- Redazione
- 2021
- Numero 14 - 2021
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La mattanza avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile del 2020 ci riporta, per alcuni aspetti e certe similitudini, a quanto di grave e violento successe a Genova nel luglio del 2001 durante il G8. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha definito il massacro di detenuti inermi da parte delle guardie carcerarie “un’offesa e un oltraggio alla dignità delle persone e della divisa”, parlando di “agenti che hanno tradito la Costituzione”. Dichiarazioni importanti, ma parziali, riduttive e persino devianti. Quel brutale pestaggio non è un fatto isolato perpetrato da guardie fuori controllo, ma un’azione concertata e organizzata su comando, avvenuta in più carceri.
Le complicità, i depistaggi, le falsità dei dirigenti, l’estraneità di alcuni ministri e politici e il coinvolgimento di altri, la falsificazione delle cartelle sanitarie, le manomissioni delle prove, l’alterazione dei filmati e delle foto, le dichiarazioni dei comandanti delle guardie carcerarie “affette da falsità ideologiche”, come dichiarano esponenti della magistratura, ci riportano nella peggiore Italia.
Mentre chiede - con poca convinzione, in realtà - al governo egiziano verità è giustizia per l’assassinio di Giulio Regeni, lo Stato lascia che passino undici anni di mistificazioni, depistaggi, falsità, campagne diffamatorie da parte di uomini dello istituzioni prima di fare luce sulla morte, le torture e le violenze subite in una caserma e in carcere da Stefano Cucchi.
Le “violenze di Stato” esercitate da indegni uomini in divisa coperti dai superiori, i depistaggi, i raid punitivi, le rappresaglie mascherate da perquisizioni, le coperture e le responsabilità diffuse dei vertici dello Stato, li abbiamo vissuti e sentiti in quelle tragiche giornate di Genova. Abbiamo il dovere di non dimenticare e di trasmettere la nostra memoria della storia del Paese così come l’abbiamo conosciuta, vissuta, subita o contrastata, in prima persona e collettivamente.
Siamo al ventennale delle straordinarie giornate del G8 del 19, 20 e 21 luglio 2001, giornate di partecipazione e di mobilitazione “No Global”, organizzate dal Genoa Social Forum. Come dimenticare le cariche continue, i rastrellamenti, l’uso di armi da fuoco e sbarre di ferro da parte delle forze militari dello Stato, le terribili violenze, le torture che funestarono quelle giornate?
Per una settimana Genova fu una città militarizzata, blindata. Militari, carabinieri, polizia, finanza, con navi ed elicotteri, occuparono e presidiarono la costa ligure e il territorio. In quei giorni si scrisse una delle pagine più oscure della storia della Repubblica. La scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto furono conosciute nel mondo come i luoghi della vergogna italiana.
Le responsabilità politiche, morali e giudiziarie furono di quanti orchestrarono e pianificarono la macelleria di Stato, della catena di comando che dirigeva le operazioni in una stanza della questura di Genova, dove, tra gli altri, c’era il vicepresidente del Consiglio del governo Berlusconi, Gianfranco Fini, in seguito defenestrato per una faida interna a Forza Italia, non certo per la responsabilità di quel massacro. Il ministro degli Interni era quel Claudio Scajola che, due mesi dopo, dichiarò di aver dato il libero utilizzo di armi da fuoco in difesa della invalicabile “zona rossa”. Arrestato nel 2014 e condannato in primo grado a cinque anni di carcere per aver favorito la latitanza dell’ex parlamentare Amedeo Matacena, restò impunito, lui come altri, per le gravi responsabilità su quanto avvenne in quel G8.
Le forze dell’ordine furono gli strumenti della repressione, ma i governi europei, il governo Berlusconi, i servizi segreti, i generali, i comandanti, i ministri, i prefetti della catena di comando e tanti politici di destra furono i mandanti delle violenze. Mai nessuno ha realmente pagato, e tanti hanno fatto carriera. La speranza è che non succeda anche per la mattanza nelle carceri.
A Genova in quei giorni, in quelle manifestazioni, in quegli incontri si respirava l’entusiasmo degli ideali, si camminava con la forza delle idee, si viveva con l’utopia del possibile e il bisogno del cambiamento. Quella che allora sembrava un’eresia oggi è una necessità per la sopravvivenza della Terra e il benessere umano. È grazie a quei movimenti globali, a quelle manifestazioni di massa, a chi c’era se oggi possiamo ancora lottare per il cambiamento, difendere la democrazia e salvare insieme il lavoro, i diritti e l’ambiente.
A Genova c’erano tanti stranieri, tanti italiani, tanto popolo. Si sono vissute giornate memorabili, tanto entusiasmanti quanto terribili e violente. Si è vissuto un incontro mai visto tra generazioni e tra paesi, tra il mondo del lavoro e i tanti movimenti e le associazioni pacifiste, libertarie, ecologiste, anticapitaliste, femministe. Una partecipazione consapevole, militante, radicale e alternativa.
Quel movimento doveva essere spezzato, umiliato, frantumato. Faceva paura e destabilizzava l’ordine politico e sociale, metteva in discussione l’ideologia del capitale e del profitto.
Molti videro e tanti subirono inaudite e brutali violenze. Molti di quei giovani subirono conseguenze psicologiche, gravi traumi e tanti, purtroppo, abbandonarono l’impegno politico. L’obiettivo del potere era stato raggiunto. Questo è successo a Genova nel 2001.
La storia ha poi dato ragione a quanti, da Seattle a Porto Alegre, da Genova a Firenze, contestavano la globalizzazione liberista, centrata sul profitto e sullo sfruttamento delle persone e del pianeta. Si manifestava e si proponeva, si lottava per “un mondo migliore possibile”.
La società civile, i movimenti, le comunità, i pacifisti e gli ecologisti, le associazioni, e i partiti, i cattolici e i laici c’erano. C’era un pezzo del mondo del lavoro, c’era la Fiom, noi di Alternativa Sindacale, la sinistra sindacale Cgil di allora, tante e tanti iscritti ai sindacati, alla nostra Cgil.
Non c’era purtroppo ufficialmente la Cgil che, ancora imbrigliata in una linea politica e sindacale non adeguata, non seppe cogliere il valore politico e sociale di quella manifestazione e di quel popolo di giovani, donne e lavoratori. Una posizione successivamente modificata, facendo della Cgil uno dei soggetti portanti del primo Forum Sociale Europeo a Firenze, nell’autunno del 2002, e del grande movimento italiano e planetario contro la guerra, sfociato nelle enormi manifestazioni del 15 febbraio 2003. In occasione del decennale la Cgil, firmando con l’Arci un documento dal titolo “Genova per noi”, partecipò e organizzò l’evento culturale e politico realizzato a Genova.
A maggior ragione oggi, quando è necessario ribadire il nostro impegno sul terreno della difesa della democrazia, non dovrebbe far mancare la sua presenza, la sua rappresentanza nel ventennale dei prossimi giorni.
La nostra Costituzione è stata tradita e calpestata in molte occasioni da chi dovrebbe difenderla e applicarla. Troppe volte abbiamo dimostrato di essere un Paese senza memoria, che sembra aver perduto la conoscenza e la capacità di riflessione storica. La nostra è una democrazia giovane e debole. Siamo un Paese che non ha mai realmente fatto i conti con il ventennio fascista e le sue nefaste conseguenze. La politica assente, debole, incapace, revisionista, trasformista e consociativa è corresponsabile, quando non colpevole, delle tante ombre nere, delle nefandezze che sviliscono la Costituzione mettendo in pericolo la nostra democrazia.
La nostalgia per un vergognoso ventennio, il cancro del fascismo e del razzismo, la voglia dell’uomo forte non sono ancora stati estirpati in una parte della popolazione, nel paese reale e nelle istituzioni. Dopo oltre 75 anni dalla Liberazione dal nazifascismo, un filo nero di natura e di cultura eversiva e antidemocratica continua a percorrere il Paese, attraversa settori dello Stato, si annida e occupa molte istituzioni e centri di potere finanziario e politico.
Questa è una delle facce oscure di un Paese attraversato da una profonda crisi dei valori, della solidarietà, da una pericolosa regressione culturale e democratica che è presente nello Stato, nelle istituzioni, nelle forze politiche di destra e non solo, nel fronte padronale più conservatore e liberista.
La Cgil, da sempre baluardo di difesa della Costituzione, dei diritti e della nostra democrazia, luogo di incontro delle generazioni, non può perdere la sua memoria storica, la sua capacità di analisi, soprattutto in questa fase di crisi globale e di necessario cambiamento.
La memoria storica ci ha insegnato che nulla è scontato, nulla è mai per sempre. La Cgil, com’è nella sua storia, sarà in campo per difendere il lavoro, i diritti, la nostra democrazia faticosamente conquistata con la lotta antifascista, e affermata con la nostra preziosa Costituzione repubblicana.
La grande strada che la comunità di Campi Bisenzio ha dedicato ai Fratelli Cervi era soprattutto conosciuta per essere via d’accesso all’enorme centro commerciale dei Gigli, metà giornaliera per decine di migliaia di persone di ogni età. Ora sta diventando l’epicentro di un sommovimento, altrettanto popolare ma teso alla difesa dei diritti e della dignità del lavoro. E’ questo che si avverte guardando al continuo pellegrinaggio in corso davanti ai cancelli della Gkn. Lì dove i 422 addetti diretti più altre centinaia dell’indotto, licenziati con una mail che li avvertiva della chiusura a freddo della fabbrica di semiassi, hanno risposto ai padroni inglesi del fondo Melrose avviando una occupazione destinata a durare. Di fronte al diktat di un gruppo finanziario che punta a delocalizzare dove il costo del lavoro – cioè diritti e tutele – è più basso, non c’è solo la reazione degli operai e delle organizzazioni sindacali, confederali e di base. C’è un sentimento popolare che, superando le differenze di idee, dà solidarietà concreta a chi, in un attimo, è stato rubato il lavoro. Costituzione alla mano, il fondamento del Paese.
Dentro la fabbrica si organizza la resistenza. Così come sta accadendo in Brianza, dove i 152 operai della Gianetti Ruote hanno ricevuto lo stesso trattamento dai padroni tedeschi del fondo Quantum Capital. “Quelli che stiamo vedendo – ha denunciato Maurizio Landini ai cancelli della fabbrica - non sono licenziamenti, sono delocalizzazioni. Non stiamo parlando di aziende che non hanno lavoro”.
Il governo “dei migliori” cerca di correre ai ripari, chiamando al ministero dello Sviluppo economico i vertici della Gkn e i padroni di Melrose. Farà probabilmente lo stesso con i vertici di Gianetti Ruote e i padroni di Quantum Capital. Ma se tutto si ridurrà alla purtroppo consueta “riduzione del danno”, avrà ancora una volta ragione chi denuncia, da trenta lunghi anni, che questo “sistema” è irriformabile.
Più di mille lavoratrici e lavoratori della logistica si sono ritrovati a Lodi sabato 10 luglio per partecipare all’assemblea nazionale Filt Cgil sul tema: “Andare oltre i luoghi comuni”, alla presenza del segretario generale Cgil Maurizio Landini.
Le problematiche del mondo della logistica stanno ottenendo l’attenzione dei media in seguito ai recenti e infausti avvenimenti che hanno riempito le cronache, e l’assemblea vuole sottolineare che il lavoro in questo settore è anche altro, e che è indispensabile guardare alle esperienze passate per poter programmare l’azione futura della Filt.
Il lavori si sono aperti con un minuto di silenzio in memoria di Adil Belakhdim, sindacalista investito e ucciso da un camion durante una manifestazione. Nella relazione di apertura, Stefano Malorgio, segretario generale Filt, ha rimarcato che la presenza del sindacato confederale, soprattutto quella della Filt, non è marginale nel settore, come invece viene spesso descritta da qualche commentatore ignaro della realtà: sono 65mila gli iscritti alla Cgil nella logistica, con una fitta rete di delegati e attivisti.
L’analisi parte dalla consapevolezza di come la logistica abbia assunto una centralità nel tessuto produttivo del Paese, grazie anche al Ccnl di filiera, che è riuscito a tenere insieme lavoratori della committenza e degli appalti. Ma questo non basta. E’ necessario continuare l’azione sindacale creando solidarietà e coesione tra i lavoratori, evitando di generare un conflitto tra lavoratori “garantiti” e lavoratori più deboli, che farebbe esclusivamente il gioco della controparte padronale. Per questo motivo si rende necessario in questo momento reimpostare e definire le prospettive per il futuro, consapevoli della impellente necessità di cambiare il modello sociale di riferimento.
Come sottolineato da Maurizio Landini, non è più sufficiente rivendicare diritti e salario, partendo dall’assunto che il modello su cui in passato si è costruito il sistema è sbagliato. Da qui la riflessione che mette in discussione le ragioni che hanno portato alla definizione dell’attuale struttura del sistema logistico. Si dovrà quindi combattere una nuova battaglia all’attacco, non accontentandosi di ridurre il rischio conducendo un’azione di resistenza.
Nel corso dell’assemblea i numerosi interventi di lavoratrici, lavoratori e delegati hanno fatto emergere quanto sia urgente l’intervento della politica, se si vuole arrivare ad una reale inversione di tendenza. Il Ccnl di filiera contiene una stringente clausola sociale che pone severi vincoli al committente; non è però ipotizzabile che il sindacato continui a svolgere un ruolo che non gli appartiene, ovvero quello di controllore sui temi della legalità. La politica deve prendere atto che non è più rinviabile una legge che vada a normare gli appalti privati, così come è per gli appalti pubblici. La frantumazione delle attività e il ricorso ad appalti e subappalti è ormai un modello diffuso in tutti i settori. Da qui l’esigenza di una battaglia di tutto il mondo sindacale affinché venga rafforzata la responsabilità solidale del committente su tutta la filiera. Solo così sarà possibile per il sindacato svolgere compiutamente la propria funzione.
Sempre Landini, riprendendo le parole di Giuseppe Di Vittorio, ha ricordato che è indispensabile impedire che le persone competano tra loro per poter lavorare. Il contratto di filiera ha reso sempre meno conveniente il ricorso all’appalto, avendo avvicinato sempre più le retribuzioni dei lavoratori. Ecco perché oggi è giunto il momento di pretendere dalle grandi società committenti la reinternalizzazione della attività esternalizzate.
La scorsa settimana è stato siglato un importante accordo per l’internalizzazione di un magazzino di Dhl Supply Chain in provincia di Milano, azienda che nei mesi scorsi è stata interessata da un’inchiesta della magistratura per irregolarità negli appalti. Altri accordi di internalizzazione sono stati siglati nella filiera di Fedex/Tnt.
Landini ha evidenziato che è questa la strada da percorrere per il futuro: fare in modo che il ricorso all’appalto avvenga solo nel caso in cui in azienda non esistano le competenze, non per accumulare profitti risparmiando sul costo del lavoro.
Emerge in tutta la sua evidenza quanto il mondo del lavoro non abbia oggi in Italia una rappresentanza politica. Alcune tra le riforme più penalizzanti per i lavoratori sono state compiute da governi che si definivano di centrosinistra. Assenza che si riscontra anche nella mancanza di una legge sulla rappresentanza, che andando a misurare il consenso tra i lavoratori impedirebbe la proliferazione di sindacati di comodo che vanno a siglare contratti pirata.
Quella del 10 luglio è stata una giornata appassionante per il settore, gratificante per tutti, ma soprattutto per le compagne e i compagni che nelle scorse settimane hanno compiuto un immane sforzo organizzativo. Sono state poste le basi per il lavoro degli anni a venire, sempre per l’unità delle lavoratrici e dei lavoratori, contro chi li vorrebbe soli e divisi.
Sul documento sottoscritto da parti sociali e governo a fronte dello sblocco dei licenziamenti si possono esprimere valutazioni profondamente diverse. Da una parte, la “Presa d’atto” è una formula un po’ pasticciata e confusa, che nella sostanza contiene esclusivamente una raccomandazione all’utilizzo di tutti gli strumenti a disposizione in alternativa alla risoluzione del rapporto di lavoro, e un auspicio alla rapida definizione della riforma organica degli ammortizzatori sociali.
Quest’ultimo è un impegno importante come obiettivo e come urgenza, ma forse è proprio l’aspetto più sottovalutato. Il testo fa riferimento a principi condivisi ma non esplicitati e rimane, quindi, tutta aperta la partita strategica dei contenuti della riforma, dove sono in gioco l’universalità del sistema, le modalità del finanziamento, e la priorità dell’utilizzo di tutti gli ammortizzatori in alternativa all’apertura delle procedure di licenziamento.
Dall’altra parte, va tenuto conto di come si era arrivati al blocco e soprattutto di come si era evoluto il contesto politico-istituzionale fino alle manifestazioni del 26 giugno. Il blocco dei licenziamenti, con la contestuale estensione degli ammortizzatori, è stato un provvedimento eccezionale, unico nel panorama europeo, frutto della pressione e della mobilitazione del movimento sindacale nella fase iniziale della pandemia, che ha portato anche alla sottoscrizione dei Protocolli per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, e al blocco delle attività non essenziali nella fase più critica.
Ma si è trattato appunto un provvedimento eccezionale, che sarebbe stato necessario prorogare fino a fine anno o almeno fino a ottobre, ma che non era nelle intenzioni politiche del nuovo governo, e continuamente messo in discussione da una forte pressione lobbystica e mediatica.
L’intesa non dà nessuna certezza o garanzia sul piano normativo e giuridico, che poteva determinarsi solo con la proroga di legge, ma rispetto a una decisione già assunta nel Consiglio dei ministri rappresenta un’uscita più avanzata, senza una vera praticabile alternativa.
Oltre al decreto, che prevede un ulteriore periodo di 13 settimane di cigs, l’ “Avviso comune” esplicita un impegno politico del governo e di Confindustria che va rivendicato ovunque, e che può aiutare l’iniziativa sindacale e la contrattazione dei processi di riorganizzazione e di gestione delle crisi. Ancor di più laddove, come si sta già verificando anche in aziende aderenti a Confindustria, se ne freghino completamente delle “raccomandazioni” condivise, e chiamando alla loro responsabilità Regioni, prefetture, associazioni datoriali, con le necessarie iniziative di lotta.
C’è il rischio concreto di un ricorso pesante e strumentale ai licenziamenti. In Veneto si stimano circa 30mila posti di lavoro a rischio, a partire dai 30 tavoli di crisi aziendali già aperti, che si aggiungerebbero agli 80mila comunque già persi durante la fase emergenziale. Se esistono problemi produttivi veri si devono utilizzare prima gli strumenti alternativi, che ci sono e sono economicamente vantaggiosi. Sarebbe inaccettabile un ricorso ai licenziamenti non motivato da una effettiva contrazione delle attività ma finalizzato all’ulteriore compressione del costo del lavoro, a un ulteriore flessibilizzazione e deregulation dei rapporti di lavoro, per poi magari riassumere con contratti a termine e precari.
Soprattutto, la mobilitazione generale non può fermarsi alle manifestazioni del 26 giugno: questo l’impegno fondamentale che la Cgil deve assumere. Dovremo essere pronti a rilanciarla subito se la fine del blocco dovesse tramutarsi in un disastro sociale, e se i contenuti della riforma degli ammortizzatori non dovessero essere coerenti con le nostre rivendicazioni.
Dobbiamo darle continuità, anche per incidere su un Pnrr per molti aspetti incoerente, inadeguato e insufficiente, e poi in autunno sulla legge di Stabilità, per sostenere le piattaforme unitarie su fisco, previdenza, tutela della salute, diritti sociali e civili, legalità, per orientare e condizionare i processi di riorganizzazione e riconversione produttiva innescati dall’innovazione tecnologica, dalla transizione ecologica e da quella digitale, per garantire la salvaguardia e la tutela dell’ambiente, del territorio e dei beni comuni.
L’incremento dell’occupazione e il miglioramento della sua qualità per la Cgil rappresentano una priorità assoluta e un obiettivo strategico, cartina di tornasole delle scelte strategiche, degli investimenti e delle riforme che si mettono in campo. Sono questi i principali obiettivi di quel cambiamento radicale del modello economico e sociale che da tempo rivendichiamo, e che dobbiamo trasmettere prima di tutto al nostro gruppo dirigente e all’intera nostra rappresentanza, incrementando il più possibile i momenti di coinvolgimento e partecipazione. Un percorso indispensabile per sostenere adeguatamente qualsiasi mobilitazione. l