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Che bisogno ha il primo ministro di ribadire quello che è già noto e deciso per legge, e cioè che “quota 100” finirà il 31 dicembre 2021? E perché crescono gli attacchi strumentali al reddito di cittadinanza? Difficile sfuggire all’impressione che sia cominciata, mediaticamente prima ancora che nelle sedi istituzionali, la campagna di rassicurazione e scambio con le istituzioni europee in vista dei finanziamenti del Recovery fund, e magari anche del Mes, con troppa faciloneria indicato come una opportunità da non perdere. Le condizionalità ci sono – vedi il legame al semestre europeo – e sono le solite: taglio a pensioni e stato sociale. La grande crisi economico-finanziaria di un decennio fa, da questo punto di vista, non ha insegnato niente.
Sono noti i gravi limiti dei due istituti voluti dal governo giallo-verde Conte 1. Ma al Conte 2 non dovrebbe sfuggire – a meno che non si tratti solo di pura facciata – che sul dopo “quota 100” è aperto un negoziato con il sindacato confederale, perché il nodo, allora come oggi, è quello del superamento definitivo della legge Fornero.
La piattaforma Cgil, Cisl e Uil sulla previdenza e le modifiche strutturali della Fornero e delle iniquità del sistema contributivo restano al centro dell’iniziativa sindacale per riconquistare flessibilità in uscita, certezza di pensioni adeguate per lavoratori e lavoratrici con carriera discontinua e occupazioni precarie (pensione di garanzia), la fine della rincorsa – sia in termini di età ed anni lavorativi che di rendimenti – dell’aspettativa di vita.
E’ necessaria una riconsiderazione sia del welfare aziendale, in contraddizione con l’universalità della sanità pubblica, sia della seconda gamba pensionistica affidata ad una dimensione finanziaria a redditività decrescente.
Anche gli evidenti limiti del reddito di cittadinanza, soprattutto in termini di mancata universalità, non possono che essere superati in avanti, allargando la platea, irrobustendo i sussidi, rompendo l’ambiguo e giocoforza inconcludente legame con le “politiche attive del lavoro”. Blocco dei licenziamenti, centralità del rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario: sono queste le vere misure per creare e difendere l’occupazione. Devono essere assi trasversali di ogni investimento del Recovery plan. Tutto il contrario di quanto pretende, con la consueta arroganza padronale, la Confindustria bonomiana, nel suo evidente disegno di restaurazione, anche attraverso un nuovo “patto sociale” per noi del tutto improponibile.
La battaglia, in Italia e in Europa, è appena all’inizio, e la Cgil deve condurla senza farsi incantare dalle sirene del vecchio europeismo neoliberista che continua ad essere dominante, anche nelle necessarie scelte keynesiane che la pandemia e le sue conseguenze economiche e sociali hanno imposto.
Due notizie diverse, una davvero globale e l’altra piccola ma simbolicamente importante, possono aiutare a capire cosi si intenda per disuguaglianze, nella parte più ricca del pianeta. La prima dà conto dei periodici report di Oxfam, la confederazione internazionale di organizzazioni non profit impegnate alla riduzione della povertà globale. Il rapporto di settembre “Potere, profitti e pandemia” illumina l’impennata dei guadagni, già abitualmente da capogiro, delle 32 multinazionali più grandi del globo. Ben 109 miliardi di dollari in extra-profitti, attesi in questo 2020, rispetto alla media dei quattro anni precedenti. Si va dagli ‘over the top’ Google, Apple, Facebook e Amazon fino ai giganti farmaceutici, realtà che non hanno subito gli effetti recessivi del Covid, e anzi hanno visto crescere ancora i loro guadagni. Utili che però non saranno redistribuiti nell’economia reale. Piuttosto saranno destinati in massima parte (l’88%) agli azionisti. “Arricchendo in gran misura chi è già ricco”, tira le somme Oxfam.
Lottano invece per una paga oraria di pochi euro ma legata a un contratto di lavoro - quindi con diritti e tutele – i rider fiorentini di Just Eat. Ed è stata un successo l’elezione del primo delegato sindacale italiano, Yiftalem Parigi. Un rappresentante dei lavoratori alla sicurezza, che vuol dire avere diritto di parola per esigere dalla piattaforme del food delivery, ad esempio, i dispositivi di protezione individuale contro il Covid. Ma anche altre tutele essenziali per chi in un turno di lavoro macina chilometri in bici o in motorino, con l’obbligo di fare più in fretta possibile. “Siamo schiavi a cottimo di padroni ‘invisibili’ - racconta uno di loro, Filippo Luti – oggi il nostro è lavoro vero ma senza garanzie, per un sacco di persone. Giovani e immigrati che per sopravvivere devono accettare ritmi frenetici. Senza nemmeno la garanzia di portare a casa la giornata”.
C’è un prima e un dopo il referendum costituzionale del 20-21 settembre.
Prima la consultazione è stata segnata da alcune fortissime criticità che ne hanno influenzato l’esito: la scelta governativa di fissare la data delle elezioni a ridosso dell’estate, che di fatto ha ridotto fortemente le occasioni di informazione sui contenuti dell’opzione referendaria; l’election day, ossia la riunione di tutte le consultazioni elettorali in un’unica tornata; il ritardo con cui i media hanno dato avvio alla campagna elettorale referendaria e lo sbilanciamento degli spazi informativi di alcune reti televisive nazionali a vantaggio dei sostenitori del Sì, circostanza quest’ultima certificata dai rilievi dell’Agcom. Il tutto condito dalle misure anticovid e dall’assenza dei grandi partiti, schierati per il Sì, mentre il No è stato sorretto solo da piccole ma tenaci resistenze politiche. E forse, se messo in condizione di informare adeguatamente la cittadinanza, il fronte del No avrebbe potuto guadagnare quei punti percentuali che una corretta informazione, garantita in condizioni di parità, gli avrebbe assicurato, perché in una democrazia consolidata l’informazione si promuove, non si limita.
Dunque la consultazione referendaria appare viziata sotto il profilo più delicato, quello del corretto svolgimento della campagna referendaria: se l’election day, agli occhi dei più, ha rappresentato una scelta obbligata per il risparmio della spesa pubblica, ad una riflessione un tantino più accurata, che si sposti dal piano emozionale a quello razionale, le cose non stanno proprio così. Proprio perché è di democrazia che si sta parlando, e la democrazia non può essere considerata un costo per il Paese.
Non si rinviene infatti alcuna disposizione di legge che imponga la fissazione in un unico giorno delle elezioni per il rinnovo delle cariche politiche nazionali o locali, e del referendum costituzionale. La ragione di detta omessa previsione normativa va ricercata proprio nella volontà del legislatore di tenere distinte le due tipologie di consultazioni, le cui diverse natura e finalità vanno preservate al fine di non comprimere oltre misura il diritto di voto e di partecipazione politica dei cittadini, indulgendo nelle Regioni teatro delle elezioni amministrative a un’eccessiva semplificazione dei contenuti della revisione costituzionale, che non ha reso consapevole l’elettorato dei rischi di tenuta democratica insiti nel taglio lineare di rappresentatività del Parlamento nazionale.
Questo anche perché diversa è la finalità delle due campagne elettorali: la campagna elettorale referendaria ha visto alleate tra loro forze politiche che si sono contese i seggi nelle elezioni locali, creando di fatto un cortocircuito tra forze politiche nella competizione elettorale per le due consultazioni, idoneo a generare un’alterazione nella formazione della volontà elettorale e nell’informazione del corpo elettorale, con conseguente violazione della “sincerità” e “genuinità” del voto.
E poiché l’agire politico deve sempre essere costituzionalmente orientato, non va tralasciato che in materia costituzionale le peculiarità della campagna referendaria diventano ancora più stringenti se si considera che oggetto del referendum è la modifica della Carta fondamentale, che esige una partecipazione unitaria del corpo elettorale in virtù dell’articolo 5 della Costituzione, mentre la circostanza che in alcune regioni si siano svolte anche le elezioni amministrative ha determinato un’influenza determinante tanto sull’affluenza alle urne quanto sulla libertà delle campagne referendarie da altri condizionamenti politici, con conseguente alterazione del peso elettorale tra diverse aree del paese.
Questo è quanto è possibile rilevare sul piano del metodo, e come si sa il metodo non è un inutile orpello ma la spina dorsale del sistema delle garanzie dei diritti fondamentali: se viene meno il rispetto delle regole procedurali, saltano i lucchetti che blindano la tenuta della democrazia. E a nulla varrebbe chiudere il recinto quando i buoi sono già fuggiti!
Con riferimento al dopo-referendum, ad oggi, si susseguono le analisi del voto referendario e si moltiplicano le proposte di riforme che dovrebbero seguire.
Sotto il primo profilo è innegabile che la valanga di Sì sia stata sospinta da un sentimento diffuso e radicato di antipolitica e antiparlamentarismo. C’è, come è ovvio, tra i sostenitori del Sì una minima percentuale di “riformisti in buona fede”, ma il dato interessante che emerge dall’esito del voto referendario è che, stando alle stime dell’Istituto Cattaneo, c’è stata una salda cellula di resistenti al canto delle sirene populiste pari al 30% dei votanti, che si è sottratta al voto plebiscitario chiesto dal 90% delle forze politiche parlamentari, che rappresenta la parte di elettorato più informata e attenta residente nei centri urbanizzati, e che crede fortemente nel valore insuperato della democrazia parlamentare voluta dai Costituenti. Un nocciolo elettorale duro a difesa della Costituzione, che si contrappone a un elettorato maggioritario composto in massima parte da residenti per lo più nelle aree territoriali periferiche, logorato dalla crisi economica, e dalle aspettative sociali disattese da una classe politica che si è illuso di punire con un voto dallo spiccato sapore antiparlamentare.
Sotto il secondo profilo, non si può non rilevare una certa incoerenza in chi ha sostenuto il taglio dei parlamentari perché “riformetta” puntuale e affatto incidente sui delicati equilibri costituzionali, e ora si affanna a chiedere a gran voce una legge elettorale proporzionale con preferenza, e bassa (o addirittura nulla) soglia di sbarramento per risarcire gli effetti della mutilazione del Parlamento, e per salvaguardare gli scampoli della matrice pluralistica del nostro ordinamento costituzionale: una vox clamans in deserto, destinata a infrangersi contro le pulsioni maggioritarie di una sinistra che da circa trent’anni è alla ricerca della propria smarrita identità, e le velleità costituenti di movimenti fluidi e de-ideologizzati, convinti che la scelta democratica possa risolversi in un “click” indotto da un’abile manipolazione mediatica e immediata del consenso delle masse al proprio leader-portavove di turno, scontando in tal modo l’assenza di una prospettiva politica di lunga gittata.
Prova ne sono da una parte la proposta di legge elettorale denominata “Brescellum”, che ripropone i medesimi vizi del Rosatellum bis (trasformato in Rosatellum ter nel 2019 dal governo gialloverde per adattarlo all’incombente taglio dei parlamentari), vale a dire le liste bloccate e le pluricandidature, aggravate dalla previsione di collegi ampi interregionali al Senato, elementi che confermano la volontà di neutralizzare le scelte politiche del corpo elettorale. Dall’altra gli improbabili correttivi alla monca revisione costituzionale, quali il famoso mandato politico imperativo che urta contro la dimensione nazionale e sociale della rappresentanza politica, la quale va tenuta ben distinta dalle forme private della rappresentanza, nella quale il vincolo di mandato la fa da padrone, come pure i correttivi in salsa piddina, volti a introdurre istituti trapiantati da esperienze costituzionali storicamente e istituzionalmente diverse dalla nostra democrazia parlamentare, quali il “konstruktive Misstrauensvotum” alla tedesca e il “vote blocqué” alla francese, che affondano le loro radici in un humus politico che si alimenta di un sistema di partiti più saldo e strutturato del nostro.
I correttivi e le ambizioni dei novelli costituenti rischiano pertanto di naufragare miseramente, per l’assenza di quella che ormai da tempo è stata individuata come la causa originaria del rischioso svuotamento della Costituzione repubblicana attraverso l’indebolimento del suo stesso principio di rigidità, minato dalle ripetute riforme “a colpi di maggioranza”, nonché dalla torsione maggioritaria del sistema che ha trasformato di fatto il fiduciario (il governo) in fiduciante: si allude alla crisi ultratrentennale dei partiti politici nella loro funzione di cinghia ineliminabile di trasmissione tra società civile e istituzioni, per cui interrompendo questo vitale rapporto di trasmissione la macchina parlamentare ha finito con l’incepparsi.
Senza una seria riforma dei partiti politici che parta da una legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, attesa da più di 70 anni, ancora una volta i correttivi di razionalizzazione della nostra forma di governo parlamentare monista proposti dai novelli costituenti sono destinati a rivelarsi privi di utilità, in quanto trascurano l’elemento indefettibile di ogni democrazia parlamentare, ossia il ruolo decisivo giocato dai partititi politici nei rapporti interistituzionali e nella formazione della decisione pubblica.
Da qui pertanto occorre ripartire, affinché la bulimia riformista degli ultimi trent’anni, ammantata di buone intenzioni, non finisca col celebrare una festa “alla” democrazia.
L’intesa tra Ugl e Assodelivery ha una solo funzione: impedire che da novembre i riders possano ottenere le tutele del lavoro subordinato, così come stabilito dalla legge 128/2020.
Quando la Cgil, spesso per bocca del suo segretario generale, chiede a gran voce una legge sulla rappresentanza, non sta invocando chissà quale astrusa tecnicalità giuridico sindacale ma una norma di civiltà. Chi contratta lo deve fare in virtù di un mandato e di una base di interessi da rappresentare. Essere rappresentativi significa avere una responsabilità e rendere conto del proprio operato.
Avere una legge sulla rappresentanza avrebbe consentito, ad esempio, di evitare una pagina brutta come quella scritta da Assodelivery e Ugl il 15 settembre 2020. L’accordo, firmato in tutta fretta e in modo carbonaro, fra il sindacato confederale di destra e l’associazione delle piattaforme delle consegne a domicilio (Just Eat, Glovo, Deliveroo, etc), è un atto di aperta ostilità a Cgil, Cisl e Uil e anche al ministero del Lavoro. Ma soprattutto è un vero sfregio ai diritti di migliaia di lavoratrici e lavoratori in tutta Italia.
L’intesa ha una solo funzione: togliere le castagne dal fuoco ai nuovi padroni della gig economy, impedendo che da novembre i riders possano ottenere le tutele del lavoro subordinato a partire da una equa retribuzione, così come stabilito dalla legge 128/2020.
Definendo a ogni piè sospinto nel corpus del contratto che quello del rider è un lavoro autonomo, Ugl e Assodelivery provano a impedire che questi lavoratori abbiano dei diritti certi quali salario, minimo orario garantito, 13esima mensilità, malattia e ferie retribuite. Non contenti reintroducono un principio di cottimo cui legare non solo la teorica retribuzione oraria di 10 euro, ma anche la consegna dei dispositivi di protezione individuali.
In questi ultimi mesi abbiamo intrapreso un percorso non semplice, ma necessario, con la galassia di forme di rappresentanza autonoma cui, negli anni, queste lavoratrici e lavoratori hanno dato vita, arrivando a buoni punti di sintesi e condivisione. Lo stesso dicasi di Cisl e Uil. Un lavoro prezioso che ha iniziato a dare i suoi frutti in termini di rappresentatività, e che non intendiamo abbandonare.
Abbiamo immediatamente chiesto al ministero del Lavoro di riconvocare quel tavolo cui Assodelivery ha deciso di sottrarsi in modo così scorretto. Già sui territori si stanno organizzando iniziative di mobilitazione per spiegare ai riders il perché i contenuti del sedicente “Contratto nazionale dei Riders” vadano contrastati, e per acquisire consenso rispetto alla nostra proposta: prima si ragiona di diritti universali per tutti mutuabili dal nostro patrimonio di contrattazione collettiva, indipendentemente dalla natura del rapporto di lavoro (subordinato, autonomo, eterorganizzato), e successivamente si affronta il nodo della eventuale qualificazione del rapporto stesso.
Ci chiediamo infine se Ugl si è posta la questione di dover rendere conto ai lavoratori delle sue scelte, se intende cioè spiegare non tanto a noi ma ai ciclofattorini - cui rischiano di peggiorare le condizioni di vita da un giorno all’altro - su che mandato ha firmato un accordo così pericoloso.
Sulle ragioni di questa vicenda pesa l’ombra di un preoccupante ritorno agli anni ‘50, con sindacati di comodo che, per il proprio tornaconto anche economico, si prestano a operazioni spregiudicate e ai confini dell’etica.
Una legge sulla rappresentanza impedirebbe ad un passato che ritenevamo di aver sconfitto con le lotte di ripresentarsi. Una legge sulla rappresentanza obbligherebbe questi soggetti a render conto ai lavoratori. Ecco perché la Cgil continua a rivendicarla.