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Lettera aperta alle compagne e ai compagni
La nostra piazza di Roma è stata una grande risposta civile e democratica. Ci ha aperto il cuore, ridandoci fiato ed energie per guardare avanti, sapendo che la strada è faticosa e lunga, e le contraddizioni, anche tra chi milita nello stesso campo, vanno affrontate in un confronto collettivo per ricercare sintesi più avanzate. L’esercizio della democrazia richiede pazienza, rispetto reciproco e disponibilità all’ascolto.
Ho scelto la forma inusuale di una lettera aperta, assumendomi la responsabilità di ciò che scrivo, per affrontare un tema che sta divenendo divisivo anche tra noi, in Cgil, e che deve rimanere assolutamente politico e sociale e non di ordine pubblico: il nostro giudizio sul movimento di protesta no vax - green pass e il rapporto che con esso va stabilito, consapevoli come siamo del valore del diritto alla protesta, della libertà di espressione e di manifestazione. Il conflitto tra le idee, gli ideali e gli interessi sociali, in una società democratica, è segno di vitalità, ma bisogna saper distinguere. Quando diviene violenza cieca e premeditata contro sindacati, associazioni, partiti democratici da parte di gruppi che inneggiano al duce, sventolano bandiere naziste, fomentano razzismo e nazionalismo è inaccettabile. Queste forze non hanno diritto di rappresentanza e di parola nel nostro Paese, nel rispetto della nostra Carta costituzionale.
Guardando le immagini della devastazione fascista, come tanti sono stato preso dallo sconforto e da una profonda tristezza. Confesso di aver trattenuto a stento le lacrime, e con la rabbia e la voglia di ribellione, ho provato anche un nobile sentimento di avversione per chi ha compiuto quel gesto, ma anche per chi lo ha sostenuto, appoggiato, applaudito. Hanno identificato la Cgil, non a caso, come nemico privilegiato, non la Confindustria e il governo, che hanno compiuto insieme la malaugurata scelta di introdurre il green pass obbligatorio nei luoghi di lavoro dove, attraverso i protocolli sicurezza, si era conquistato il diritto alla prevenzione contro la pandemia con misure e strumenti adeguati. A differenza di Confindustria e di certi politici di destra, abbiamo avuto come riferimento non l’economia e il profitto, ma la salute e la vita di chi lavora.
Lo stesso giorno della grande mobilitazione antifascista di Roma, oltre 10mila persone, molte delle quali sedicenti di sinistra o appartenenti a frange senza nessun radicamento nel mondo del lavoro, stavano scontrandosi con la polizia che non permetteva loro di raggiungere la Camera del Lavoro di Milano. Poco importa da chi fosse egemonizzata, so però che anche quella manifestazione aveva come bersagli la Cgil, il suo segretario generale, i suoi militanti. Mi pongo una domanda: se la polizia fosse stata colpevolmente ferma, per ordine del questore o chi per esso, come a Roma, se il corteo fosse arrivato sotto la Camera del Lavoro, cosa sarebbe successo? Avrebbero tentato l’assalto scontrandosi con chi la stava presidiando e difendendo la sede?
Mentre si scende in piazza per una fantomatica libertà personale, altri ci stanno chiudendo quella collettiva ristabilendo nel dopo pandemia i nuovi rapporti sociali tra capitale e lavoro, tra finanza e politica, tra le classi sociali. Quelle piazze non sono le mie piazze, la libertà pretesa e urlata non è la mia idea di libertà.
Penso, forte anche dell’esperienza e della storia, che lo sbocco politico del “movimento” no vax, antisistema, protestatario e violento sia a destra. Il suo approccio “culturale” è reazionario, corporativo, divisivo della classe e antisindacale, sebbene in questa fase sociale complessa lì dentro ci sia anche chi non può essere identificato come fascista e si debba cercare di recuperare. Con l’assalto alla sede della Cgil è stato superato ogni limite: uno spartiacque che ci ha riportato indietro nel tempo, fino a temere, di ritorno in treno dalla nostra manifestazione nazionale, dopo decenni di lotte a Milano, di poter essere aggrediti. Quella sera abbiamo dovuto nascondere le nostre bandiere, qualsiasi segno di color rosso: una cosa insopportabile.
In piazza c’era il complottismo negazionista per cui il virus è solo una montatura di potere, le ambulanze viaggiavano senza pazienti a bordo, gli ospedali erano vuoti e i camion pieni di bare erano una messinscena, come la sofferenza, le troppe morti, la strage di un’intera, preziosa generazione di ultra ottantenni, sulle quali pesano tante vigliacche responsabilità. La piazza di chi si crede fuori e immune al virus, e rimuove che, se può manifestare, andare al cinema, in vacanza, a lavorare, se può godersi la vita e quella libertà che la pandemia ci aveva tolto e di cui si riempie la bocca, non è merito suo ma di chi con responsabilità e senso civico si è vaccinato. Intanto nei paesi più poveri si continua a morire, e si lotta per un vaccino, per godere del diritto universale alla cura e alla salute. E pure in Inghilterra siamo già a duecento morti al giorno. Quale tolleranza si può avere, posso avere, dopo aver visto la sofferenza e la morte, verso atteggiamenti così ostili alla scienza, alla solidarietà, così indifferenti alla richiesta di liberalizzare i brevetti oggi in mano a multinazionali che fanno profitti enormi decidendo il destino di milioni di persone.
Questo è il momento di tirare una riga netta e decidere politicamente da che parte stare. Di qua o di là, perché destra e sinistra non sono uguali e l’ideologia della non ideologia nasconde una grande truffa sociale e culturale. L’equidistanza favorisce sempre il potere dominante e la destra.
Non riconosco un movimento che tollera gli insulti alla senatrice Liliana Segre, o chiama “dittatura sanitaria” il dovere civile di vaccinarsi. Un movimento la cui visione corporativa e individualistica è ben rappresentata nei cartelli su cui si legge: “lavoratori contro il green pass e il vaccino obbligatorio”, oppure “solidarietà non alla Cgil ma ai portuali di Trieste”.
C’è a sostegno di questo movimento anche il radicalismo inconcludente di chi, pure di sinistra, vede in ogni protesta la scintilla “rivoluzionaria” della lotta di classe. Il solito abbaglio preso anche sulla lotta organizzata dal Clpt, il coordinamento dei lavoratori portuali di Trieste (circa 200 tesserati su quasi 1500 addetti), nato dal dissenso sui contenuti di un accordo firmato dai sindacati confederali, politicamente vicino alle posizioni corporative e “indipendentiste” di spezzoni della destra sociale che fanno riferimento a Forza Nuova e Casa Pound. Con Trieste istituito in porto franco, in concorrenza sleale con tutti gli altri porti italiani, rivendicano di uscire dal contratto nazionale per un contratto “speciale” dei soli portuali triestini. È la regione dell’autonomia differenziata anche su fisco, sanità, assunzioni: le stesse posizioni del leghismo reazionario, razzista e anticostituzionale. Cosa abbiamo da spartire noi con questo movimento, se non il dovere di contrastarlo con una dura lotta culturale e politica? Siccome penso che la democrazia non si esporta con le armi, penso pure che la lotta di classe non la si esporta trasferendo “avanguardie” esterne nelle lotte altrui. Il livello dello scontro vero è più in alto.
Nel mondo dell’economia globalizzata e interdipendente, al capitalismo, al potere economico italiano non serve più il fascismo in camicia nera o un duce marionetta. Lo scontro di classe non si gioca nelle piazze no vax o dove si muovono le proteste corporative e di interessi particolari. Oggi al sistema serve come presidente del consiglio un tecnocrate, un liberista fintamente interclassista, un moderato normalizzatore; serve modernizzare il sistema per renderlo funzionale, per ridisegnare i poteri lasciando i rapporti sociali tra le classi, la distribuzione della ricchezza, le diseguaglianze profonde inalterate se non peggiorate.
Non a caso il governo Draghi non avanza nessuna vera proposta di riforma, come chiede il movimento sindacale, su fisco, lavoro, pensioni, salari, ammortizzatori sociali, diseguaglianze, beni pubblici, ruolo dello Stato in economia, servizio sanitario pubblico e diritto all’istruzione. Si compete e ci si scontra nel libero mercato, nel sistema capitalistico, sottraendo potere ed egemonia al potere economico e finanziario, alla borghesia conservatrice e reazionaria, al capitalismo onnivoro che distrugge l’ambiente e si sente proprietario della vita e della salute delle persone.
Il vero pericolo è l’instaurazione di una forma distorta di democrazia, autoritaria e aristocratica. Quella “rinascita” indicata dalla P2 di Gelli, volta a trasformare la nostra Repubblica parlamentare in presidenziale, a svuotare il Parlamento, dimezzando la rappresentanza politica, accentrando il potere in mano a un esecutivo e all’uomo solo al comando, relegando in un ruolo consociativo e passivo la rappresentanza sociale del mondo del lavoro.
La Cgil ha storici anticorpi, siamo una barriera in difesa della civiltà e della democrazia, ma il nostro sistema immunitario, dinanzi alla crisi sociale e all’arretramento culturale rischia di soccombere, e per questo dobbiamo immettere nell’organizzazione un forte vaccino che rinforzi la nostra cultura e i nostri valori attraverso una formazione, una pratica e un’azione coerenti col nostro fare ed essere sindacato confederale. Senza mai far venire meno il senso di responsabilità e di appartenenza a un’organizzazione democratica dalle forti radici nel movimento dei lavoratori.
L’enorme piazza colorata di sabato 16 ottobre a Roma è stata la risposta più chiara, ferma, serena allo squadrismo fascista che solo una settimana prima aveva voluto colpire, con l’assalto alla sede della Cgil, tutto il mondo del lavoro, perno della democrazia repubblicana antifascista e del progresso del Paese. La risposta non si è fatta attendere e ha travolto con la sua freschezza, la sua compattezza, la sua forza tranquilla ogni meschina polemica, ogni strumentale distinguo.
“Mai più fascismi” lo hanno incarnato giovani lavoratrici e lavoratori, altri più maturi, pensionate e pensionati provenienti da ogni parte d’Italia. Ma anche studenti, associazioni democratiche, Anpi, Arci, Libera, Legambiente in testa, singoli cittadini e democratici che non hanno voluto mancare a quella che si è via via presentata come una festa di popolo, la prima grande, grandissima manifestazione nazionale dopo le lunghe chiusure dovute alla pandemia. Con le dovute precauzioni: quasi tutti indossavano la necessaria mascherina.
Se piazza San Giovanni ha cominciato a riempirsi già intorno alle 10 del mattino, il flusso dalle vicine stazioni della metropolitana è stato continuo – e anzi centinaia di manifestanti sono rimasti imbottigliati fino a quasi la fine dei comizi alla stazione di partenza di Anagnina. E il corteo “di servizio” per il trasferimento a piazza San Giovanni di quanti sono arrivati, con treni ordinari e speciali, alla stazione Termini era fitto di decine di migliaia di persone con gli striscioni di Cgil, Cisl e Uil delle diverse regioni e città, con gli striscioni delle fabbriche e delle categorie, da Torino a Reggio Calabria, da Ancona a Firenze, da Trieste a Lecce. Impossibile citarle tutte. Tutto il Paese era dentro quel corteo e quella piazza, ben visibili, naturalmente anche Sicilia e Sardegna.
È il giorno della risposta alla gravissima ferita al lavoro e alla democrazia, un giorno per gridare tutti insieme che la Costituzione di questo Paese è nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. E per ribadire che il lavoro, nella nostra società, deve tornare al centro dell’agenda politica, economica, sociale, perché solo il lavoro, tutelato dai diritti, può salvarci da anni e anni di crisi finanziaria e, adesso, sanitaria. È il giorno del dolore per quello che è successo, del ricordo, ma anche dell’orgoglio, della militanza, dell’appartenenza, dell’unità, della voglia di futuro. La manifestazione, decisa “in meno di tre minuti” da Cgil Cisl e Uil come risposta al vile assalto squadrista alla Cgil di corso d’Italia, è caduta inoltre nel giorno dell’anniversario del terribile rastrellamento nazista del 1943 nel ghetto ebraico di Roma.
“Questa è una piazza molto bella, è una piazza che parla a tutto il Paese”, ha esordito dal palco il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, che ha chiuso la manifestazione dopo gli interventi di Sbarra (Cisl), Bombardieri (Uil) e Visentini (Ces). Hanno preso la parola anche una pensionata, una delegata del commercio e Silvia, delegata Fp del policlinico Umberto I di Roma, il cui pronto soccorso è stato pure preso d’assalto il 9 ottobre. Non solo una risposta allo squadrismo fascista, ma qualcosa di più, ha continuato Landini: “Rappresenta tutta l’Italia che vuole cambiare”. Essere antifascisti non significa infatti “essere contro qualcuno, ma essere per la democrazia e per le garanzie sancite dai diritti della Costituzione”.
Un filo rosso ha unito il suo discorso: lottare contro il fascismo significa lottare per la democrazia, e alla base di questa lotta c’è la dignità delle persone, il lavoro, la cultura. Proprio per questo, perché lo squadrismo non faccia più paura, serve una fase di grande cambiamento sociale nel nostro Paese, a partire dalla grande emergenza del lavoro: “Un lavoro sicuro e non precario”. Il primo atto, però, non può che essere uno: “Le forze che usano violenza e si richiamano al fascismo devono essere sciolte”.
La parola cambiamento ricorre più volte tra quelle usate da Landini, un cambiamento che non riguarda solo il nostro Paese: “Questa è una piazza europea e internazionale, che chiede un’Europa del lavoro, dell’inclusione, della pace, dei diritti umani”, ha sottolineato. Proprio per questo “vogliamo la verità su Regeni e pensiamo sia giunta l’ora di costruire una rete antifascista e democratica continentale”.
Landini ha quindi insistito su quali sono i cambiamenti necessari per una società più giusta, riproponendo con precisione tutti i punti della piattaforma sindacale in questa fase di confronto con il governo, tra legge di bilancio e Pnrr, e ha chiuso il suo intervento dedicando questa giornata di lotta ai giovani, “alla loro speranza di poter vivere in un paese senza guerre e senza fascismi, di studiare, sognare e potersi realizzare nel lavoro che fanno”. Cultura, lavoro dignitoso e fuaturo: così si combatte il buio che si nasconde dentro a ogni fascismo.
Note sull’attacco alla sede romana della Cgil.
La breve sequenza di avvenimenti che voglio ricostruire ha inizio alle ore 20 del 18 settembre sul ring del Palachiarbola di Trieste. In palio il titolo italiano dei superpiuma. A disputarselo, Michele Broili e Hassan Nourdine. A fare scandalo è il corpo tatuato di simboli nazisti del primo, tatuaggi che immagino non si sia fatto in occasione dell’incontro né tanto meno si siano visti lì per la prima volta, dal momento che la boxe non si disputa in canottiera. Comunque, tutto finisce bene: Nourdine vince aggiudicandosi due round su tre, dicendosi disgustato da quella simbologia, in prima linea per combatterla e, cosa rilevante, che il suo amore per l’Italia non gli avrebbe mai permesso di perdere contro Broili. Immigrato, operaio, antifascista, rivendica due vittorie: quella dei superpiuma e quella contro il razzismo e il nazismo.
Altro appuntamento in prima serata. Giovedì 30 settembre “Piazza Pulita”, la trasmissione di Corrado Formigli – giornalista che, con Enrico Mentana, è stato tra i fautori di quel bizzarro dialogo tra antifascisti convinti e Casa Pound, con cui condividono almeno le stesse riserve sulla legge Fiano, quella che decreta come reato l’apologia del fascismo (dal saluto romano alla vendita di gagliardetti e immagini ispirate al regime) – manda in onda la prima parte dell’inchiesta di Fanpage sui legami tra Fratelli d’Italia e i neofascisti.
Ultimo evento, questa volta pomeridiano. Durante la manifestazione dei No green pass di sabato 9 ottobre, un gruppo di dimostranti si stacca dal corteo non autorizzato e da Villa Borghese si dirige verso la sede della Cgil in corso Italia a Roma per occuparla e vandalizzarla. Tra i vari protagonisti dell’azione squadrista, nomi, volti e sigle noti alla giustizia e alle forze dell’ordine: Roberto Fiore, Giuliano Castellino, Luigi Aronica, in breve dai Nar a Forza Nuova, l’eversione nera è ben rappresentata.
Nel giro di una ventina di giorni abbiamo visto dispiegarsi una sequenza di eventi che hanno portato alla ribalta della cronaca la questione neofascista in Italia: sport, politica, sanità pubblica. I più avveduti, quelli che ad esempio seguono le grandi inchieste di Giorgio Mottola, Paolo Berizzi e Claudio Gatti, sanno bene del radicamento territoriale dei neofascisti, delle loro strategie di reclutamento giovanile nel mondo dello sport (soprattutto in quello delle arti marziali miste) e delle tifoserie calcistiche, delle iniziazioni squadriste sulla pelle degli immigrati, del processo di nazificazione della Lega, dei finanziamenti attraverso il narcotraffico e di tanto altro. Ma anche i più avveduti devono riconoscere che, per quanto fondativo della tradizione fascista, imprescindibile momento di formazione per gli squadristi del passato – ricordiamo le esemplari ricerche storiche di Mimmo Franzinelli sul fenomeno – nell’assalto alla Cgil c’è stato un elemento di novità negli obiettivi della violenza neofascista.
In questo caso i più avveduti hanno dovuto cedere il passo a coloro che non hanno dubbi: se si è attaccata una organizzazione del lavoro, ora e solo ora, possiamo essere autorizzati a riconoscere l’esistenza del neofascismo. Prima no? Un po’ come è avvenuto con i tatuaggi di Broili: solo quando sono arrivati alla finale dei superpiuma li si è potuti riconoscere come nazisti. Prima no?
Il merito delle dichiarazioni di coloro che non hanno dubbi sulla matrice squadrista dell’attacco alla Cgil risiede unicamente in ciò che non dicono: per conto di chi i fascisti attaccavano le organizzazioni del lavoro tra il 1919 e il 1922? Quale è stata la funzione storica della guerra civile scatenata dalle squadre d’azione contro i lavoratori? Quale il ruolo del grande capitale agrario prima, industriale poi, nel guidare e sostenere lo squadrismo? Alle certezze opportunistiche dei politicanti la ricerca scientifica e il pensiero critico devono sempre preferire i loro silenzi, forse è lì che alligna il vero.
Vedendo il movimento nazionalsocialista svilupparsi in tutta la sua forza, il filosofo Max Horkheimer amava ripetere che chi non avesse avuto nulla da dire sul capitalismo era meglio che tacesse anche sul fascismo. L’assalto alla Cgil, allora, seguendo questa suggestione metodologica, mi permette di impostare la questione neofascista in tutt’altro modo, ossia come una questione legata al rapporto tra capitale e lavoro, e questo ben oltre la contingenza in cui si è presentata negli ultimi tempi e molto oltre la visione elettoralistica degli opinion makers che riduce le relazioni tra partiti ed eversione nera ad un semplice e banale approvvigionamento di poche migliaia di voti.
Per quanti danni materiali abbia potuto causare alla sede della Cgil, l’attacco squadrista rimane un’azione simbolica contro il lavoro, i lavoratori e le loro organizzazioni. Questa violenza, sebbene carica di significato per la tradizione fascista, in realtà, richiama e traduce sul piano dei simboli, non tanto quella dello squadrismo delle origini, di cui in ogni caso conserva la forma al pari di una carcassa vuota, quanto quella materiale, quotidiana, inesorabile che da più un trentennio tutti i governi neoliberisti italiani, in pieno accordo con le direttive europee, agiscono contro le tutele sindacali, di conseguenza, contro i lavoratori, per consentire alle imprese uno spazio di manovra sempre più ampio e disinvolto. Oggi che i licenziamenti arrivano via mail o per un commento su facebook, che le carenti condizioni di sicurezza sul lavoro mietono stragi di lavoratori, questa libertà si capisce cosa voglia dire e alle spalle di chi è stata conquistata.
Da tempo oramai il capitalismo ha trovato quelli che, parafrasando il sociologo Gino Germani (antifascista esule in Argentina nel 1934, avversario del peronismo, da qui di nuovo esiliato in America dopo il golpe militare del 1966), si possono definire dei sostituti funzionali dello squadrismo che hanno reso questo metodo di logoramento delle organizzazioni del lavoro talmente obsoleto e anacronistico che, quando lo si vede apparire all’improvviso, suscita scandalo e indignazione collettiva.
Se non ha meravigliato nessuno vedere nobili imprenditori in pellegrinaggio a corso Italia tra le rovine della sede della Cgil, tanto meno, allora, dovrebbe fare meraviglia vedere associato al disprezzo padronale per il lavoro di cui ho appena parlato, un disprezzo calato dall’alto che ha portato e porta la distruzione materiale nelle vite dei lavoratori, un altrettanto distruttivo disprezzo, questa volta salito dal basso, per i suoi simboli da parte di chi, come i neofascisti, degli ideali del lavoro non ha mai saputo cosa farsene e, soprattutto, ha nella sua storia una guerra civile e sanguinaria proprio contro le organizzazioni del lavoro e i lavoratori.
I materiali d’inchiesta giornalistica come al solito sono molto importati. Un solo esempio. Stefano F., un militante di estrema destra uscito con molte difficoltà dal suo gruppo di appartenenza, quindi un ex “soldato fascista” dice, in un’intervista rilasciata a Berizzi, che per quanto vivesse di lavoro facendo l’operaio mulettista tutta la settimana, i suoi ideali erano (e continuano a essere) quelli della tradizione fascista (Dio, patria, famiglia, antisemitismo) aggiornati alla luce degli effetti della globalizzazione, il che vuol dire xenofobia, odio verso gli immigrati. L’unica differenza tra il prima e il dopo è che ora quando li vede non li mena.
Ribadendo che nell’estrema destra non si entra per problemi di natura socio-familiare ma semplicemente “perché ti piace”, l’intervistato conferma la più completa estraneità della sua condizione soggettiva da qualsiasi elemento ricollegabile all’universo valoriale ed esistenziale del lavoro, e induce a riflettere criticamente anche sulla validità di quelle ricette politiche preconfezionate che vedono nell’occupazione la leva per integrare nel mondo sociale le varie forme di devianza.
Si capisce da quanto detto che identificare come squadrista l’attacco alla Cgil vuol dire tanto senza che, al di fuori delle evidenze storiche condivise da tutti i partiti dell’arco costituzionale, ciò significhi qualcosa di preciso sull’epoca in cui viviamo. Parlare di neofascismo ha senso, allora, se ciò permette di formulare una diagnosi sul nostro tempo, sulla violenza generalizzata contro il lavoro e i lavoratori nell’assetto dell’attuale società neoliberista di cui sabato 9 ottobre è andato in onda solo un brevissimo spot pubblicitario ambientato nella sede romana della Cgil in Corso d’Italia.
Il governo ha inviato il Documento programmatico di bilancio alla Commissione europea che dovrà esprimere un parere da cui deriverà la legge di bilancio da presentare nei prossimi giorni in Parlamento. Si è parlato di “unanimità”, ma la Lega ha messo a verbale la sua riserva politica sulle pensioni. Cosa non da poco, anche se Draghi si è limitato a prendere atto. Il Pd ha rilasciato dichiarazioni molto positive sul documento ma, a quanto si sa, al posto di Quota 100, dovrebbe esserci prima una Quota 102 (64 anni di età e 38 anni di contributi), dal 1° gennaio al 31 dicembre 2022, e poi una Quota 104 per tutto il 2023. Un modo per evitare un passaggio drastico alle regole dettate dalla legge Fornero. Scalini al posto dello scalone. Soluzione che non piace affatto al sindacato, Cgil in testa.
Draghi ha deciso di calare la carta della riforma fiscale, attorno alla quale si gioca un vero e radicato scontro di interessi. In realtà i dieci articoli che compongono il disegno di legge delega sono solo “una scatola di principi”, come ha detto lo stesso Draghi. Il rischio concreto è che nella discussione parlamentare il testo subisca profonde modifiche se non stravolgimenti in peggio. Ipotesi tutt’altro che irrealistica visto il pessimo documento uscito dalle commissioni finanze di Camera e Senato, guidata dal renziano Marattin.
La revisione del catasto – punto di scontro con la destra - acquisterebbe efficacia solo a partire dal 1° gennaio 2026. Draghi ha precisato che sul tema ci sarebbero due impostazioni completamente diverse: “la prima è costruire una base di informazione adeguata”, come ad esempio stanare le famose “case fantasma” di cui è costellato il nostro martoriato territorio; mentre “la seconda è decidere se cambiare le tasse e questa decisione oggi non l’abbiamo presa. Ci vorranno cinque anni”. Quindi non solo non si parla di patrimoniale – e ciò era chiaro fin dall’inizio - ma è il governo stesso che si impegna a garantire, ben al di là della sua durata e di quella della legislatura, che per almeno cinque anni non avverrà alcuno spostamento del prelievo fiscale dal lavoro alla rendita, né sarà possibile superare la crisi finanziaria che strozza le autonomie locali.
La legge delega non nasce alla ricerca della giustizia fiscale, infatti il primo dei quattro principi citati, che dovrebbero riempire la scatola draghiana, è lo “stimolo alla crescita economica”. Si vuole portare il nostro sistema verso un modello compiutamente duale, quindi con la distinzione della tassazione tra redditi da capitale e redditi da lavoro. Per i redditi da capitale è prevista una tassazione proporzionale, tendenzialmente con un’aliquota uguale per tutti, ma con gradualità, nell’intento di rendere più efficiente il mercato dei capitali. Per i redditi da lavoro è prevista la riduzione delle aliquote effettive medie e marginali dell’Irpef, con l’obiettivo di incentivare l’offerta di lavoro, in particolare nelle classi di reddito dove si concentrano i giovani. Ove per aliquote effettive si intendono quelle formali ma corrette dalle detrazioni.
Qui si gioca tra poco il grosso della partita, poiché questa parte dovrebbe essere anticipata in legge di bilancio, vista anche la disponibilità finanziaria esistente, che dovrebbe toccare i 9 miliardi. Ma non basta respingere le proposte, in vario modo formulate dalle destre, e non solo, sulla flat tax e sui regimi forfettari. Proprio qui si delinea un bivio. Una volta respinta, purtroppo, una soluzione alla tedesca sul modello della “aliquota continua”, o si sceglie la strada di distribuire riduzioni a pioggia o bonus, come nel recente passato, facendo cassa elettorale, oppure quella di agire sulle aliquote effettive, evitando scaloni o clamorose diversità di trattamento per pochi euro di reddito, alleviando così per via fiscale l’insopportabile basso livello delle retribuzioni italiane che ormai tutti rilevano, a parte la Confindustria nostrana.
La lotta all’evasione e all’erosione rimane un principio vago, almeno per due motivi. Il primo riguarda la razionalizzazione dell’Iva, che può essere uno strumento anche contro l’erosione, ma tutto dipende da come sono articolate le aliquote e a quali beni si riferiscono, nel cui merito la legge delega non entra. Il secondo riguarda la decisione di espungere dalla delega norme di superamento di quei vincoli sulla privacy che depotenziano gli accertamenti fiscali. Draghi ha promesso che le inserirà in un disegno di legge ad hoc. Un’altra carta coperta quindi.