Nelson Mandela, il 25 maggio 2000, durante la prima edizione dei Laureus World Sports Awards (premi annuali assegnati ad atleti delle varie discipline sportive per i risultati ottenuti nella stagione precedente) dichiarò: “Lo sport ha il potere di ispirare. Ha il potere di unire le persone come poche altre cose riescono a fare. Parla ai giovani in una lingua che essi comprendono. Lo sport può creare speranza là dove prima c’era solo disperazione. Ha più potere dei governi nel rompere le barriere razziali. Irride ogni tipo di discriminazione”. Una frase iconica, che sintetizza il ruolo che ha avuto lo sport nell’ambito della rivoluzione democratica del Sudafrica.
Mandela, dopo la sua elezione a presidente nel 1994, intuì come, dopo il superamento politico e legislativo dell’apartheid e del razzismo e la piena affermazione dei diritti civili, occorreva lavorare in direzione dell’integrazione culturale e sociale, determinando una condizione di convivenza comune tra le diverse etnie. Era necessario ricercare e valorizzare momenti che unissero il paese.
Con questo spirito Mandela fu il primo ad individuare come grande occasione il mondiale di rugby del 1995. Il Sudafrica vinse quell’edizione battendo squadre che sulla carta erano ritenute più forti, attraverso una compattezza in campo e sugli spalti capace di andare oltre le abilità tecniche e agonistiche. Quella competizione sportiva, determinando coesione e unione di tutta la società sudafricana, molto più delle iniziative legislative del governo e del parlamento, rappresentò un’importante spallata al razzismo, alle divisioni e alle discriminazioni.
Purtroppo, molte volte, e anche nella storia recente, lo sport è stato utilizzato per fini opposti. Basti pensare al ruolo dello sport nella Germania nazista e nell’Italia fascista, come strumento di addestramento alla guerra e di affermazione della superiorità di una presunta razza.
Durante e dopo la cosiddetta “guerra fredda”, in tantissime circostanze, lo sport è divenuto un’arma da utilizzare per boicottare o sanzionare questo o quel paese, attraverso l’impedimento a partecipare (piuttosto che decidendo di disertare) manifestazioni olimpiche e campionati.
Mai però si era giunti a risoluzioni così pesanti e discriminanti come quelle che si stanno adottando, in questa fase, nei confronti degli atleti russi e bielorussi. Premesso che l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina va condannata senza se e senza ma, il tema è se la comunità internazionale lavora per ridare la parola alla politica e alla diplomazia, o fa altro.
Il buon senso dovrebbe portare verso una trattativa nella quale anche la Nato, riconoscendo le grandi responsabilità della propria politica espansionistica ed egemonica, si impegni per trovare un accordo condiviso. Invece, si va avanti con l’invio di armi e con le sanzioni che, tra l’altro, si stanno rivelando un clamoroso boomerang per l’Europa e soprattutto per l’Italia.
In questo contesto anche lo sport viene utilizzato come strumento di ritorsione, ricatto e sanzione. La Fifa ha estromesso dai mondiali di calcio la Russia; l’Uefa ha escluso dalle competizioni europee calcistiche le squadre russe; la Fia consentirà ai piloti di gareggiare ma senza la bandiera russa; i tennisti potranno giocare ma Russia e Bielorussia vengono escluse dalle competizioni di squadra.
La decisione più riprovevole è però quella con la quale si sono estromessi gli atleti di Russia e Bielorussia dalle Paralimpiadi invernali di Pechino, che hanno preso il via il 4 marzo scorso. Una scelta più che discutibile perché interessa persone che già vivono una condizione difficile, di fragilità e spesso segnata da discriminazioni. Un fatto enorme per gravità che ha portato lo schermitore ucraino Vladyslav Heraskevych a definire “disgustosa” la scelta del Comitato Paralimpico Internazionale. Mentre il segretario di Stato britannico per lo sport, prima del 4 marzo, aveva invitato a “riconsiderare urgentemente la decisione”.
Per il resto si è registrato un silenzio assordante che avalla l’idea di considerare lo sport, anche quello praticato dai diversamente abili, come strumento di scontro e discriminazione. Vi è invece bisogno di agire per riportare lo sport al servizio non della guerra, ma della pace, con il ruolo di “unire le persone… creare speranza là dove prima c’era solo disperazione…irridere ogni tipo di discriminazione”.