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Basta con la retorica e il conformismo, la sudditanza di troppi al governo “dei migliori”, all’uomo solo al comando, al taumaturgo che, insieme ai suoi fedeli e stretti collaboratori e ministri, di stampo liberista, ha ottenuto i primi 25 miliardi del Recovery plan e garantirà, con le risorse future pur condizionate, la crescita e il benessere del Paese. In tutta questa melassa il paese vivo e reale viene rimosso.
Basta leggere i dati Istat sul nostro mercato del lavoro, sulla precarietà e la disoccupazione per rendersi conto che siamo un Paese che deve cambiare in profondità, e che nessuna crescita in sé costruirà uguaglianza e un paese più giusto.
Il Paese più giusto, per noi e le future generazioni, è da conquistare: nulla è scontato e nulla ci sarà regalato. Per questo futuro migliore il 26 giugno il sindacato confederale, il mondo del lavoro, i pensionati, insieme alle associazioni democratiche, ecologiste e antifasciste, hanno unitariamente riconquistato le piazze di Torino, Firenze e Bari.
Una giornata importante. Deve segnare un punto di partenza per una mobilitazione che deve trovare continuità, consenso e partecipazione sempre più diffusa. Abbiamo riportato al centro del confronto politico il Paese reale, la concretezza materiale della condizione sociale ed economica del cittadino lavoratore – precario – disoccupato - pensionato. Non del popolo indefinito, ma di quella parte che vive di lavoro e che paga un prezzo alto alla crisi, a causa di un sistema economico e di potere che accentra ricchezze, produce nuove povertà, diseguaglianze e sfruttamento delle persone e del pianeta.
Ora occorre essere consapevoli dei nostri limiti, continuare a programmare e realizzare migliaia di assemblee nei luoghi di lavoro, per ascoltare i bisogni, le ansie di chi rappresentiamo, per informare, portare a conoscenza delle nostre rivendicazioni generali e confederali, per costruire consenso e partecipazione attiva dei delegati e dei lavoratori per le mobilitazioni future, senza le quali non si conquista ciò che abbiamo messo nelle nostre piattaforme rivendicative. Senza rapporti di forza come sindacato confederale non saremo riconosciuti e valorizzati, non avremo nessun reale tavolo di confronto preventivo con il governo, di ordine vertenziale e contrattuale, non consociativo.
Lo scontro si amplierà e si svilupperà attorno agli interessi in campo, sul rapporto tra capitale e lavoro, cioè sulla concretezza delle scelte e sulla messa a terra dei provvedimenti, sulle riforme centrali del mercato del lavoro, sugli ammortizzatori sociali, sul fisco, sulla previdenza, sulla pubblica amministrazione e la giustizia. Sulla proroga del blocco dei licenziamenti per tutti e non selettiva per settori, sullo stato sociale, sulla sanità e la scuola pubblica, sugli investimenti e sul ruolo dello Stato in economia, sui beni pubblici.
Il Paese reale è fatto anche di tanti luoghi di lavoro e di settori considerati marginali, la logistica tra questi, dove il lavoratore è sfruttato e con pochi diritti. Dove si alimenta la guerra tra poveri. Non si tratta banalmente solo di governare un algoritmo ma di mettere in discussione le leggi e le scelte del passato, di tornare a governare e contrattare la condizione lavorativa, di mettere in discussione il modello produttivo e i tempi di lavoro dettati dai padroni attraverso le nuove tecnologie, peraltro mai neutre.
La stessa ipocrita onda di sdegno del governo e dei politici sull’uccisione del sindacalista Adil Belakhdim, travolto da un Tir, è già sparita. Le morti sul lavoro sono considerate semplici incidenti o fatti di cronaca, compresa la straziante morte della giovane operaia Luana D’Orazio.
Si rimuovono le nefaste conseguenze di leggi e decreti liberisti dei passati governi, dalla legge 30 di Sacconi, ai decreti Poletti, sino al renziano Jobs Act che, tra altro, ha cancellato l’articolo 18, togliendo dignità e protezione ai lavoratori e a chi vuole impegnarsi nel sindacato. Si sono messi al primo posto il mercato e il profitto, non la persona. Se non si mettono in discussione il paradigma e l’ideologia liberista e non ricostruiremo adeguati rapporti di forza tra capitale e lavoro non cambieremo questo Paese e il suo perverso, ingiusto, discriminatorio modello di crescita e di sviluppo. E non ci sarà conquista consolidata dei diritti civili senza la conquista del diritto al buon lavoro e dei diritti sociali universali.
La strada è lunga e difficile se si vuole conquistare quel cambiamento necessario per costruire la società futura e il paese migliore con al centro il lavoro, i diritti e l’eguaglianza nelle condizioni e nelle possibilità. Se non si vuole accettare e subire la realtà e invece applicare concretamente i valori e la democrazia sociale ed economica della nostra Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, compresa la laicità dello Stato, la Cgil rimane il luogo di ascolto, di accoglienza e di militanza. Di lotta e di speranza.
Il 93% dei lavoratori approva il rinnovo del Ccnl.
lavoratori del trasporto merci e della logistica hanno a grande maggioranza (93%) approvato l’ipotesi di accordo per il rinnovo del Ccnl. Si tratta di un rinnovo particolare, in quanto l’intera trattativa si è mossa a cavallo della pandemia, evidenziando tutte le criticità che tale situazione ha portato con sé. La decisione concordata fra le parti di andare a un rinnovo della sola parte economica - 104 euro sul livello 3S, oltre a 230 euro di una tantum – rimandando al futuro la revisione della parte normativa, ha quindi incontrato il consenso dei lavoratori.
La trattativa che si svolgerà nei prossimi mesi, attraverso la costituzione di una commissione tecnica, andrà alla revisione e riscrittura della parte normativa del contratto per renderlo più aderente a una realtà in costante trasformazione, riconoscendo al contempo ai lavoratori diritti e salario. Questa modalità ha come obiettivo quello di arrivare alla prossima scadenza con una parte sostanziale del rinnovo già condivisa fra le parti, accelerando i tempi per portare una nuova ipotesi di accordo ai lavoratori per l’approvazione.
Mentre si concludeva la fase delle assemblee, il mondo della logistica è stato però investito da una serie di gravi episodi che hanno destato l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Si tratta dell’inchiesta della magistratura sugli appalti di Dhl Supply Chain, delle aggressioni davanti ai cancelli di alcune aziende, e infine della tragica morte del sindacalista Adil Belakhdim, investito da un camion che ha sfondato un presidio dei lavoratori.
Abbiamo denunciato le difficili condizioni di sfruttamento che interessano una parte dei lavoratori. La nostra azione sindacale, nella maggior parte dei contesti nei quali siamo intervenuti, ha ottenuto l’appoggio e la fiducia delle lavoratrici e dei lavoratori, arrivando ad essere il sindacato maggiormente rappresentativo. Per questo rifiutiamo la narrazione di questi giorni che ci descrive ai margini della rappresentanza.
Sono anni che la Filt Cgil denuncia lo stato di diffusa illegalità del settore della logistica e del trasporto delle merci, quasi sempre inascoltata dalla politica e dalle istituzioni. Lasciamo alla sede giudiziaria il chiarimento di tutte le circostanze, ma quanto emerso dalle recenti inchieste della magistratura milanese sugli appalti della logistica non ci stupisce. Solo due mesi fa siamo dovuti intervenire in una situazione di emergenza per garantire la continuità occupazionale per mille operai nel momento in cui un consorzio è stato interessato da un’azione delle Guardia di Finanza per evasione fiscale e contributiva.
Purtroppo il faro mediatico si è acceso solo ora, in seguito ad inchieste giudiziarie e ad inaccettabili, tragiche vicende. Un complesso sistema che ha necessità di un immediato intervento legislativo, che ponga un argine alla rincorsa da parte dei grandi committenti alle tariffe di appalto al maggior ribasso, che trascinano inevitabilmente con sé il mancato riconoscimento del salario e dei diritti dei lavoratori da parte degli appaltatori.
Così come è avvenuto per gli appalti pubblici, oggi non è più rinviabile una legge che ponga regole trasparenti anche sugli appalti privati. La responsabilità della committenza è innegabile, in quanto questa costante ricerca della tariffa più bassa, accostata alla richiesta di massima flessibilità, non può che portare ad un peggioramento delle condizioni di lavoro. Una situazione che dovrà essere disinnescata attraverso azioni concrete che diano tutele e salario ai lavoratori.
Sfidiamo i grandi gruppi della logistica a intraprendere un confronto serrato che porti ove più possibile alla internalizzazione delle attività. Conosciamo bene cosa accade nei capannoni dei grandi poli logistici, di quali siano i ritmi e le condizioni di lavoro, di come sia ormai non più sopportabile per i lavoratori il costante susseguirsi dei cambi di appalto, che ogni volta porta con sé paura e incertezza per il futuro. Una esasperazione che porta sovente lavoratori a forme estreme di protesta in cui, a causa delle pressioni dei datori di lavoro, si possono generare tensioni e contrapposizioni tra chi ha perso il lavoro e chi ha invece paura di perderlo.
In questo contesto si inserisce l’azione della parte datoriale che cerca costantemente di innescare lo scontro, trovando terreno fertile nella disperazione di chi subisce. Un’azione sindacale seria e responsabile deve mostrarsi capace di parlare a tutti, che siano essi operai o impiegati, per evitare contrapposizioni che portino alla frammentazione del fronte dei lavoratori.
La Camera del Lavoro Metropolitana di Milano ha predisposto un progetto di ripresa per la città che propone il passaggio dalla “smart city” alla “smart society”.
Milano, la Milano dell’Expo, degli eventi e delle vetrine, è stata una città diseguale. Il modello di sviluppo milanese di questi anni ha reso il territorio attrattivo, ma non inclusivo. La crescita e la ricchezza dell’economia del territorio non hanno determinato un beneficio per tutte le cittadine e i cittadini, le lavoratrici e i lavoratori che hanno contribuito alla generazione del Pil del comprensorio. La capacità di produzione della ricchezza ha prodotto tanto lavoro povero, occasionale, intermittente. Le condizioni di vita nelle periferie, ribattezzate elegantemente quartieri, non sono migliorate e in diverse circostanze anche peggiorate, se pensiamo soprattutto alla concentrazione abitativa di persone immigrate. Questo il modello della doppia velocità. Qualcuno corre, qualcuno stenta.
Le politiche urbanistiche sono state conseguenti. Alcuni quartieri di Milano hanno cambiato lo skyline sostituendo insediamenti tradizionali con avveniristici centri direzionali di acciaio e vetri a specchio. Un territorio attrattivo, con grandi ambizioni, che nel diventare esteticamente bello e moderno comprimeva l’area dei diritti di chi vive del proprio lavoro o della propria pensione, chiudeva ambulatori territoriali pubblici a favore dell’eccellenza ospedaliera, dove la sanità privata più facilmente trova il margine per il proprio interesse. Proprio nella sanità il cambio di paradigma: dal prevenire è meglio che curare, al curare è più conveniente che prevenire.
L’evento pandemico ha mostrato tutti i limiti di questo modello, ha reso più evidente quanto la capacità di creare ricchezza fosse basata su un’idea di lavoro senza valore, e che la rigenerazione urbana fosse a disposizione di chi se lo poteva permettere o di chi, grazie alla disponibilità di grandi risorse economiche, poteva condizionare scelte significative. Il dibattito sugli scali ferroviari, piuttosto che quello sullo stadio, sono stati paradigmatici.
Milano non è stata solo questo. Milano è stata, ed è, una città che è riuscita a mobilitare le parti migliori della nostra società. Le esperienze diffuse dell’associazionismo solidale, le svariate forme di organizzazione e autorganizzazione sociale, rappresentano una ricchezza che quotidianamente tiene aperta una dialettica sociale e culturale nelle forme più varie. La rappresentanza sociale del lavoro, la Cgil, è giusto che stia in questo sistema di relazioni e alleanze sociali.
Partire da questa lettura significa ragionare delle possibilità per le persone che vivono e lavorano a Milano, significa avere lo spazio per pensare ad un modello di sviluppo del territorio orientato all’inclusione sociale e ai diritti, significa provare a tracciare un’ipotesi del riorientamento della vocazione del territorio che si misuri con la condizione sociale e il cambiamento.
Oltre alla sospensione, e/o probabile ridefinizione delle modalità, degli eventi in città, cosa ci consegna la pandemia come misura della condizione sociale e del lavoro? Prima di tutto che il lavoro non è tutto eguale. Tante persone hanno avuto l’opportunità di lavorare in smart working. Con certezza hanno avuto la possibilità di esercitare una continuità lavorativa che non necessariamente è stata presupposto di tranquillità, questo vale soprattutto per le donne. Oltre alle nuove frontiere che la contrattazione collettiva dovrà affrontare, sicuramente molti uffici sono stati svuotati, e non è detto che verranno rioccupati come lo erano nel passato.
Lo smart working si intreccia inevitabilmente con un bilancio circa la possibilità concreta di lavorare da casa. Sì, perché si è parlato di smart working, ma in realtà è stato home working. Quindi un primo interrogativo riguarda il luogo, i luoghi del lavoro nella Milano di domani.
Una questione immediatamente successiva riguarda la grande quantità di lavoro che ruotava attorno ai centri direzionali, dal sistema dei servizi alla ristorazione. Uffici vuoti, o semi vuoti, significa meno necessità di spazi da gestire e da pulire, meno persone che richiedono pasti e/o si muovono. La conseguenza, sempre riferita al primo interrogativo, riguarda l’economia del territorio, quella della quotidianità.
Sempre a proposito del lavoro non eguale, il lavoro povero e precario ha pagato due volte la sua condizione: la prima nelle condizioni di lavoro (quando c’era), la seconda nella perdita di quel lavoro, mal pagato e saltuario, che non ha avuto adeguata protezione nel periodo della pandemia.
Quindi la questione sociale è elemento centrale della riflessione che la politica nazionale e del territorio deve assumere. Questione sociale che rischia, a seguito dello sblocco dei licenziamenti, soltanto di diventare una bomba che mina l’idea stessa di coesione sociale. E quando parte una dinamica incontrollata, gli esiti sono imprevedibili. Quello che è accaduto in queste settimane nel settore della logistica è emblematico di un clima che via via si va definendo.
Far rientrare la dialettica sociale nell’agenda della politica è tutt’altro che scontato. Le mobilitazioni unitarie del 26 giugno sono lì a dimostrarlo. Ma questo deve essere l’impegno a tutti i livelli.
La Camera del Lavoro Metropolitana di Milano già nei mesi scorsi ha predisposto un progetto di ripresa per la città che, per giocare con gli inglesismi, teorizza il passaggio dalla “smart city” alla “smart society”. Ovvero un cambio di paradigma nella lettura sul modello di sviluppo del territorio che mette al centro la società, la comunità di donne e uomini portatrici e portatori di diritti, al posto della città intesa come luogo dell’evento, della vetrina e del consumo.
Questo significa la valorizzazione del lavoro, in particolare del lavoro pubblico, e della buona occupazione come “antidoto” contro la vulnerabilità del modello di sviluppo a due velocità e come “cura”, attraverso l’utilizzo dei fondi derivanti dal Pnrr, per affrontare un cambiamento che assume tra i suoi obbiettivi di sostenibilità i temi ambientali come quelli sociali.
Poi la ridefinizione, attraverso le cosiddette “officine territoriali”, dei luoghi del lavoro, della socialità e dei diritti, per misurarsi con il cambiamento della modalità della prestazione d’opera in forma decentrata e diffusa nel territorio. Non semplici forme di decentramento di attività impiegatizia, né semplici coworking.
Ancora, un piano di investimenti in infrastrutture, quella digitale come quella della mobilità, che assuma come obiettivo il superamento della disparità della capacità di connessione nel territorio unitamente agli interventi di sostenibilità ambientale. La creazione di un “Piano regolatore digitale” per la trasparenza e l’utilizzo legale della grande massa di dati e di informazioni che circolano sulla rete digitale. E un piano straordinario di investimenti a favore degli edifici pubblici per rendere le nostre scuole più moderne e adeguate alle esigenze di spazi, come più diffuso sul territorio il presidio dei servizi sanitari e sociali. La definizione di forme di partecipazione dove la rappresentanza sociale del lavoro possa promuovere il proprio punto di vista, il punto di vista del lavoro, e contribuire alla costruzione di un cambiamento necessario.
Infine la definizione, per via pattizia, di un modello milanese, quello degli Rls di sito produttivo, così come definiti negli accordi Expo e M4 (costruzione nuova linea metropolitana), per il presidio della rappresentanza della salute e sicurezza dei lavoratori nei cantieri che accompagneranno la trasformazione della città.
Questi sono solo alcuni spunti di riflessione, tratti da un documento ben più complesso, che possono servire a un dibattito nel territorio - che nei prossimi mesi sarà impegnato nella campagna elettorale per l’elezione del sindaco, dei presidenti di Municipio e delle relative assemblee elettive.
Un tentativo, forti di un punto di vista autonomo, di inserire nel dibattito elettorale le persone, i loro bisogni e le risposte agli stessi, da parte di chi non rinuncia alla funzione generale del sindacato, e che lotta e si impegna per una società più giusta e più equa.
A proposito di una ricerca dell’Ires Cgil Toscana per Uniglobal.
Nel 2020 il mondo ha assistito ad un cambiamento significativo nel mercato del lavoro a causa della pandemia Covid-19. In molte aziende il telelavoro non solo è stato fondamentale per sostenere la produzione, ma si è affermato come un nuovo e permanente modo di organizzarla. Si è fatto saltando contratti nazionali e coinvolgimento sindacale, a sancire un comando unilaterale della forza lavoro di cui il governo si fa attore al servizio del sistema delle imprese.
Uno dei dibattiti più importanti sul telelavoro ha riguardato il tema dei costi. In alcuni casi, economisti mainstream, politici e datori di lavoro hanno provocatoriamente richiesto un riequilibrio salariale, sotto forma di contributo dai lavoratori da casa. Il punto di vista della ricerca dell’Ires Toscana, curata da Roberto Errico, è molto diverso: partendo dal settore bancario e terziario, prospetta una possibile applicazione ad altri comparti produttivi.
Il lavoro a distanza, piuttosto che offrire vantaggi economici diretti ai lavoratori, cambia la struttura dei costi a loro carico. Se da un lato si risparmia in tempo e costi di viaggio, dall’altro una serie di spese (principalmente utenze e strumenti di lavoro) passano a carico dei lavoratori. Non è un caso che questo tema sia quasi dimenticato: il lavoro a distanza offre un enorme vantaggio alle aziende in risparmio sui costi.
Sono stati evidenziati solo due dei tanti elementi dei costi contrattuali: buono pasto/mensa aziendale e lavoro straordinario. Altro elemento fondamentale i costi indiretti del lavoro: gestione immobiliare, mobili, pulizia, sicurezza, logistica, riparazioni e tutte le spese relative al luogo di produzione; comunicazione, Ict e servizi dati (esclusi costi come call center e consulenze esterne); indennità giornaliere, spese di viaggio e postali, trasporti e tutte le spese relative a spostamenti fisici; spese per energia e altre utenze e per materiali di consumo (carta, toner, ecc.).
Oltre alla riduzione dei costi viene indagato l’aumento di produttività a seguito dell’introduzione del telelavoro. Come affermato anche dall’Ocse (2020), con l’adozione del lavoro a distanza sussiste un evidente aumento della produttività. La ricerca si concentra sull’aumento della produttività in termini di orario di lavoro effettivo, derivante da una riduzione del tasso di assenteismo e da un aumento degli straordinari non retribuiti. Utilizzando quattro lavori pionieristici sul tema, è stato stimato un tasso di aumento della produttività dal lavoro a distanza pari al 6,8%.
Il lavoro a distanza rappresenta dunque una delle sfide future più complesse per i sindacati. Accanto a dimensioni già al centro del dibattito, come il diritto alla disconnessione, la necessità di un nuovo quadro normativo di conciliazione vita-lavoro e il pericolo di un’ampia sorveglianza a distanza da parte delle aziende, il tema della condivisione dei costi è cruciale. Il punto di vista delle aziende tende a considerare il telelavoro come a esclusivo beneficio dei lavoratori anche in termini monetari. Ciò potrebbe determinare pratiche estremamente pericolose. Le aziende potrebbero tendere a utilizzare il lavoro a distanza come elemento di incentivo non salariale, collegandolo a una estensione de facto dell’orario di lavoro a parità di salario. Potrebbe poi essere utilizzato per ridurre i salari, alimentando una narrativa tossica sui presunti risparmi di tempo e denaro per i lavoratori.
La ricerca utilizza i fattori precedentemente indicati analizzando tre grandi gruppi bancari europei: Unicredit Group, Banco Santander e Deutsche Bank. Sono stati testati i loro bilanci 2019, seguendo tre ipotesi principali: una media giornaliera di lavoratori da remoto pari al 5% della forza lavoro totale nel 2019, un buono pasto di 6 euro, un orario di 37,5 ore settimanali e 10 ore di straordinario retribuito per dipendente/anno; un modello ibrido post-Covid con una media giornaliera pari al 27,5% di lavoratori da remoto (secondo le previsioni della società di consulenza per le aziende del settore).
I risultati della simulazione sono piuttosto interessanti. Applicando un modello realistico di Remote Working ibrido, il risparmio varia dai 2.800 euro per dipendente in Unicredit Group e Banco Santander, agli oltre 6.600 euro in Deutsche Bank. In termini complessivi, i risparmi variano tra i 268 milioni di euro del Gruppo Unicredit agli oltre 580 milioni per Deutsche Bank.
Dal nostro punto di vista, il dato più interessante è però un altro. Infatti, applicare un modello di questo tipo equivale, in termini di costi, ad un taglio del monte salari che può arrivare fino al 5,2%. Va inoltre sottolineato che circa due terzi di questi risparmi finiscono direttamente - costi e disposizioni contrattuali - o indirettamente - aumento della produttività - per gravare sui lavoratori.
Il lavoro a distanza non è necessariamente un gioco a somma positiva: mentre per i lavoratori vanno ponderati i vantaggi e gli svantaggi, per le imprese il risparmio, in assenza di una regolamentazione organica della materia, è certo ed enorme.