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Siamo in presenza di un gigantesco problema sociale che la pandemia ha fatto esplodere in modo dirompente a livello mondiale. La salute deve essere al primo posto, anche perché la migliore misura di politica economica è l’efficace contenimento del virus.
Ancora una volta ci siamo trovati impreparati dinanzi alla “seconda ondata” che era stata prevista da tutti gli scienziati. Siamo ancora in presenza di nuove e insopportabili sofferenze individuali e collettive, disagi reali, impoverimenti diffusi, mancanza per molti di un reddito di sopravvivenza e di sussidi adeguati. C’è bisogno di guardare all’Italia reale, degli invisibili, della disperazione, di quanti vivono della fatica quotidiana, sopravvivono con il lavoro nero e precario, con gli aiuti delle associazioni umanitarie. Ci sono state e ci sono gravi responsabilità, ritardi, incapacità, negligenze, strumentalizzazioni della destra che non andranno dimenticate. Oggi è il momento delle scelte nette e coraggiose. La miscela per l’esplosione sociale circolava da tempo: diseguaglianze, povertà, precarietà di vita e di lavoro, generazioni senza futuro. Uno stato sociale diseguale in un’Italia diseguale, un sistema pubblico divorato e massacrato dai tagli fatti da tutti i governi e dalla voracità del mercato privato. Il Paese del futuro lo costruisci solo se cambi il Paese che conosciamo. Non c’è più tempo e non è più il tempo di carità di Stato, di bonus, di pannicelli caldi, di attendismi e di risposte lobbistiche verso interessi particolari e privati. È tempo di redistribuire la ricchezza prodotta ed accumulata in rendite insopportabili per il bene pubblico, per i servizi essenziali, per l’uguaglianza, per i diritti fondamentali, per la vita materiale delle persone. Per il lavoro.
In un sistema economico e sociale già allo stremo, se non si mettono in atto misure straordinarie, risorse ingenti e diverse e radicali politiche economiche e sociali, saremo travolti. Ci vogliono tante risorse economiche che non possono essere trovate solo ricorrendo ai prestiti del Recovery Fund, né attraverso nuovi tagli al sistema pubblico, e men che meno con un taglio indiscriminato delle tasse. Come non si possono continuare a fare manovre finanziarie in deficit, aumentando il già alto debito pubblico. Non possiamo scaricare sulle future generazioni il peso sociale ed economico della pandemia.
Serve una patrimoniale!
Quando, se non ora, recuperare risorse attraverso un prelievo su ricchezze e redditi alti, sugli enormi patrimoni immobiliari, sulle plusvalenze delle società e dei grandi gruppi che ricavano grandi profitti, attraverso un aumento del prelievo sui redditi da capitale, e con la riduzione delle esenzioni sui dividendi, sulle plusvalenze che i grandi gruppi incassano dalle loro partecipazioni in società controllate?
In questa Italia con l’enorme evasione e elusione fiscale, nel quale una piccola percentuale di popolazione detiene enormi e ingiustificate ricchezze, dove grandi capitali sono spostati nei paradisi fiscali, la sinistra di governo percorra con coraggio questa scelta, lasciando alle spalle la politica falsamente interclassista e l’ideologia di austerità neoliberista che, purtroppo, anch’essa ha perseguito. Scelga con chi stare, colpendo le rendite, le ricchezze diffuse e nascoste, redistribuendo la ricchezza prodotta, come sta facendo la Spagna che in questi giorni ha scelto questa strada alternativa, e non di ricorrere al Mes e ai prestiti del Recovery, perché comportano in ogni caso condizionamenti esterni e un incremento del debito pubblico.
E’ una strada obbligata se vogliamo garantire coesione sociale, ridurre le tensioni e rabbie in corso; una scelta necessaria per far fronte alle enormi spese pubbliche che dovranno continuare a essere messe in campo dallo Stato e dal governo.
La Cgil, che ha tra le sue scelte congressuali la “patrimoniale”, avanzi e sostenga questa misura alternativa, richieda di utilizzare le risorse economiche recuperate per un piano straordinario di investimenti pubblici che inveri il nostro Piano del Lavoro, per la riconversione ecologica dell’economia, per la difesa della salute, per la vita e la sopravvivenza delle persone, per il lavoro stabile e i diritti universali, il cambiamento e il rilancio del Paese, per garantire il futuro alle nuove generazioni.
I gravi ritardi accumulati da governo e Regioni hanno portato alle nuove misure del Dpcm del 25 ottobre per far fronte ad un riacutizzarsi della pandemia. Il nostro Paese deve aumentare la spesa sanitaria, dopo anni di pesanti tagli. Riqualificandola su alcuni precisi assi: strutture territoriali e di prevenzione; integrazione socio-sanitaria; potenziamento del settore pubblico riducendo prestazioni e profitti del privato; assunzioni di medici, infermieri e personale non sanitario; aumento dei posti letto, nell’immediato le terapie intensive.
Siamo ancora dentro a una pesante emergenza sanitaria, impreparati soprattutto per responsabilità delle Regioni. Sono stati sprecati mesi importanti per attrezzarci alla lunga convivenza con la pandemia e, piuttosto di continuare a richiamare le “salvifiche” risorse economiche europee, chiediamo come sono stati spesi i miliardi che il governo ha stanziato per far fronte all’emergenza sanitaria. Come in primavera, stiamo assistendo all’ennesimo scaricabarile tra governo, commissario straordinario e Regioni.
Il nostro obiettivo primo è coinvolgere, informare i delegati, i lavoratori, mobilitarsi per imporre a governo e Regioni piani stringenti in difesa del lavoro, per investire nella sanità pubblica, nel trasporto locale con la spesa ordinaria e con le risorse già previste, per affermare politiche, progetti e modello di società futura, approvare misure strutturali che garantiscano per tutti coperture assistenziali e previdenziali, cassa integrazione, reddito di sopravvivenza e stabilità del lavoro.
Il governo naviga a vista, dilaniato dalle strumentali differenziazioni dei renziani di turno e incapace di sottrarsi alle pressioni della Confindustria bonomiana, che con poca responsabilità sociale non tiene in alcuna considerazione la salute di cittadini e lavoratori. Mentre approva giustamente le necessarie compensazioni per i settori colpiti dalle misure restrittive, il governo, grazie alla mobilitazione di Cgil, Cisl e Uil, resiste alle pretese padronali di porre fine al blocco dei licenziamenti e di dare mano libera al mercato, nella fase emergenziale come per la ripresa.
Sin che dura la crisi sanitaria blocco dei licenziamenti, cassa integrazione e ulteriori indennità Covid, tutele di disoccupazione devono essere prorogate, come richiesto unitariamente dalle confederazioni. Non si deve trattare solo di una necessaria misura difensiva, ma da subito deve affermarsi un ruolo diretto del settore pubblico per la creazione di posti di lavoro, a partire da sanità e scuola.
La manovra economica e il suo legame con il “Recovery plan” non sono adeguati. Del tutto insufficienti sono le risorse per il rinnovo dei contratti pubblici e per le assunzioni nella pubblica amministrazione. Alla conferma del taglio del cuneo fiscale per i lavoratori non corrisponde la necessaria riforma del fisco, rinviata al 2022. Bisogna ridisegnare subito il sistema fiscale, portando tutti redditi (inclusi rendite e profitti) alla progressività dell’Irpef, abbassando le aliquote per i redditi da lavoro e da pensione e innalzandole sui redditi più alti, introducendo appunto una tassa ordinaria sulle grandi ricchezze, riportando a tassazione le successioni, riducendo l’evasione attraverso il contrasto di interessi, con la deducibilità delle spese soggette ad Iva.
La risposta alla pandemia non può consistere nella riproposizione dello stesso modello di sviluppo, insostenibile da un punto di vista sociale ed ambientale. Al “nulla sarà come prima” rischiano di sostituirsi un rassegnato ritorno alla “normalità” o la rivolta di piazza di chi si trova nella situazione reale del “tutto è peggio di prima”, come a Napoli e in altre città. Né possiamo cavarcela con la denuncia delle infiltrazioni camorristiche, e della evidente strumentalizzazione da parte di Forza Nuova e Casa Pound. Il disagio sociale è vasto e reale. Deve avere una risposta adeguata in termini economici e di diritti. Mentre vanno isolati e repressi i soliti e noti fascisti e ultras che tentano di strumentalizzare le proteste, per ridare spazio alla destra negazionista di Salvini e Meloni.
Servono scelte innovative: intervento pubblico diretto per creare lavoro stabile; politiche sociali che pongano fine alla dilagante precarietà, con la riduzione generalizzata degli orari di lavoro a parità di salario, un reddito di base universale e incondizionato per tutti coloro che ne hanno bisogno, politiche migratorie inclusive, investimenti pubblici in innovazione tecnologica, riconversione ecologica, economia circolare, con le giuste tutele e i necessari percorsi di formazione per lavoratrici e lavoratori. Tutto il contrario di un via libera ai licenziamenti e di risorse date a pioggia al sistema produttivo.
In una fase molto complicata il sindacato è chiamato ad essere protagonista della proposta, della rivendicazione e della mobilitazione, facendosi strumento democratico della protesta di chi oggi si sente escluso, e le cui energie devono essere canalizzate in un movimento di reale trasformazione.
La Cgil, anche in questa difficile situazione che ci impone fatiche e idee nuove, è in campo. Con la sua storia, il suo progetto di Paese, la sua capacità di rappresentanza e di mobilitazione dei pensionati e dei lavoratori è, come sempre, un punto di riferimento per milioni di persone e per il futuro dell’Italia.
Pensavamo di poter parlare serenamente di quanto si stava discutendo ai tavoli di trattativa col governo sul versante previdenza e non autosufficienza. E invece riecco il Covid, riecco l’emergenza, riecco il dramma di una sanità in grave difficoltà (oserei dire nel panico, per quanto riguarda noi in Lombardia).
La sanità era ed è la priorità assoluta. Memori di quanto avvenuto in “fase 1” e sulla scorta di quanto già sostenevamo come sindacato prima della pandemia, stiamo fortemente insistendo affinché si affronti questa nuova ondata attrezzando la medicina sul territorio e i medici di medicina generale in modo tale che, sia nel monitoraggio che nel tracciamento del contagio, diano risposte più rapide e più efficaci di quanto sia stato fatto dagli ospedali e dai pronto soccorso nella prima fase. Si può e si deve fare.
Certo, sentir dire da Ats Milano che si è perso il controllo della tracciabilità dei contagi, e constatare che il numero di tamponi continua ad essere insufficiente, non ci fa certo ben sperare. Ma una stretta sinergia tra medici di base, specialisti di malattie respiratorie, Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), e una diffusione sul territorio degli infermieri di comunità, resta la via migliore per isolare e curare tempestivamente i frequentissimi casi, meno problematici dal punto di vista medico, ma veicolo micidiale di diffusione del contagio se non presi per tempo e lasciati liberi di circolare. Occhio di riguardo e maggior controllo medico nei confronti delle tanto bistrattate Rsa al fine di evitare il ripetersi del disastro di “fase 1”.
Ciò premesso - e sapendo che gran parte del futuro immediato di questo Paese e dell’umanità intera dipenderà dalla capacità di contenere e stroncare questo maledetto Covid - rimane aperto il tavolo del confronto col governo. Innanzitutto, su occupazione e ammortizzatori sociali, l’insoddisfacente confronto coi ministri competenti ha portato alla richiesta di una convocazione da parte di Conte. Certo, questo nuova clausura e la chiusura di bar, ristoranti, palestre, cinema e teatri non fa che aggravare la crisi di settori interi che di tutto hanno bisogno meno che della riapertura della libertà di licenziare. Vanno trovate soluzioni risarcitorie per le chiusure e garantiste per gli occupati dei settori. Nessuna macelleria sociale, specialmente nei confronti dei precari da sempre.
Ma facciamo il punto sulla previdenza: partendo dalle pensioni e dal loro ammontare restiamo in attesa di risposte sulla quattordicesima, sulla rivalutazione e sulla piena copertura contributiva per i part time verticali. Dopo i proclami di Conte sul superamento di “quota 100” - meglio discutere di come sostituire questa previsione con altre proposte in attesa della scadenza naturale (fine 2021) - per il sindacato resta la necessità di flessibilità in uscita (41 anni contributi) e di salvaguardia di uscite anticipate per lavori gravosi e usuranti. Per esempio, le/gli assistenti degli anziani presso le Rsa, pur svolgendo un lavoro più che gravoso, ingrato e pericoloso, per un “disguido tecnico”, nella stesura dei codici che consentono l’uscita con 41 anni per precoci e usuranti, non possono usufruire di questo beneficio, e dopo quello che hanno vissuto e stanno vivendo ci sembra proprio un bel “grazie” da parte dello Stato… . Nella gravosità deve rientrare anche il lavoro di cura delle donne, e nella carriera contributiva dei giovani deve essere salvaguardata la discontinuità e l’esiguità della contribuzione.
Alla questione previdenziale va affiancata una politica fiscale che nell’immediato equipari la tassazione dei pensionati a quella del lavoro dipendente. Non hanno spazio richieste populiste e demagogiche di “meno tasse per tutti”, anzitutto perché il fisco grava per più dell’80% sulle spalle di lavoratori e pensionati, e poi perché l’evasione fiscale è troppo grande e diffusa per un paese civile. È invece tutt’altro che peregrina e non praticabile la proposta di introdurre, specialmente in un momento emergenziale come questo, una tassa sui grandi patrimoni che comporterebbe un minimo di giustizia sociale che tanto manca al nostro Paese. Con la pandemia sono grandemente aumentati i poveri e gli indigenti, ma è aumentato il numero dei ricchi e soprattutto l’ammontare dei loro patrimoni.
Sul tavolo nell’ultimo incontro di settembre è stata data disponibilità ad affrontare l’annoso problema della legge sulla non autosufficienza. Attendiamo gli approfondimenti e le risposte del caso, sapendo che il tema era ineludibile ante Covid 19, e diventa stringente e irrinunciabile per quella parte di popolazione anziana e non a cui questa pandemia ha contribuito fortemente a peggiorare le condizioni di vita, e le cui famiglie non reggono più il peso e l’onere di un’assistenza, senza il dovuto supporto economico e di servizi da parte dello Stato.
Ricorderete sicuramente la retorica accomodante durante la prima ondata della pandemia: una strategia comunicativa che mirava a diffondere ottimismo e cercava di dare riconoscimento a quelle donne e quegli uomini che in quei terribili mesi erano in prima linea negli ospedali a combattere contro il virus e contro il tempo.
I riflettori erano ovviamente puntati su medici e infermieri, ma in un secondo momento ci si è accorti dell’esistenza di altre categorie di lavoratori schierati “al fronte”, donne e uomini senza i quali gli ospedali non resterebbero nemmeno aperti: il personale delle pulizie e della sanificazione. Lavoratori essenziali ma “invisibili”, imprescindibili ma usati ovunque come merce di scambio tra ente committente e appaltatori privati; trattati come risorse su cui si possono ridurre gli “sprechi” e accumulare profitti.
Sono circa 600mila in tutta Italia, dal loro lavoro dipende tutto il Paese, oggi più che mai. Garantiscono igiene e sanificazione in tutti i servizi pubblici, luoghi di lavoro e di aggregazione, dagli uffici agli ospedali, dalle scuole e le università ai supermercati, dai mezzi di trasporto ai teatri e ai cinema.
Non parliamo solo di addetti alle pulizie: ci sono anche diverse migliaia di figure professionali con ruoli amministrativi in grandi appalti pubblici, soprattutto ospedalieri; impiegati di sportello o call center dei centri di prenotazione (come il sottoscritto), segretari di reparto o ambulatoriali e così via.
C’è un divario intollerabile tra l’etichetta ufficiale di “eroi” e le reali condizioni in cui tutti noi lavoriamo quotidianamente. Il nostro contratto di riferimento è il multiservizi, un contratto “povero”, scaduto da oltre sette anni, le cui trattative si ritrovano impantanate nelle vergognose resistenze delle associazioni imprenditoriali (Confindustria e Lega delle Cooperative), che mirano al rinnovo “a costo zero”, cioè senza alcun aumento retributivo reale, e ad intaccare il diritto alla malattia retribuita.
Il 21 ottobre siamo scesi nelle strade, davanti alle sedi delle associazioni imprenditoriali, agli ospedali o altri luoghi simbolo, per chiedere sì il rinnovo del Ccnl, ma non solo. Siamo lavoratori essenziali ma la nostra retribuzione è inadeguata a vivere dignitosamente: veniamo pagati poco più di 7 euro lordi l’ora, e la stragrande maggioranza dei contratti individuali sono costituiti da part-time involontari. Siamo essenziali ma all’inizio della pandemia abbiamo dovuto assistere allo scaricabarile tra enti committenti e appaltatori sulla responsabilità della nostra salute nei luoghi di lavoro: mascherine, gel e guanti sono arrivati in pericoloso ritardo, proprio perché nessuno dei due soggetti cui sottostiamo voleva farsi carico delle spese necessarie per farci lavorare in sicurezza.
Siamo essenziali ma abbiamo dovuto lottare perché anche agli “appaltati” ospedalieri venisse garantito uno screening Covid-19 periodico al pari dei dipendenti diretti. Siamo essenziali ma la nostra vita, la nostra stabilità lavorativa, i nostri progetti sono costantemente in bilico, legati alla prossima gara d’appalto al ribasso, al prossimo capitolato striminzito che potrebbe comportare una revisione dei livelli di inquadramento, una riduzione del monte ore o, peggio, il licenziamento.
Siamo essenziali... ma non riusciamo nemmeno a gridarlo forte come vorremmo: la legge 146 sulla limitazione del diritto di sciopero vincola una gran parte di noi alla precettazione, in quanto appartenenti a categorie che devono garantire un presidio minimo. A ciò si deve aggiungere anche la parcellizzazione dei lavoratori, frammentati e isolati in arcipelaghi di sedi diverse, spesso subappaltati o differenziati tra più aziende che si spartiscono un singolo ghiotto appalto (con le differenze di trattamento che ne possono conseguire, nonché la disomogeneità di rappresentanza sindacale).
Il 21 ottobre abbiamo manifestato per la restituzione della nostra dignità e il riconoscimento concreto del nostro lavoro, per la stabilità e la sicurezza. Siamo però ben consapevoli che non può e non deve bastare il rinnovo del contratto per soddisfare queste nostre richieste, quale che sia l’esito delle trattative.
Servono un’inversione di tendenza, una nuova prospettiva e un nuovo orizzonte. Sono necessari interventi legislativi che possano rendere la clausola sociale nel cambio d’appalto solida ed estensiva: che possa cioè garantire il mantenimento del posto di lavoro ma anche le condizioni di miglior favore, a dispetto della condizione attuale di arretramento progressivo.
Dobbiamo infine riportare al centro del dibattito sindacale temi come l’internalizzazione del personale appaltato nei servizi pubblici e diventare protagonisti nella discussione sul salario minimo e sulla riduzione dei tempi di lavoro (a parità di salario), punti imprescindibili in un’epoca di automazione, digitalizzazione, telelavoro e, ahinoi, pandemie.
Vogliamo il contratto subito! Ma anche molto altro.
[L’articolo integrale è comparso su REDS n. 11, novembre 2020]
Confermati l’intermediazione illecita e lo sfruttamento dei lavoratori.
Le accuse di sfruttamento e intermediazione illecita presenti all’interno del procedimento preventivo presentato dal Tribunale di Milano nei confronti di Uber Italy, filiale italiana della rinomata azienda statunitense del food delivery, vengono confermate.
Tutto ha avuto inizio il 5 e 6 novembre 2019, quando vengono raccolte le dichiarazioni di 16 lavoratori richiedenti asilo in attesa di permesso di soggiorno provvisorio, residenti in un centro di accoglienza della provincia pavese, dalle quali si inizia a configurare il sospetto di un’intermediazione illecita. Dalle prima interlocuzioni avvenute con i rider in questione, questi dichiarano di avere svolto la propria attività per Uber attraverso un’altra società, che li pagava 3 euro a consegna indipendentemente dal chilometraggio, dall’orario diurno o notturno, e dalle condizioni atmosferiche.
Nella pratica i lavoratori utilizzavano l’app di Uber per accettare e gestire gli ordini, e nonostante il compenso calcolato in relazione al chilometraggio venisse assegnato dalla applicazione (che già tra le sue competitor è una di quelle che applica il compenso più basso), il valore pagato dagli intermediari era sempre di 3 euro, indipendentemente da ciò che veniva indicato nell’app. In questo modo si andava a configurare in maniera evidente una modalità di cottimo “puro”.
Dall’avviso di conclusione delle indagini, l’8 ottobre scorso, si evincono ulteriori punti che descrivono l’abuso e lo sfruttamento perpetrato nei confronti dei lavoratori. Oltre al pagamento più basso, i lavoratori venivano “derubati” dalle mance che i clienti davano volontariamente per il servizio svolto. Oltre a questo si configurano modalità punitive esercitate attraverso le decurtazioni economiche denominate “malus”, e calcolate in base al numero di rifiuti di eventuali consegne proposte al lavoratore tramite l’applicazione.
La quantificazione della sanzione, come si può leggere nelle chat whatsapp analizzate dagli investigatori, corrispondeva a 50 centesimi per ogni consegna non effettuata se queste avessero superato il 5% del totale degli ordini ricevuti. In aggiunta, il lavoratore che per qualche motivo non avesse rispettato le direttive arbitrarie impartite andava incontro a sanzioni di tipo economico.
Un esempio pratico per comprendere l’applicazione di tali decurtazioni si può evincere dai dati recuperati dagli investigatori, consultabili nel decreto 9/2020 emesso dal Tribunale di Milano. Il compenso settimanale registrato tra il 20 e il 26 maggio, in riferimento a 47 consegne effettuate durante la settimana, corrispondeva alla misera paga di 119 euro, alla quale oltretutto veniva applicato un “malus” di 22 euro.
Ai punti elencati precedentemente si somma la possibilità da parte di queste società di sanzionare il lavoratore per “assenza ingiustificata”, o addirittura di richiedere a Uber il blocco dell’account se queste assenze si fossero ripetute più volte nell’arco del mese o della settimana. Con questo meccanismo le società erano in grado di estromettere a tutti gli effetti il rider dal circuito lavorativo, creando così un sistema di ricatto che permetteva una totale sottomissione del lavoratore.
La situazione di maltrattamento e sfruttamento ai quali erano sottoposti erano ben note ai dipendenti di Uber coinvolti nello sfruttamento dei rider, come si può facilmente evincere dalle intercettazioni raccolte dagli investigatori. In una di queste intercettazioni Gloria Bresciani, Senior operation manager di Uber, dice: “Però ti prego, davanti a un esterno non dire mai più ‘abbiamo creato un sistema per disperati’. Anche se lo pensi, i panni sporchi vanno lavati in casa e non fuori”.
I vincoli e i soprusi rivolti a questi lavoratori si sono innestati in un modello di lavoro totalmente deregolamentato, che si ostina a considerare i rider come lavoratori autonomi, e quindi privandoli di qualsiasi tutela e rappresentanza.
In queste settimane abbiamo visto come le piattaforme, attraverso la propria associazione di rappresentanza Assodelivery, abbiamo eluso non solo le linee guida emesse dai tribunali, ma anche i percorsi di confronto proposti dal governo, firmando un accordo di comodo per rendere strutturale un modello che non permette la costruzione di un sistema di tutele per questa tipologia di lavoratori. Anche per questo ha risposto la giornata di mobilitazione nazionale del 30 ottobre, promossa dalle Union dei riders e dai sindacati confederali, per rivendicare maggiori diritti e tutele.