C’è Confindustria che insiste e alla sua assemblea nazionale detta la linea, peraltro già cara al ministro leghista Giorgetti che, non casualmente, è a capo del ministero dello Sviluppo economico: “No a logiche punitive nel decreto delocalizzazioni”. E c’è Maurizio Landini che si stupisce: “Non è stata detta una parola sulle multinazionali che hanno fatto licenziamenti e non arretrano”. Una perplessità più che giustificata, visto lo scandalo suscitato dalla vertenza alla Gkn di Campi Bisenzio, dove è dovuto intervenire un giudice del lavoro per riportare le lancette dell’orologio al giorno precedente una chiusura proditoria di una fabbrica in salute, con commesse e un valore aggiunto – assi, semiassi e giunti cardanici – di almeno il 40% su ogni euro investito.
In questo contesto, Mario Draghi non tocca proprio l’argomento. Anzi il presidente del consiglio, il “migliore dei migliori”, di fronte all’assemblea proclama l’esigenza di “una prospettiva economica condivisa”, che subito identifica con quella di un “patto sociale” lanciata dallo stesso leader di Confindustria, Carlo Bonomi. Un ulteriore motivo, agli occhi degli industriali, per definirlo testualmente “l’uomo della necessità”. E dedicargli una standing ovation, peraltro già programmata a tavolino, visti i numerosi provvedimenti a sostegno delle imprese che gli ultimi governi hanno messo in atto. Quantificabili, secondo le stesse fonti di governo (la viceministra pentastellata Alessandra Todde) e di maggioranza (il responsabile economico del Pd, Antonio Misiani), in almeno 115 miliardi in due anni.
Il segretario generale della Cgil, alla fine dell’assemblea, osserva, anche con troppa cautela, che il “patto sociale” avanzato da Bonomi e rilanciato da Draghi non appare sostanziato da proposte precise. “Quanta distanza fra i Campi Bisenzio della Gkn e l’Eur della Confindustria – annota al tempo stesso Alfonso Gianni sul manifesto – due realtà antagoniste. Nella seconda vincono Draghi e Bonomi. Nella prima no”.