Non possiamo continuare come prima - di Gian Marco Martignoni

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Nell’ultimo ventennio, a partire dalla Sars del 2003, alcune pandemie si sono susseguite a livello mondiale, seppur circoscritte in specifiche aree geografiche. La pandemia del coronavirus sta invece determinando un impatto su tutti i continenti, producendo altresì un’interferenza “imprevista” nella quotidiana dinamica dei bisogni e della produzione. E’ lecito domandarsi perché il dossier “A world at risk”, redatto da una commissione di esperti voluta dall’Oms e dalla Banca mondiale, che prevedeva già a settembre 2019 “la minaccia reale di un agente patogeno respiratorio altamente letale” e quindi la possibilità di una pandemia globale, sia stato ignorato da parte di Stati e organismi sovranazionali.

Come è noto, nel capitalismo globalizzato le ragioni dell’economia prevalgono su quelle della vita, come spiega eloquentemente The Economist con l’editoriale “A grim calculus”. L’approccio spavaldo assunto da Trump e Johnson, che in un primo tempo hanno sostenuto “bisogna lasciar correre il virus” e altre scellerate corbellerie, si è repentinamente convertito in tutt’altre direzioni. In queste nazioni, dove la sanità è privatizzata e dominata dalla perversa logica del mondo delle assicurazioni, stiamo vedendo quali conseguenze si determinano sul piano della mortalità di quelle popolazioni. Le immagini che ci arrivano da New York delle fosse comuni delle vittime dell’epidemia descrivono inesorabilmente cosa produce l’acuirsi vertiginoso delle diseguaglianze negli Usa.

In Europa il nostro paese è stato il primo, per via delle interconnessioni determinate dalla globalizzazione economica e dalle catene del valore organizzate dalle multinazionali, ad essere colpito dal virus, con l’epicentro in Lombardia. L’emergenza o catastrofe sanitaria in corso ha due spiegazioni tra loro concatenate. Dal 2010 al 2016 sono stati cancellati 70mila posti letto, chiuse 175 unità ospedaliere, ridotte le Asl da 642 a 101 nel 2017 sulla base dell’aziendalizzazione del comparto sanitario, ovvero di quella mercificazione del bene indisponibile della salute, sancito dall’articolo 32 della nostra Costituzione, stante la brutale applicazione delle direttive imposte dal pensiero neoliberista.

In Lombardia inoltre le conseguenze dello pseudo-federalismo sanitario, introdotto con la riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, hanno prodotto, complice il sodalizio criminoso finalizzato a distrarre risorse finanziarie per intascare illeciti proventi con a capo Roberto Formigoni, l’accreditamento del privato in sostituzione del pubblico. Con tutte le drammatiche e letali conseguenze di cui siamo tristemente spettatori. Il comunicato del 6 aprile dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri mette una pietra tombale sul cosiddetto modello lombardo della sanità, poiché evidenzia come “la sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate a livello regionale”.

Con buona pace dei populisti, fautori della devastante ipotesi dell’autonomia differenziata, la tragica esperienza della frammentazione regionale del Servizio sanitario può rilanciare un percorso virtuoso che riassegna allo Stato centrale le competenze in materia di sanità, invertendo la tendenza storica al definanziamento della spesa. Che poi siano venuti nel nostro paese, e in particolare in Lombardia, medici ed infermieri cubani, russi, albanesi, cinesi, la dice lunga sulla demagogia dello slogan “prima gli italiani”. A fronte di eventi globali servono risposte corali, improntate alla solidarietà tra le persone e i popoli.

Infine, in attesa del vaccino, si deve riflettere senza reticenze sul perché si sviluppano, e si teme si svilupperanno ancora, pandemie di questa portata devastante. La deforestazione galoppante, gli allevamenti industriali, l’urbanizzazione selvaggia e la distruzione degli ecosistemi, prodotti della ricerca di uno smisurato profitto da parte delle multinazionali di ogni settore, sono tra le cause scatenanti di questi eventi morbosi, con cui dovremo convivere nei prossimi decenni anche in ragione del surriscaldamento climatico.

Addirittura nell’ormai lontano 1972 il Club di Roma, sotto la guida di Aurelio Peccei, aveva stilato “Il rapporto sui limiti dello sviluppo”, indicando le conseguenze a cui l’umanità sarebbe andata incontro, dato un certo modello di produzione e uno sfrenato e insensato consumismo. A distanza di quasi cinquant’anni è davvero significativa la discesa in campo del movimento Friday for Future, perché, con mobilitazioni in ogni continente, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale queste tematiche, nodali per il nostro futuro.

Il dopo coronavirus, oltre ai problemi economici e occupazionali che si dovranno certamente affrontare con doverosa urgenza, impone, in un mondo segnato dal susseguirsi degli “eventi estremi” e dal fallimento della retorica dell’autoregolazione del mercato, un globale ripensamento dei modi di produzione, di consumo e di vita dell’intero pianeta, a partire dall’Occidente.

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