La ricerca, questa eterna sconosciuta. Ora o mai più… - di Gabriele Giannini

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La pandemia da Covid-19 ha rilanciato il ruolo della scienza e della ricerca scientifica. Mai come in questi mesi si è visto un impegno sotto il profilo scientifico alla ricerca delle cause della pandemia, del vaccino possibile, di tutto ciò che ne è connesso in termini di cure e strumenti per combatterla. O per lo studio della grande mole di dati e meta-dati messa sotto osservazione dagli scienziati per le analisi statistiche economiche e sociali su ciò che sta accadendo.

Mentre, per contro, si assiste ad una grave messa in discussione della scienza, per poter continuare a raccontare frottole sullo stato delle cose, e scaricare le proprie gravi responsabilità sulle morti e le conseguenze sociali, come fa Trump con le sue tesi negazioniste, agite nel tentativo di una rimonta elettorale. Seguito in questo da altri campioni che, sulla pandemia ma anche su ambiente e stato del pianeta, usano la negazione delle evidenze, ormai riconosciute unanimemente dalla comunità scientifica, sulle responsabilità delle attività umane nel loro progressivo deterioramento.

Mai come in questo periodo si sono visti virologi, immunologi, statistici e scienziati al centro dell’attenzione mondiale, interrogati sulle cause e sui rimedi per uscire dalla crisi dovuta alla pandemia, alla crisi ambientale di cui il Covid-19 altro non è che un aspetto.

Gli stessi politici, o almeno quelli più accorti, si affidano agli scienziati per affrontare le sfide poste dalla pandemia. Il governo italiano - a cui va riconosciuto il merito di aver affrontato per primo in Europa la pandemia al meglio nelle condizioni date e di aver portato la battaglia decisiva in Europa contro la logica dei vincoli di bilancio e per l’orizzonte del Recovery fund - ha saputo ascoltare la voce della scienza, riconoscendone il ruolo. Individuandone, anzi, uno dei punti su cui costruire l’agenda del futuro, per l’utilizzo dei miliardi che arriveranno dall’Europa, per il rilancio del sistema Paese su basi e condizioni diverse, puntando sulla sostenibilità ambientale, sulle giovani generazioni, su inclusione e riduzione dei divari sociali.

Ora si tratta di trasformare questi obiettivi in azioni concrete, e invertire un trend che vede il nostro Paese arretrare nel campo della ricerca e sviluppo nella “competizione” globale in termini di risorse, di infrastrutture e di addetti. Bisogna partire dai dati di fatto e riconoscere che negli ultimi 15 anni si è smesso di sostenere la ricerca e con essa quella di base. Lo dicono le cifre e gli obiettivi ,“bucati”, di portare gli investimenti in R&S dal 2% del Pil al tendenziale 3%, come indicato dalla strategia di Lisbona prima e da Europa 2020 poi. Siamo ancora ad un misero 1,4% nel 2018 mentre gli altri paesi europei, Francia (> 2%) e Germania (> 3%) in testa, nonostante la crisi del 2008, hanno continuato ad investire in questo settore e nei settori della conoscenza, accrescendone la quota percentuale sul loro Pil, escludendoli dai tagli delle politiche di austerità. Il nostro arretramento è da addebitare anche alla scarsa propensione all’innovazione e al basso contributo alla ricerca da parte del sistema produttivo, da sempre caratterizzato da una specializzazione verso settori maturi, tipica di una composizione a larga maggioranza di piccole e medie imprese.

“Se non ora, quando?”, viene da dire, parafrasando Primo Levi. Mai come in questo momento c’è l’occasione per invertire il trend e riportare in Italia la ricerca, fra cui quella sanitaria, al ruolo che le compete in Europa e nel mondo. Mentre le statistiche ci vedono agli ultimi posti in termini di investimenti sul Pil, continua ad essere invece apprezzabile il ruolo dei ricercatori italiani, a livello europeo e globale. Lo dimostra la recente (settembre 2020) assegnazione dei ricchi e prestigiosi finanziamenti (grants) dell’European Research Council (Erc), a supporto di ricercatori di qualsiasi nazionalità che desiderino condurre progetti di ricerca di frontiera su temi anche trasversali e pionieristici.

I ricercatori italiani sono secondi solo ai tedeschi nella lista dei vincitori. Mentre se, nell’assegnazione dei grants, si va a guardare dove saranno svolti questi progetti, l’Italia risulta essere al penultimo posto in Europa, segno di un’evidente debolezza strutturale dei luoghi della ricerca: le università e gli enti di ricerca. Il riscontro appunto di oltre un decennio di disinvestimento nel settore. Anche se guardiamo al numero di ricercatori in Italia sul totale della forza lavoro, siamo agli ultimi posti nel mondo.

Il governo Conte ha la possibilità concreta di rilanciare l’intero settore che, nonostante tutto, continua ad essere prestigioso. In questo momento, in cui è evidente la centralità della ricerca scientifica per un diverso modello di sviluppo e sono stati superati i vincoli di bilancio, si possono destinare le risorse necessarie per rimettere la ricerca italiana in linea con gli standard europei, anche per le infrastrutture e il numero degli addetti. 

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