Cinquant’anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori, dopo vent’anni di lotte. Antonio Pizzinato, un sempreverde dalle molte primavere, ha vissuto quel periodo in prima linea, da sindacalista della Cgil con ruoli di responsabilità.
Come era la vita operaia all’inizio degli anni sessanta, dopo un quindicennio durissimo sotto ogni punto di vista, come quello della ricostruzione dopo la guerra?
“Andiamo con ordine. Nel 1947, a quattordici anni, lasciai il paese dove sono nato, in Friuli, per trasferirmi a Milano. Dopo due mesi iniziai a lavorare alle Officine Borletti, oltre 3.500 fra operai e impiegati. Sono entrato come apprendista, poi operaio qualificato e infine operaio specializzato. Finito il servizio militare - ero nei marines del Battaglione San Marco - rientro in Borletti e vengo eletto nella Commissione Interna della fabbrica, un’importante impresa manifatturiera nata nel ’900. Nel 1962 divento funzionario della Fiom di Milano, due anni dopo mi viene affidata la zona di Sesto San Giovanni, il quinto centro industriale del paese. Mi ero appena sposato ed ero andato a vivere proprio a Sesto. Il dirigente, un vecchio partigiano, aveva lasciato e io lo sostituisco. Ma facciamo un passo indietro: quando vengo eletto nella Commissione Interna della Borletti, nel 1954, per la prima volta la Cgil non ha la maggioranza dei nove componenti. Fra gli operai quattro su sette sono della Fiom che però non ha nessun eletto fra gli impiegati, va a finire che cinque membri della commissione su nove hanno la tessera della Fim Cisl. Sono anni di profonde trasformazioni produttive, spuntano le catene di montaggio - in Borletti era predisposta addirittura su quattro piani - grandi cambiamenti che vanno a toccare anche la stessa organizzazione del lavoro. L’azienda avvia procedure di licenziamento per centinaia di addetti, sono proprio i più anziani, con quindici, vent’anni di esperienza alle spalle, ad essere allontanati. Apriamo una vertenza e lottiamo per mesi, facciamo scioperi su scioperi articolati per reparto, manifestazioni per le vie del quartiere, ma non riusciamo a far ritirare i licenziamenti. L’unica intesa che raggiungiamo, l’unica conquista che riusciamo a strappare, è su quello che oggi sarebbe definito incentivo all’esodo. Nemmeno un anno dopo entreranno in fabbrica centinaia di giovani, nuovi assunti con contratto a termine. Questa è la situazione negli anni cinquanta, fino all’inizio dei sessanta”.
Dalla fabbrica al sindacato, il passo è breve...
“Come abbiamo ricordato, nel 1962 divento funzionario sindacale della Fiom di Milano. Segretario generale era quel Giuseppe Sacchi che successivamente sarebbe stato eletto deputato e avrebbe contribuito da protagonista, in Parlamento, all’elaborazione, presentazione e approvazione dello Statuto dei lavoratori. Io entro a far parte della commissione provinciale studi e contrattazione, con me ci sono anche Gastone Sclavi e Paolo Santi, che contemporaneamente frequentano l’università e studiano per laurearsi. È il ’64, mi affidano la zona di Sesto San Giovanni. L’anno precedente avevamo conquistato il nuovo contratto dei metalmeccanici dopo 208 ore di sciopero, con aumento delle retribuzioni e graduale riduzione dell’orario di lavoro; ci battevamo per fare avere a tutti le 40 ore, e per l’universalità dei diritti dei lavoratori. Nel 1966, dopo mesi di sciopero, vengono firmati prima il rinnovo del contratto per le aziende a partecipazione statale (rappresentate dall’Intersind), poi quello di Confindustria (futura Federmeccanica). Sono anni di grandi trasformazioni e di grandi conquiste, nel marzo del 1969 Cgil, Cisl e Uil siglano un accordo per il superamento delle gabbie salariali, le differenze di salario e di condizioni di lavoro a seconda delle varie zone d’Italia, ben sette. Tanto per fare un esempio, Sesto San Giovanni è vicino a Bergamo, eppure fra chi lavorava in Falck e chi in Dalmine - due aziende siderurgiche a 30 chilometri l’una dall’altra - c’era il 20% di differenza di retribuzione. Proprio nel mezzo di queste conquiste, il 12 dicembre, si colloca la strage di Piazza Fontana, diciassette morti e novanta feriti, un attacco senza precedenti alla democrazia, ai lavoratori, al sindacato. Ero in Camera del lavoro, in riunione per decidere sugli scioperi dei meccanici, quando udimmo l’esplosione. Teatro della strage è la Banca Nazionale dell’Agricoltura, il salone dove appena il giorno prima, l’ 11 dicembre, era stata tenuta l’assemblea dei lavoratori del credito dopo la firma del contratto di categoria. Nelle stesse ore del giorno che precede la strage fascista, il Senato aveva approvato in prima lettura lo Statuto dei lavoratori. Il voto definitivo della Camera arriverà nella primavera del ‘70, il 14 maggio. La Costituzione e i principi costituzionali entrano nelle fabbriche con lo Statuto. Si lotta per i diritti e al tempo stesso contro la violenza fascista. Nei giorni precedenti l’approvazione, nel piazzale davanti alla Falck Unione mi prendono in spalla e mi portano dentro lo stabilimento per illustrare all’assemblea i contenuti della trattativa sul contratto dei metalmeccanici. Un episodio che in qualche modo anticipa alcune conquiste dello Statuto, prima non era possibile fare le riunioni all’interno della fabbrica. Sesto San Giovanni è un punto di osservazione particolare, l’80% dei lavoratori è concentrato in quattro grandissime fabbriche: Breda, Falck, Ercole Marelli, Magneti Marelli. Di lì a poco, a Sesto, il 13 gennaio 1972, l’assemblea unitaria dei delegati eletti nelle fabbriche si conclude con la costituzione del Sum, sindacato unitario dei metalmeccanici, un’anticipazione di quella che sarà l’Flm. Vengono eletti oltre 1.200 delegati sindacali da tutte le fabbriche, su scheda bianca, che svilupperanno la contrattazione aziendale prevista dai nuovi accordi. Fra il 1971 e l’inizio del ‘72 si stipularono unitariamente 234 accordi aziendali riguardanti 44.200 lavoratori”.
Per tutti gli anni cinquanta la Cgil era stata osteggiata nei luoghi di lavoro, o sbaglio? Cosa successe nei sessanta, negli anni del boom economico?
“C’era stata la rottura dell’unità sindacale, c’era un atteggiamento di discriminazione nei confronti della Cgil. Spesso nei luoghi di lavoro i nostri delegati non venivano neppure invitati alle trattative aziendali, ai confronti con la Commissione Interna. Alla Borletti, in particolare, l’ho vissuto sulla mia pelle. C’erano pressioni da parte del vertice aziendale nei confronti dei lavoratori perché alle elezioni della Commissione non votassero Cgil. Gli stessi Borletti arrivarono a mandare una lettera ai dipendenti per invitarli a non sceglierci. Vita dura per i militanti della Cgil, quando potevano ci separavano anche fisicamente. A partire dalla lotta degli elettromeccanici all’inizio degli anni sessanta, diventano sempre più pressanti e decisivi i temi della democrazia, della partecipazione sui luoghi di lavoro, della contrattazione integrativa in azienda. Ricordo la manifestazione promossa dalla Fiom in piazza del Duomo, a Natale del 1960. Il cardinale di Milano, finita la messa, invece di spostarsi sul retro ed entrare in arcivescovado, uscì in piazza. Si fermò sulla piazzetta che resta mezzo metro più alta del selciato, e fece un segno con il braccio. Come i lavoratori lo videro scattò l’applauso. Un momento significativo, il segno di un rapporto che si stava saldando nella società con le classi lavoratrici. In Pirelli, una delle maggiori fabbriche di Milano al confine con Sesto, dopo mesi di scioperi, votando su scheda bianca, fu eletto da diversi gruppi di lavoratori il primo Consiglio di fabbrica. La stessa cosa avveniva a Porcia, in provincia di Pordenone, alla Zanussi. C’era stata una profonda riorganizzazione della produzione con l’introduzione delle catene di montaggio, ma i lavoratori riuscirono a fare fronte comune ed eleggere il Consiglio di fabbrica su scheda bianca. Era l’inizio di un passaggio storico, che porterà al superamento delle Commissioni Interne migliorando la vita, l’organizzazione, la contrattazione nei luoghi di lavoro. Con il passaggio ai Consigli di fabbrica, la partecipazione sindacale fa un salto di qualità”.
A distanza di mezzo secolo, quale è l’eredità dello Statuto e perché la Confederazione ha pensato di attualizzarlo, rinnovandolo in chiave ‘universalistica’?
“In cinquant’anni è cambiato un po’ tutto, dalle condizioni all’organizzazione del lavoro, l’ambiente e la salute sono diventati due fattori essenziali della vita in fabbrica, più in generale è mutata la stessa struttura produttiva e così i rapporti interni alle aziende. Al tempo stesso il lavoro è stato frantumato, atomizzato. Faccio un esempio parlando proprio della mia esperienza a Sesto San Giovanni. Quando è stato approvato lo Statuto dei lavoratori era il quinto centro industriale del paese, 40mila lavoratori, per l’80% concentrati nelle quattro grandi aziende del territorio. Oggi, nel 2020, ci sono 29mila lavoratori, per l’80% disseminati in realtà con meno di dieci dipendenti. Il 50% ha addirittura un numero di addetti che va dal singolo ai cinque operai. Siamo di fronte a una frammentazione senza precedenti. In parallelo le nuove tecnologie, l’automatizzazione, la robotizzazione hanno rivoluzionato il modo di produrre. Dopo il tentativo fallito di Berlusconi nel 2002, è stato il governo Renzi, nel 2014, ad attaccare i diritti dei lavoratori, stravolgendo l’articolo 18, togliendo l’obbligo del reintegro per i licenziati senza motivo. Berlusconi aveva tentato ma fu bloccato dall’enorme manifestazione, milioni di lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini, al Circo Massimo a Roma. Invece Renzi è riuscito a fare approvare il job act. Da qui, dalla modifica dello Statuto e dal mutamento del mondo del lavoro, è partita l’iniziativa della Cgil, che ha raccolto un milione e 150mila firme su una proposta di legge di iniziativa popolare per la “Carta universale dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici”. Credo bisognerebbe anche tener conto del ricorso fatto dalla stessa Cgil in Europa contro le riforme renziane del lavoro. Il Comitato europeo dei diritti sociali ha dato ragione al sindacato. Sono stato fra i tantissimi firmatari della proposta di legge di iniziativa popolare, ero anch’io in coda davanti alla Scala di Milano dove si raccoglievano le adesioni. Si sono raccolte firme in ogni parte d’Italia. Superata la fase acuta della pandemia, a cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori, dovremo affrontare le nuove sfide di un mondo del lavoro profondamente cambiato negli ultimi trent’anni, che ora si trova in crisi. Quando la triste fase del coronavirus sarà superata, dovremo ripensare al modello strategico, contrattuale e sociale, perché si adegui a quella che è la nuova realtà produttiva e lavorativa, fonte di diseguaglianze sempre più marcate, e impegnarci per una società più equa, con regole democratiche, rapporti di lavoro stabili e non precari, nel segno di un rinnovato protagonismo sociale. Per affrontare le sfide della modernità bisogna fare un salto di qualità. Nella storia del movimento sindacale degli ultimi cento anni, una sola categoria è riuscita a raggiungere e mantenere vivo l’obiettivo del sindacato mondiale, quella dei marittimi. Serve un passo avanti globale. Non dimentichiamoci le parole di Papa Francesco, pronto a denunciare quotidianamente l’aumento delle diseguaglianze in Italia, in Europa, in tutto il pianeta. E l’esigenza che si costruisca un sistema universale che dia giustizia ed eguaglianza per tutti. Riflettevo sul fatto che abbiamo fatto la lotta di Liberazione per conquistare, il 25 aprile del 1945, pace, libertà e democrazia. Insieme alla capacità, in meno di diciotto mesi, di approvare la Costituzione repubblicana. Nel giugno 1946 si avviavano infatti i lavori dell’Assemblea costituente, che avrebbe elaborato, discusso e approvato la nostra Carta costituzionale, all’interno della quale sono sanciti i principi che sono stati architrave dello Statuto dei lavoratori. Ma solo nel 1970, grazie alle lotte degli anni sessanta, ci fu l’approvazione dello Statuto, mentre il paese subiva la strategia della tensione con terribili stragi fasciste. Fra il primo gennaio 1948 e il maggio 1970 erano passati ventidue anni. Per arrivare al Sistema sanitario nazionale passarono altri otto anni. Insomma, la messa in pratica dei principi e dei valori contenuti nella Carta costituzionale richiede un impegno straordinario, ancora oggi sono inaccettabili le condizioni di vita e lavoro in certi settori nelle varie realtà, penso all’agricoltura e alle piccolissime aziende. C’è l’esigenza di riuscire a rappresentare un universo di aziende piccole e piccolissime, con lavoratori che hanno difficoltà a trovare rappresentanza ed avere potere contrattuale. Bisogna pensare a una contrattazione di secondo livello che riesca ad affrontare i loro problemi. Lo dico io, che sono nato nel 1932, entrato in fabbrica nel ‘47, e da più di settant’anni avverto questa profonda esigenza di giustizia sociale. Dobbiamo ritrovare un po’ di quello spirito e di quella determinazione delle lotte degli anni sessanta, non è accettabile che ancora non sia all’ordine del giorno in Parlamento la legge di iniziativa popolare per la “Carta dei diritti universali” chiesta da un milione e mezzo di cittadine e cittadini italiani. Il governo non deve limitarsi ad ascoltare le parti sociali, ma confrontarsi, trattare, per avviare un nuovo processo”.
Come vede oggi i rapporti fra il governo Conte e le organizzazioni sindacali? Dopo i due mesi di lockdown si apre una stagione ancora incerta anche sul fronte del lavoro, può essere un’occasione per eliminare piccole e grandi sperequazioni e progettare nuovi modelli produttivi che guardino alla giustizia sociale e all’ambiente?
“Il momento è difficile, non ci sono dubbi. Non solo dal punto di vista sanitario, stiamo parlando di decine di migliaia di morti, ma anche dal punto di vista sociale ed economico. La ripartenza non deve lasciare indietro nessuno, con provvedimenti che assicurino equità e giustizia sociale, con un passo in avanti sul piano della democrazia e della partecipazione. Il governo deve ascoltare, confrontarsi e contrattare con le parti sociali, avviando quello stesso circolo virtuoso che negli anni sessanta avrebbe posto le basi per la discussione e l’approvazione in Parlamento dello Statuto dei lavoratori. Partiamo dall’Italia e passiamo all’Europa, con l’obiettivo di un salto di qualità necessario a livello continentale, e mondiale, sul piano di diritti, equità e giustizia sociale”. l