Governo Draghi. No, proprio non ci rappresenta! - di Giacinto Botti e Maurizio Brotini

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Nella sua piena autonomia la Cgil giudica i governi per le politiche che attuano. E così sarà anche per il governo Draghi, sostenuto da un’amplissima maggioranza parlamentare, di inedita composizione anche per un Paese noto per il suo trasformismo.

La nostra autonomia non ci impedisce di dare giudizi sulle svolte politiche in atto e sul programma presentato dal presidente Draghi: la fine del governo Conte II, voluta per un disegno politico di cui Matteo Renzi è stato lo spregiudicato esecutore, ha ottenuto il risultato di un governo più a destra, fortemente condizionato dal capitale e dall’alta finanza, subordinato alla parte conservatrice dell’establishment europeo.

Questo governo di “unità nazionale”, lo confermiamo, non ci rappresenta. Entrano a pieno titolo gli interessi degli imprenditori del nord e il cambiamento da noi indicato è ancora più difficile da conquistare.

Il discorso programmatico di Draghi, prevalentemente metodologico, ha confermato il senso dell’operazione politica: blindare nell’interesse delle imprese e del vero direttorio europeo (Germania e Francia) l’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu, in larga parte – non dimentichiamolo – prestiti, seppur mutualizzati a livello dell’Unione.

La composizione del governo, non di certo neutra, mantiene saldamente nelle mani di “tecnici” del mondo finanziario e industriale i ministeri-chiave per l’attuazione del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” e, pur nella minuziosa applicazione del manuale Cencelli, scegliendo all’interno stesso delle correnti di partito, rafforza forse anche più delle aspettative il peso e il ruolo di Forza Italia e della Lega.

Ancora una volta viene negata la pari rappresentanza di genere nella compagine ministeriale. Il tragico ritorno di Renato Brunetta alla Pubblica amministrazione è un insulto alle lavoratrici e ai lavoratori, e non lascia intravedere niente di buono per una delle riforme centrali che affiancheranno la gestione del Ngeu. Il ministero della Disabilità costituisce una vera e propria istituzionalizzazione di una pratica di segregazione. I capitalisti del nord la fanno da padroni con Giorgetti al Mise e Garavaglia al Turismo – che diventa ministero con portafoglio – mentre Gelmini al ministero delle Autonomie rafforzerà la spinta autonomistica delle regioni settentrionali.

Nel discorso programmatico, insieme a tante cose scontate, è eloquente quello che manca, a partire da un nuovo ruolo dello Stato in economia e dalla necessità che il Pnrr crei posti di lavoro stabili e di qualità per giovani, donne, Mezzogiorno. Non è sufficiente citarli tra le prime vittime – insieme alle imprese – della crisi economica e sociale dovuta alla pandemia.

Per il sindacato si apre una fase molto delicata, nella quale è necessario mantenere fermi tutti gli obiettivi di cambiamento, di risposta all’emergenza sociale e insieme di radicale trasformazione che sono stati avanzati in questi mesi e anni e, per la Cgil, nel Piano del Lavoro e nella Carta universale dei Diritti. La Cgil può e deve, possibilmente unitariamente, essere protagonista e non spettatrice della sfida al cambiamento, forte e coerente con le sue elaborazioni strategiche, le scelte del congresso e le sue piattaforme sostenute dai lavoratori e pensionati, a partire dal ripristino dell’articolo 18, il superamento della legge Fornero e la tassazione delle ricchezze come base per una riforma generale del fisco.

Tutto questo senza cedere alle sirene di nuovi patti consociativi, o “fra produttori”, di cui non ci sono i minimi presupposti, mentre avremo bisogno di maggior confronto con lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, giovani e disoccupati, per le mobilitazioni necessarie a sostenere i nostri obiettivi.

La situazione pandemica rimane grave e il quadro politico arretra. Su come se ne uscirà e chi pagherà si gioca lo scontro politico e sociale fra capitale e lavoro e fra la sinistra e la destra del paese. Ora più che mai, al lavoro e alla lotta.

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Siglato il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Ora la parola torna ai luoghi di lavoro - di Angelo Leo

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Prima ancora di entrare nel merito del rinnovo contrattuale, va dato atto alla compagna Francesca Re David, segretaria generale della Fiom, e all’intera delegazione trattante della Fiom (ma anche alla delegazione unitaria), di aver “tenuto il pezzo” sull’esercizio della democrazia in un paese a-normale.

Per il sindacato in generale, e per la Fiom in particolare, resta sempre valido il principio “ogni testa vale un voto”. Principio del tanto vituperato Novecento, da lungo tempo abolito nell’ordinamento politico istituzionale nazionale. Mentre nel mondo del lavoro la distinzione fra impresa e lavoratori permane, com’è giusto che sia, in politica assistiamo invece alla grande indistinta ammucchiata che non è affatto mediazione e fronte unito nazionale per uscire dalla pandemia, bensì resa politicista, senza nessuna condizione alla cabina di regia della finanza manipolata dai poteri forti, dagli interessi della borghesia delle regioni del nord a danno delle popolazioni meridionali, in sostanza dei ricchi contro i poveri, destinati a diventare sempre più poveri.

A mio avviso per la Fiom è fondamentale e “naturale” tornare nelle fabbriche, dando la parola ai lavoratori, perché decidano loro in tutto il territorio nazionale e in ogni fabbrica il loro futuro, la loro retribuzione, la loro dignità personale e di classe, con un rinnovato accordo in materia di salute e sicurezza.

Sempre nell’accordo è stata sottoscritta la clausola sociale nei cambi di appalto dei servizi. Il diritto alla formazione continua anche per i lavoratori con contratto a termine. Poi nel rinnovo si definiscono relazioni sindacali come i diritti di informazione, compresi anche gli effetti determinati dal Covid 19. Inoltre l’accordo prevede misure importanti a sostegno delle donne vittime di violenza di genere.

Il nuovo contratto adegua l’attuale inquadramento professionale, definito con il contratto del 1973, ai cambiamenti organizzativi, tecnologici e professionali che ci sono stati in questi anni; dal 1°giugno 2021 il nuovo contratto introduce un nuovo inquadramento dei lavoratori, compresa tra l’altro l’eliminazione della prima categoria: tutti i lavoratori in forza attualmente inquadrati in prima categoria passano di livello e verranno inquadrati nel livello D1, che corrisponde alla seconda categoria.

Il salario è stato un punto di duro confronto con Federmeccanica. L’ipotesi di accordo prevede un incremento a regime dei minimi tabellari definito in base al valore dell’inflazione prevista per gli anni di vigenza – indicatore Ipca – e di una quota di salario per la innovazione organizzativa determinata dalla riforma dell’inquadramento, pari a 112 euro all’attuale quinto livello.

Fuori dalle fabbriche la chiusura positiva del contratto costituisce comunque un baluardo per le condizioni materiali dei lavoratori, e anche un futuro ancoraggio sociale che accenda la miccia di una rifondazione della politica che torni a rappresentare i lavoratori nelle forme organizzative di partiti e nelle rappresentanze istituzionali. Un fatto che a mio avviso raddoppia il valore di questo contratto.

In ogni caso i metalmeccanici in generale, e la Fiom in particolare, nonostante la grave crisi economica-sanitaria hanno raggiunto un risultato per nulla scontato, e ben si comprende l’entusiasmo della nostra delegazione trattante, che tutti noi con un pizzico d’invidia abbiamo condiviso subito sui social. Ora, come sempre per la Fiom Cgil, la parola e la decisione finale spetta ai lavoratori.

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La pandemia da Covid-19 ha comportato, per la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, delle sfide del tutto inedite, che hanno imposto non solo l’adozione di nuove misure per la riduzione dei rischi da contagio nei luoghi di lavoro, ma anche un forte consolidamento dei tradizionali sistemi di prevenzione. Le organizzazioni sindacali si sono trovate ad affrontare una sfida nuova, anche per la scala e la pericolosità del contagio, in un contesto in cui i luoghi di lavoro e i processi produttivi sono stati sottoposti a una radicale e veloce trasformazione. La contrattazione collettiva è stata, come sempre, la cartina di tornasole con la quale verificare lo stato dell’arte delle relazioni industriali in questa fase.

L’Osservatorio congiunto di Fdv e Cgil nazionale ha effettuato un monitoraggio della contrattazione di secondo livello, sul solco dei due precedenti (2019 e 2020). I risultati sono stati presentati lo scorso 10 febbraio (disponibili sul sito della Fdv). L’analisi si è basata su un campione di 360 testi, inferiore a quello dei due report precedenti, e su sette studi di caso aziendali.

Come ci si poteva aspettare, in questi accordi la gamma dei temi trattati è stata più limitata rispetto alla contrattazione pre-pandemia, con un confronto pressoché monopolizzato dal tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (55% degli accordi), declinato soprattutto sulle questioni della prevenzione e delle nuove prerogative di Rls/Rlst.

L’ampio confronto sulle relazioni sindacali (60%) si è legato all’obiettivo della prevenzione del contagio attraverso soprattutto l’istituzione di commissioni paritetiche (38%), incaricate di tenere sotto controllo il rispetto e l’efficacia delle misure precauzionali adottate. Va poi evidenziata la rilevanza dell’organizzazione del lavoro (53% degli accordi), con una straordinaria impennata dello smart working (41%), a dispetto di una legislazione che poco o nulla aveva dedicato alla contrattazione collettiva. Ma anche in presenza di assegnazioni avvenute unilateralmente, a prescindere da quell’accordo individuale fra le parti, essenziale nello spirito della legge 81/2017.

Il trattamento economico – e la retribuzione variabile in particolare – è tra i temi meno diffusi, indizio della difficoltà di confermare l’impianto del Pdr anche nelle imprese in cui era più strutturato. Sulla stessa scia si colloca la scarsa incidenza delle misure negoziate di welfare integrativo.

Il quadro generale emerso dall’analisi degli accordi Covid-19 è stato integrato da un’osservazione più mirata ad alcune esperienze di contrattazione aziendale, incentrate sullo smart working e sulle modalità con cui scongiurare ogni contagio. Nell’esperienza di Tim, due temi avevano emblematicamente alimentato un contenzioso iniziale, poi risolto nel corso dei mesi col pieno accoglimento delle richieste sindacali, riguardo rispettivamente al godimento dei buoni pasto nei giorni lavorati da remoto, e al diritto alla disconnessione, con la pre-determinazione delle fasce orarie di reperibilità.

Il caso Istat rivela la qualità di un confronto negoziale particolarmente serrato che, attraverso cinque accordi in soli sette mesi, ha condotto ad una regolazione particolarmente articolata e garantista, nella quale lo smart working diviene una modalità ordinaria e non meramente emergenziale di lavoro, e in cui la volontarietà costituisce il presupposto per il rientro in presenza, piuttosto che il contrario.

Alle Acciaierie Speciali di Terni è stato introdotto lo smart working per il personale amministrativo. Il confronto tra sindacato e vertici aziendali ha dato vita a un accordo che affronta aspetti dirimenti come il diritto alla disconnessione e la scelta dei giorni in cui lavorare da remoto. In tutti e tre questi casi si è registrata un’adesione, positiva e massiccia, da parte dei lavoratori.

Nel caso di Amazon, a Castel San Giovanni, l’adozione dei protocolli di prevenzione e l’istituzione di un Comitato paritetico hanno consentito una maggiore agibilità della rappresentanza da parte di Rls/Rsa. Il tema della salute e sicurezza si è intersecato con quello dell’organizzazione del lavoro, dell’occupazione e delle forme contrattuali in un’azienda dalla reputazione a dir poco controversa, che sta vivendo una fase di crescita molto intensa.

Questi e altri casi rivelano nel complesso il forte impegno, e lo sforzo, col quale il sindacato sta tentando di far fronte, a tutti i livelli in cui si dispiega la sua rappresentanza e capacità negoziale, alla inedita crisi che sta colpendo il mondo del lavoro e della produzione. Perfino le assemblee sindacali a distanza hanno fatto registrare presenze superiori a quelle abituali in presenza. La fase ha certamente circoscritto e modificato l’ordine di talune priorità. Non di rado è stata la lotta a consentire il conseguimento dei migliori risultati, e così non potrà che continuare ad essere anche nei difficilissimi mesi che ci attendono. Quando alla tutela della salute si aggiungerà quella dei posti di lavoro. l

Just Eat e le assunzioni: sarà la svolta che aspettavamo? - di Davide Contu

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Mentre le piattaforme del food delivery – grazie all’accordo, che pretende di essere collettivo, siglato da Ugl e Assodelivery – giustificano con la digitalizzazione le pratiche ottocentesche del cottimo e della decisione arbitraria, volta per volta, della retribuzione delle singole prestazioni, Just Eat Takeaway è uscita dal branco e ha lanciato il suo programma di assunzioni dei rider in tutta Europa. In Italia si partirà a breve da Monza, con i primi 50 rider, e si prevede che entro il 2021 tutti i fattorini della piattaforma saranno finalmente lavoratori dipendenti.

E’ una svolta importante, che scardina la retorica di Assodelivery per cui questa professione non possa essere considerata che autonoma. Ma non è solo una questione di dialettica ideologica, giuridica o di marketing: si potrà finalmente dimostrare, concretamente, che la deroga all’articolo 2 comma 1 del d.lgs. 81/2015 operata da Ugl e Assodelivery, che ha trasferito i rider dall’applicazione della disciplina del lavoro subordinato alle non-tutele dell’art. 2222 del Codice Civile, non ha alcuna giustificazione reale relativamente all’organizzazione del lavoro, ma risponde solo alle esigenze di lucro delle multinazionali del food delivery.

A quali condizioni avverrà la svolta di Just Eat? Ancora non è chiaro, poiché resta la necessità, primaria, di identificare un Ccnl a cui agganciare le retribuzioni, e da derogare con una contrattazione di secondo livello relativamente alle esigenze di flessibilità tipiche del settore. Le trattative tra Just Eat e le parti sociali, tra cui Cgil con Nidil, Filt e Filcams, sono ancora in corso. Ne sapremo di più man mano.

Comunque, a prescindere dalle condizioni, resta la svolta e il messaggio: si può fare diversamente, è possibile riconoscere tutele e diritti minimi sotto cui non si potrà andare. è possibile investire sui lavoratori e sulle lavoratrici e comunque continuare a fare business. Un messaggio per il legislatore, per il ministero, per l’Ispettorato nazionale del lavoro, per i giudici, per il cliente consapevole che cerca eticità nei suoi acquisti. Uno strumento in più per l’incessante attività nei tribunali, oltre che istituzionale, con cui Cgil, sentenza dopo sentenza, sta costruendo una giurisprudenza favorevole e applicabile a questo comparto. Fin qui non dico niente di nuovo. Ma per il rider? Cosa rappresenta questa svolta?

La mia vita da rider, prima di intraprendere un percorso di militanza molto intenso con Nidil a Milano, era più o meno questa: seduto sul mio scooter in attesa gratuita, in attesa quasi di una ricompensa per quella mezz’ora o più di tempo regalata ad una multinazionale. Attesa per un ordine che tarda ad arrivare. Attese ripetute che a volte si convertono in ansia, poi angoscia fino alla depressione, di quelle che annichiliscono.

Quella violenza economica e psicologica subita nell’essere obbligato a regalare il tempo della mia vita, che nessuno mi ridarà più indietro, che arriva quasi a farmi ringraziare quando l’algoritmo si ricorda di me assegnandomi un ordine, pagato due o tre monete... È lì che si diventa schiavi moderni, quando ringrazi il tuo aguzzino, anche se formalmente nessuno ti obbliga. E quando in un mese superi i 2.000 euro lordi, lavorando sessanta ore alla settimana, ti ritrovi a ringraziare ancora di più, ormai sei preso dalla sindrome di Stoccolma. Succede per davvero, non è un’iperbole. Così era prima per me (la militanza ti salva), probabilmente lo è ancora per molti colleghi.

Sarò blasfemo parlando di una multinazionale in grado di offrire speranza attraverso una strategia commerciale diversa da altre, etica (?), ma pur sempre finalizzata al business in un sistema economico che di etico ha ben poco. Ma è quello che sta succedendo, che avverto in me e in molti altri miei colleghi. E questo restituisce la misura di come siano gravi le condizioni di sfruttamento, in termini economici, psicologici, emotivi e fisici, in cui ci troviamo noi rider attualmente.

Dovremo esser bravi noi lavoratori, che siamo anche sindacato, a trasmetterla ai nostri colleghi questa speranza, con tutta l’allegria che l’accompagna e in maniera intelligente. E’ uno strumento di coinvolgimento. La svolta di Just Eat è importante, ma è solo una svolta e riguarda solo il 10% dei rider in Italia. E’ un punto di partenza sul quale puntare i piedi con molta forza, per resistere al furto costante di diritti, e riprendere così il cammino verso l’alto, verso la conquista della nostra primavera.

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