Note sull’attacco alla sede romana della Cgil.
La breve sequenza di avvenimenti che voglio ricostruire ha inizio alle ore 20 del 18 settembre sul ring del Palachiarbola di Trieste. In palio il titolo italiano dei superpiuma. A disputarselo, Michele Broili e Hassan Nourdine. A fare scandalo è il corpo tatuato di simboli nazisti del primo, tatuaggi che immagino non si sia fatto in occasione dell’incontro né tanto meno si siano visti lì per la prima volta, dal momento che la boxe non si disputa in canottiera. Comunque, tutto finisce bene: Nourdine vince aggiudicandosi due round su tre, dicendosi disgustato da quella simbologia, in prima linea per combatterla e, cosa rilevante, che il suo amore per l’Italia non gli avrebbe mai permesso di perdere contro Broili. Immigrato, operaio, antifascista, rivendica due vittorie: quella dei superpiuma e quella contro il razzismo e il nazismo.
Altro appuntamento in prima serata. Giovedì 30 settembre “Piazza Pulita”, la trasmissione di Corrado Formigli – giornalista che, con Enrico Mentana, è stato tra i fautori di quel bizzarro dialogo tra antifascisti convinti e Casa Pound, con cui condividono almeno le stesse riserve sulla legge Fiano, quella che decreta come reato l’apologia del fascismo (dal saluto romano alla vendita di gagliardetti e immagini ispirate al regime) – manda in onda la prima parte dell’inchiesta di Fanpage sui legami tra Fratelli d’Italia e i neofascisti.
Ultimo evento, questa volta pomeridiano. Durante la manifestazione dei No green pass di sabato 9 ottobre, un gruppo di dimostranti si stacca dal corteo non autorizzato e da Villa Borghese si dirige verso la sede della Cgil in corso Italia a Roma per occuparla e vandalizzarla. Tra i vari protagonisti dell’azione squadrista, nomi, volti e sigle noti alla giustizia e alle forze dell’ordine: Roberto Fiore, Giuliano Castellino, Luigi Aronica, in breve dai Nar a Forza Nuova, l’eversione nera è ben rappresentata.
Nel giro di una ventina di giorni abbiamo visto dispiegarsi una sequenza di eventi che hanno portato alla ribalta della cronaca la questione neofascista in Italia: sport, politica, sanità pubblica. I più avveduti, quelli che ad esempio seguono le grandi inchieste di Giorgio Mottola, Paolo Berizzi e Claudio Gatti, sanno bene del radicamento territoriale dei neofascisti, delle loro strategie di reclutamento giovanile nel mondo dello sport (soprattutto in quello delle arti marziali miste) e delle tifoserie calcistiche, delle iniziazioni squadriste sulla pelle degli immigrati, del processo di nazificazione della Lega, dei finanziamenti attraverso il narcotraffico e di tanto altro. Ma anche i più avveduti devono riconoscere che, per quanto fondativo della tradizione fascista, imprescindibile momento di formazione per gli squadristi del passato – ricordiamo le esemplari ricerche storiche di Mimmo Franzinelli sul fenomeno – nell’assalto alla Cgil c’è stato un elemento di novità negli obiettivi della violenza neofascista.
In questo caso i più avveduti hanno dovuto cedere il passo a coloro che non hanno dubbi: se si è attaccata una organizzazione del lavoro, ora e solo ora, possiamo essere autorizzati a riconoscere l’esistenza del neofascismo. Prima no? Un po’ come è avvenuto con i tatuaggi di Broili: solo quando sono arrivati alla finale dei superpiuma li si è potuti riconoscere come nazisti. Prima no?
Il merito delle dichiarazioni di coloro che non hanno dubbi sulla matrice squadrista dell’attacco alla Cgil risiede unicamente in ciò che non dicono: per conto di chi i fascisti attaccavano le organizzazioni del lavoro tra il 1919 e il 1922? Quale è stata la funzione storica della guerra civile scatenata dalle squadre d’azione contro i lavoratori? Quale il ruolo del grande capitale agrario prima, industriale poi, nel guidare e sostenere lo squadrismo? Alle certezze opportunistiche dei politicanti la ricerca scientifica e il pensiero critico devono sempre preferire i loro silenzi, forse è lì che alligna il vero.
Vedendo il movimento nazionalsocialista svilupparsi in tutta la sua forza, il filosofo Max Horkheimer amava ripetere che chi non avesse avuto nulla da dire sul capitalismo era meglio che tacesse anche sul fascismo. L’assalto alla Cgil, allora, seguendo questa suggestione metodologica, mi permette di impostare la questione neofascista in tutt’altro modo, ossia come una questione legata al rapporto tra capitale e lavoro, e questo ben oltre la contingenza in cui si è presentata negli ultimi tempi e molto oltre la visione elettoralistica degli opinion makers che riduce le relazioni tra partiti ed eversione nera ad un semplice e banale approvvigionamento di poche migliaia di voti.
Per quanti danni materiali abbia potuto causare alla sede della Cgil, l’attacco squadrista rimane un’azione simbolica contro il lavoro, i lavoratori e le loro organizzazioni. Questa violenza, sebbene carica di significato per la tradizione fascista, in realtà, richiama e traduce sul piano dei simboli, non tanto quella dello squadrismo delle origini, di cui in ogni caso conserva la forma al pari di una carcassa vuota, quanto quella materiale, quotidiana, inesorabile che da più un trentennio tutti i governi neoliberisti italiani, in pieno accordo con le direttive europee, agiscono contro le tutele sindacali, di conseguenza, contro i lavoratori, per consentire alle imprese uno spazio di manovra sempre più ampio e disinvolto. Oggi che i licenziamenti arrivano via mail o per un commento su facebook, che le carenti condizioni di sicurezza sul lavoro mietono stragi di lavoratori, questa libertà si capisce cosa voglia dire e alle spalle di chi è stata conquistata.
Da tempo oramai il capitalismo ha trovato quelli che, parafrasando il sociologo Gino Germani (antifascista esule in Argentina nel 1934, avversario del peronismo, da qui di nuovo esiliato in America dopo il golpe militare del 1966), si possono definire dei sostituti funzionali dello squadrismo che hanno reso questo metodo di logoramento delle organizzazioni del lavoro talmente obsoleto e anacronistico che, quando lo si vede apparire all’improvviso, suscita scandalo e indignazione collettiva.
Se non ha meravigliato nessuno vedere nobili imprenditori in pellegrinaggio a corso Italia tra le rovine della sede della Cgil, tanto meno, allora, dovrebbe fare meraviglia vedere associato al disprezzo padronale per il lavoro di cui ho appena parlato, un disprezzo calato dall’alto che ha portato e porta la distruzione materiale nelle vite dei lavoratori, un altrettanto distruttivo disprezzo, questa volta salito dal basso, per i suoi simboli da parte di chi, come i neofascisti, degli ideali del lavoro non ha mai saputo cosa farsene e, soprattutto, ha nella sua storia una guerra civile e sanguinaria proprio contro le organizzazioni del lavoro e i lavoratori.
I materiali d’inchiesta giornalistica come al solito sono molto importati. Un solo esempio. Stefano F., un militante di estrema destra uscito con molte difficoltà dal suo gruppo di appartenenza, quindi un ex “soldato fascista” dice, in un’intervista rilasciata a Berizzi, che per quanto vivesse di lavoro facendo l’operaio mulettista tutta la settimana, i suoi ideali erano (e continuano a essere) quelli della tradizione fascista (Dio, patria, famiglia, antisemitismo) aggiornati alla luce degli effetti della globalizzazione, il che vuol dire xenofobia, odio verso gli immigrati. L’unica differenza tra il prima e il dopo è che ora quando li vede non li mena.
Ribadendo che nell’estrema destra non si entra per problemi di natura socio-familiare ma semplicemente “perché ti piace”, l’intervistato conferma la più completa estraneità della sua condizione soggettiva da qualsiasi elemento ricollegabile all’universo valoriale ed esistenziale del lavoro, e induce a riflettere criticamente anche sulla validità di quelle ricette politiche preconfezionate che vedono nell’occupazione la leva per integrare nel mondo sociale le varie forme di devianza.
Si capisce da quanto detto che identificare come squadrista l’attacco alla Cgil vuol dire tanto senza che, al di fuori delle evidenze storiche condivise da tutti i partiti dell’arco costituzionale, ciò significhi qualcosa di preciso sull’epoca in cui viviamo. Parlare di neofascismo ha senso, allora, se ciò permette di formulare una diagnosi sul nostro tempo, sulla violenza generalizzata contro il lavoro e i lavoratori nell’assetto dell’attuale società neoliberista di cui sabato 9 ottobre è andato in onda solo un brevissimo spot pubblicitario ambientato nella sede romana della Cgil in Corso d’Italia.