Lo scontro politico e sociale in atto si articola su tre livelli: le misure che prenderà l’Europa come risposta alla crisi da pandemia; se in Italia pagherà il lavoro o la rendita; se prevarrà il lavoro produttivo, quali saranno i rapporti di forza tra padroni e operai nei luoghi di lavoro.
Mi concentrerò solo sul secondo aspetto. Se non provvederemo a una tassa patrimoniale progressiva sulle grandi rendite finanziarie ed immobiliari, ad una riforma strutturale del fisco con aumento robusto dell’aliquota massima, riduzione delle aliquote minime e introduzione di un numero significativo di aliquote intermedie, lotta all’evasione e soprattutto all’elusione fiscale, non si darà uscita progressista dalla crisi. Se non paga la rendita, pagheranno i lavoratori e le lavoratrici, qualunque siano le scelte europee.
Riportiamo un po’ di cifre prima dell’impatto della pandemia: a fronte di 5 milioni di indigenti, il risparmio gestito cresceva nell’anno trascorso a 2.280 miliardi, i depositi bancari a 1.700 miliardi, la ricchezza sommersa a 210 miliardi, e la ricchezza delle famiglie ammontava a 8,4 volte il reddito. Il risparmio gestito è aumentato nel 2019 del 13,9% sull’anno precedente, ed è quasi pari all’importo dell’intero debito pubblico, che nello stesso mese della rilevazione ammontava a 2.447 miliardi. I depositi bancari erano pari al Prodotto interno lordo. Il reddito complessivo è di 1.200 miliardi, composto da stipendi e pensioni.
Ma l’aspetto che maggiormente colpisce della ricchezza è che si mostra composta soprattutto da immobili, strumenti finanziari, depositi e cash. Un Paese da record, con 10mila miliardi, 8,4 volte il reddito, un multiplo che in Europa non ha eguali: la Germania è a 6,5, e Francia e Gran Bretagna sono a 7,9. Questa mole di ricchezza è concentrata per il 50% nel possesso di immobili. Il Rapporto Oxfam ricorda come le dieci persone più ricche d’Italia posseggano da sole 100 miliardi di ricchezza, e che il 10% più ricco ha aumentato negli ultimi trent’anni la quota di reddito totale al 29%, mentre il 50% più povero l’ha vista diminuire al 24%. Negli ultimi dieci anni 10 punti di Pil sono transitati dalla remunerazione del Lavoro a quella del Capitale.
E’ nell’impoverimento dei lavoratori e delle lavoratrici che va ricercata l’origine di tali fenomeni: i lavoratori poveri sono almeno il 12% della forza lavoro complessiva, e guadagnano meno di 8.200 euro l’anno. E’ proprio il lavoro il buco nero del nostro Paese, come ci ricorda il Bilancio equo e sostenibile del 2019 presentato dall’Istat: il lavoro che manca, il lavoro povero, precario, atomizzato, in competizione in basso, sommerso, misconosciuto nel suo valore e nella sua rappresentanza e centralità politica e sociale.
E’ questa la base materiale di un Paese incattivito e tendente alla solitudine e al rancore, sul quale si abbatte la pandemia e soprattutto la scelta di limitare e penalizzare nei movimenti la sfera individuale e ricreativa e consentire invece, anche senza dispositivi di protezione, l’attività lavorativa spesso anche in settori non essenziali. Carne da macello in fabbrica e reclusi nella vita.
Un quadro purtroppo coerente con la distruzione dell’apparato produttivo del nostro Paese, ridotto ben prima dell’abbattersi del coronavirus di quasi il 25%, senza uno straccio di politiche industriali e di strumenti e presenza pubblica nell’economia per poterle realizzare, sostanzialmente subcommittente del sistema manifatturiero tedesco. Un paese putrescente che si polarizza sulla rendita, sfruttando brutalmente il fattore lavoro, immigrato e autoctono, e vivacchia sulla gestione privatizzata dei monopoli naturali, siano essi autostrade, ciclo idrico integrato e insieme dei beni comuni, dove la sanità privatizzata diviene, assieme al ciclo dei rifiuti, uno dei settori di remunerazione preferiti sia per Confindustria che per la criminalità organizzata.
Ma è il mattone che la fa da padrone nell’alimentare la rendita. Rendita immobiliare e sviluppo manifatturiero di qualità non vanno di pari passo, anzi. La remunerazione della rendita, esente sostanzialmente da rischi, e con un tasso ben maggiore del 3-5% di molte attività manifatturiere, distoglie capitali dagli investimenti produttivi e contribuisce alla desertificazione industriale.
Per fare politiche industriali che non siano dichiarazioni volontaristiche o mozioni degli affetti bisogna colpire la rendita, punto. Con la tassazione patrimoniale a livello nazionale e del sistema delle autonomie locali, con il rilancio dell’edilizia residenziale pubblica, come strumento sia di giustizia sociale che di abbassamento dei canoni di affitto, con la regolamentazione degli affitti turistici, con paletti stringenti su emersione del nero, rispetti contrattuali, tassazione degli operatori. Non bisogna tornare a come eravamo prima, perché è come eravamo prima il problema.