della promozione della salute del cittadino.
L’Inl non possiede al proprio interno competenze specifiche per esercitare le nuove funzioni che gli vengono attribuite dal decreto. Professionalità invece presenti negli operatori dei Dipartimenti di Prevenzione delle Asl (Tecnici della prevenzione, Medici del lavoro, Ingegneri, Assistenti sanitari, Chimici, Biologi, Psicologi del lavoro, ecc). La duplicazione dei soggetti che intervengono su tutti i settori produttivi non si traduce in migliori e maggiori interventi di vigilanza, anzi, è possibile ipotizzare conflitti di competenze e/o interventi duplicati.
La necessità di avere un coordinamento e un indirizzo nazionale del tema salute e sicurezza sul lavoro, di un controllo della coerenza tra principi e modelli organizzativi regionali, è indubbia. Da questo punto di vista la parte del decreto che indica il rafforzamento di un unico sistema informativo nazionale è positiva. Tuttavia, per quanto riguarda la vigilanza, ciò che occorreva – insieme al necessario incremento del personale dell’Inl finalizzato al controllo del lavoro nero e irregolare – era piuttosto porre rimedio alla situazione di abbandono nella quale i governi e le Regioni hanno tenuto gli organi delle aziende sanitarie incaricati della prevenzione e della vigilanza (gli addetti ai Servizi di Prevenzione delle Asl sono passati da 5.060 operatori nel 2008 a 3.246 nel 2018).
Né i ministeri interessati, né il Parlamento hanno considerato gli emendamenti al provvedimento in discussione proposti dal Coordinamento tecnico delle Regioni, Area Prevenzione e Sanità Pubblica, né tantomeno un appello che in questi giorni ha raccolto oltre mille firme di sindacalisti, operatori dei servizi pubblici e cultori della materia.
Permane l’urgenza di rilanciare l’impegno di rafforzare gli organici dei Servizi di Prevenzione Collettiva delle Asl stanziando apposite risorse nella manovra di bilancio, controllandone (da parte del ministero della Salute, che in tutta questa vicenda non ha svolto un ruolo) l’effettivo utilizzo da parte di Regioni e Asl. Ciò è indispensabile per assicurare uno sviluppo efficace del Piano nazionale della Prevenzione e relativi piani regionali.
Sul tema salute e sicurezza del lavoro si giocano i caratteri fondanti della dignità delle persone che lavorano e, più in generale, del grado di incivilimento di un paese. I soggetti collettivi devono riaprire una discussione e un confronto con i lavoratori, i servizi pubblici e le istituzioni, per definire una nuova politica, un complesso ‘organico’ di provvedimenti, per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Non si fermano le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici della Gkn. Il 30 novembre scorso è arrivata una nuova e prevedibile lettera di licenziamento della Gkn Driveline Firenze, ma rimane ancora aperta la questione del sito produttivo, stante la fumosità di alcune proposte di interesse da parte di investitori esterni fatte filtrare dall’advisor della stessa Gkn.
Al di là della disponibilità delle dichiarazioni da parte della viceministra del lavoro Todde, che si è mostrata possibilista sulla sospensione dei licenziamenti, la questione va ben al di là del sito toscano: sono coinvolte le centinaia di casi di delocalizzazioni in presenza di situazioni di crisi, o semplicemente di decisioni unilaterali dell’azienda di spostare il sito della produzione, chiudendolo in Italia.
Il governo era sortito in agosto con un pallido tentativo di disegno di legge cosiddetto “antidelocalizzazioni”. Si prevedevano multe risibili e l’inserimento in una “black list” dove le aziende che decidevano di delocalizzare non potevano accedere (ma solo per tre anni) a finanziamenti o incentivi pubblici. Tuttavia, non c’è rimasta alcuna traccia nel dibattito parlamentare, segno più che evidente dell’assenza di volontà politica.
Viceversa, di notevole interesse la proposta “vera” antidelocalizzazioni scritta da giuristi dei Giuristi Democratici, Consulta Giuridica Cgil, Comma 2, Telefono rosso ed Economisti solidali (Istituto Superiore di Sant’Anna) con gli operai Gkn di Campi. Tale proposta è stata presentata al Senato, come emendamento numero 85.0.11 alla legge di bilancio in discussione, dal senatore Matteo Mantero. Ora in commissione bilancio deve essere discussa.
Si tratta di una proposta nata dalla volontà dei lavoratori e dei sindacati che, uscendo dalla casamatta di gramsciana memoria, insorge, scompaginando (finalmente!) il dibattito politico. Alla genesi dell’emendamento presentato hanno contribuito in maniera originale e feconda anche reti volontarie e professionali, militanti e accademiche. Il passaggio parlamentare è necessario per rimettere in moto (anche qui finalmente) l’organo più importante della nostra Repubblica, che negli ultimi anni ha vissuto la sola funzione di ratifica dell’operato del governo.
La proposta rimette al centro la nozione di ‘piano’, insomma una specie di eresia economica in Italia, che prevede una prospettiva multilivello: si vuole garantire, in tal modo, la stabilità occupazionale e reddituale di tutti i lavoratori e le lavoratrici, compresi anche quelli degli appalti. Quest’ultima si articola in due opzioni: una prima che prevede la costruzione di un “Polo pubblico della mobilità sostenibile” in continuità con la produzione già esistente e una seconda, forse più lungimirante, che lancia la possibilità e, forse, la necessità di una riconversione dei siti produttivi coinvolti.
Sono decenni che in Italia era completamente assente una discussione di prospettiva di politica industriale intorno ad asset imprescindibili. Tra gli altri è molto importante quello dei trasporti e mobilità, che è comparto strategico e di innovazione in un contesto che continua ad essere globalizzato. Ecco perché, ancorché nel caso di bocciatura parlamentare, si è aperta una nuova pagina che necessita, come hanno fatto alla Gkn, di una nuova ‘democrazia economica’ (vedi Laura Pennacchi, Democrazia economica. Dalla pandemia a un nuovo umanesimo, Castelvecchi editore, 2021), ossia un nuovo sistema istituzionale capace di andare oltre la logica del mero profitto speculativo.
C’è bisogno di un rilancio e di una crescita che sia compatibile sia con i diritti dell’uomo che con quelli del pianeta Terra. È urgente ripensare i confini del mercato e tutti i beni che, viceversa, non sono mercatizzabili. Ecco perché, ancora una volta, insorgiamo.
A seguito dello storico accordo sottoscritto il 15 settembre presso il ministero del Lavoro tra Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti e Amazon, che ha finalmente sancito il riconoscimento del sindacato e i miglioramenti richiesti per i dipendenti della multinazionale, è proseguita la mobilitazione dei lavoratori in appalto occupati presso i servizi di distribuzione, denominati “ultimo miglio”.
Sono oramai più di cento le società che operano nella filiera logistica di Amazon Italia Transport sul territorio nazionale, la quasi totalità delle quali associate all’associazione datoriale AssoEspressi. Quella dei corrieri in appalto è una battaglia che prosegue ormai da anni, iniziata in Lombardia nel 2016 con i primi scioperi e il riconoscimento del Ccnl della Logistica e Trasporto merci.
La mancanza di una contrattazione nazionale ha però creato forti disparità di carattere economico e normativo a lavoratori occupati nei medesimi servizi su territori diversi. Dove i lavoratori si sono organizzati nel sindacato si sono ottenuti accordi e miglioramenti; dove questo non è accaduto, o l’appartenenza al sindacato è stata fortemente disincentivata dalle aziende, la contrattazione di secondo livello non è partita, lasciando i lavoratori alla mercé di consulenti del lavoro e società che hanno utilizzato il Ccnl come un “market”, prendendo solo ciò che più gli è convenuto.
Le segreterie nazionali e le rispettive delegazioni, composte principalmente da Rsa delle società in appalto, hanno così deciso di dare un segnale forte alle controparti con una seconda azione di sciopero nazionale a seguito della mobilitazione del 22 marzo scorso, proclamando il blocco totale delle attività per il 26 novembre 2021, giorno del cosiddetto “Black Friday”.
A pochi giorni dalla mobilitazione, considerata la probabile massiccia adesione delle maestranze, il 23 novembre AssoEspressi ha riconvocato il sindacato. Dopo l’ennesima interminabile trattativa, che ha visto la partecipazione on-line di circa 120 Rsa da tutta Italia, la controparte ha sgomberato il tavolo di confronto dai temi che i rappresentanti dei lavoratori avevano definito irricevibili, e accolto le richieste contenute nella piattaforma sindacale, arrivando così a un’ipotesi di accordo nazionale da sottoporre ai lavoratori.
L’ipotesi sottoscritta contiene tutte le condizioni di miglior favore ottenute a livello territoriale con le lotte dei lavoratori, principalmente in Lombardia, estendendole a tutti i circa 14mila lavoratori in appalto ad Amazon in Italia. A questo grande risultato, che sancisce l’unità dei lavoratori a prescindere dalla divisa che portano, si aggiungono alcune importanti conquiste per chi opera nella filiera Amazon e più in generale nei servizi di distribuzione logistica, considerata l’inevitabile influenza che un accordo di questa natura può avere su tutto il settore.
L’ipotesi di accordo prevede un significativo aumento economico, la clausola sociale in caso di cambio di fornitore per tutti i lavoratori stabili e precari, una stringente normativa che regola il lavoro domenicale, ponendo limiti e incentivando la volontarietà e la riduzione di due ore a settimana dell’orario di lavoro. Quella sull’orario di lavoro dei corrieri è una battaglia che il sindacato dei trasporti sta portando avanti da tempo; il Ccnl della Logistica prevede infatti la possibilità di allungamento del nastro orario per i lavoratori definiti “discontinui”, il cui lavoro è composto da periodi di guida, pausa, inattività e servizi accessori. Questa discontinuità, che fino a qualche anno fa trovava un’oggettività nell’organizzazione del lavoro, nel tempo, anche per effetto della crescita esponenziale dell’e-commerce e della pandemia, si è tramutata in intensità.
A seguito della firma dell’ipotesi di accordo, l’ultima parola è spettata ai lavoratori. A partire dal 24 novembre sono iniziate le informative e le assemblee in tutti i luoghi di lavoro, nei parcheggi e fuori dai cancelli di Amazon, che fino all’ultimo ha voluto rimarcare la divisione tra lavoratori diretti e in appalto, impedendo l’utilizzo degli spazi aziendali per le consultazioni delle maestranze. Nonostante ciò, grazie all’impegno dei rappresentanti sindacali e delle strutture territoriali della Filt, sono stati consultati migliaia di corrieri in tutta Italia, che hanno approvato l’ipotesi di accordo a stragrande maggioranza.
Consideriamo questo risultato non come punto di arrivo ma come una nuova ripartenza, che vede il movimento dei lavoratori in Amazon rafforzato e unificato, pronto per le nuove lotte e conquiste che ci attendono a partire dal prossimo anno.