Inodi nella grave emergenza vengono al pettine in un Paese fragile e diseguale. Mentre il movimento dei lavoratori e il sindacato danno prova di responsabilità e di consapevolezza del bisogno di cambiare radicalmente modello di sviluppo, altri sono aggrappati al passato e ai loro interessi particolari. La dura lezione non è servita: dimenticano le colpe, rimuovono scelte gravi e le sofferenze, non hanno l’umiltà di chiedere scusa a chi ha pagato e sta pagando duramente questa pandemia.
Matteo Renzi chiama i morti da covid19 a lottare assieme a lui per le riaperture. Il neo presidente di Confindustria ci informa che tutti dobbiamo fare i sacrifici, tuonando contro il pregiudizio anti industriale della Cgil, contro alcune proposte economiche del governo, definendole “dirigiste”, di natura neokeynesiana o addirittura “comuniste”, e chiedendo sfacciatamente soldi a fondo perduto. Salvini e la Lega sbraitano contro gli ispettori del lavoro in difesa delle imprese, contro la regolarizzazione degli immigrati sfruttati, trovando sponda in una parte dei 5Stelle.
Le crisi non producono di per sé avanzamenti per le classi lavoratrici, tanto meno in realtà come quella italiana dove manca una reale rappresentanza politica del lavoro. Gli interessi delle varie frazioni del capitale e della piccola borghesia sono invece ben rappresentati: dalla Lega di Salvini ad Italia Viva di Matteo Renzi, passando per Fratelli d’Italia e l’immarcescibile Forza Italia di Silvio Berlusconi.
Se infatti questo governo è uno scenario politico migliore del precedente, mancano la capacità e i riferimenti sociali per contrastare l’offensiva che dall’avvio della pandemia stanno portando gli industriali del nord e la piccola borghesia del commercio. Prima ancora dell’emergenza covid, il presidente designato di Confindustria aveva ben chiaro come intervenire su contratti, lavoro e altro ancora: contrattazione di secondo livello in alternativa a quella nazionale, ripensamento del sistema previdenziale, abolizione di quota 100 e del blocco dell’aggiornamento all’aspettativa di vita, revisione delle politiche attive, ripensamento degli attuali schemi di classificazione e inquadramento del personale, revisione dell’attuale normativa sull’orario di lavoro, progettare nuove forme di flessibilità contrattuale, semplificare il quadro normativo in materia di disabilità, inidoneità e invalidità al lavoro, possibilità di conversione della maternità facoltativa in voucher per baby-sitter e asili nido. Tutta farina di quel presidente che, da capo di Assolombarda, assecondato dalla Lega e dal presidente della Lombardia, è politicamente responsabile di non aver impedito la chiusura dei focolai di infezione tramite le zone rosse, di aver continuato a produrre nelle aree di maggior contagio, di aver incoraggiato la forzatura delle autocertificazioni in prefettura e l’interpretazione dei codici Ateco delle attività essenziali.
Con l’arroganza del conservatorismo anti operaio, Confindustria vorrebbe usare la crisi per ripristinare ideologicamente la centralità dell’impresa e del mercato, sbarazzarsi di decenni di conquiste sindacali, della contrattazione generale, della confederalità, dei contratti nazionali e dei diritti sanciti dallo Statuto dei lavoratori che compie cinquant’anni, ma resta valido nei suoi principi, attuativi della Costituzione. Questi padroni vorrebbero dettare la linea per la ripartenza: un insulto per tutti i lavoratori e le lavoratrici di questo Paese. Ma trovano una chiara risposta nell’azione del sindacato, a partire dalla Cgil.
Serve un forte intervento pubblico in economia e un rafforzato ruolo della contrattazione collettiva. Nessun nuovo “patto tra produttori”, ma il pieno sviluppo del confronto sindacale, con la partecipazione delle delegate e dei delegati per una battaglia aperta per la conquista del nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori, per unificare tutto il mondo del lavoro.
Per Confindustria, per una certa politica, per alcuni partiti non esistono il bene pubblico, l’interesse generale, ma solo la centralità del mercato e dei loro interessi, dei loro profitti. Il vero nodo da sciogliere è chi pagherà la crisi. Il cambiamento radicale che ci impongono la natura epocale della pandemia e la sfida del cambiamento climatico dovremo conquistarlo con nuovi rapporti di forza, costruiti sull’autonomia di pensiero e di progetto, il consenso, la partecipazione dei lavoratori e dei cittadini, organizzati nel sindacato confederale e in alleanza con i movimenti femminista, ambientalista, pacifista. Il lavoro salva il Paese e vuole contare, in una fase che dev’essere di profondo cambiamento.