Per dare un’idea del peso specifico di Altran, ancor più del fatturato 2018 di quasi 3 miliardi di euro, valgono le notizie degli ultimi giorni: in pieno lockdown è stata interamente acquistata dalla multinazionale francese Capgemini. Mentre tutto il mondo fa i conti con il coronavirus, questa società di consulenza specializzata in innovazione tecnologica ed ingegneristica, nata nel 1982 a Parigi, ‘cambia look’. “Ironia della sorte, insieme all’accordo sulla cassa integrazione ci è arrivata la richiesta di cambiare le firme elettroniche, aggiornandole con la nuova denominazione dell’azienda - racconta Mario Adinolfi - il nome Altran è rimasto, perché è un brand di tutto rispetto, ma accanto campeggiano i nuovi proprietari, Capgemini”.
Il calo anche vistoso delle Borse, in un mercato sempre più simile a un luna park, ha accelerato un accorpamento che comunque era nelle cose. Ma perché la cassa integrazione in un’azienda che produce utili, inglobata da una seconda ancora più florida? Quarantasei anni, di cui venti passati nella sede Altran di Torino, Adinolfi ha i titoli giusti per rispondere: “Speriamo sia nulla di troppo preoccupante, la chiusura delle attività produttive provocata dal virus si è inevitabilmente riflessa sulle nostre commesse. Si tratta di lavoro che tornerà quando questa fase emergenziale sarà finita”. Del resto stiamo parlando di colossi: 50mila dipendenti per Altran e ben 250mila per Capgemini, sparsi ai quattro angoli del pianeta.
Settore particolarmente avanzato quello dell’information technology, pioniere fra le tante di quello smart working ora sulla bocca di tutti. Il ‘lavoro agile’, che Adinolfi sta svolgendo assieme al 95% dei suoi colleghi. “Continuano a spostarsi solo gli addetti che devono occuparsi dei server centrali. Certo, anche prima delle chiusure, l’azienda aveva già avviato per gran parte di noi lo smart working”. Catapultati in un mondo in cui il proprio ufficio è diventato lo studio di casa, oppure il tinello. Si lavora da remoto, interconnessi per sette, otto ore al giorno.
Altran ha commesse di ogni tipo, dalle banche al trasporto ferroviario, passando per i grandi agglomerati industriali dell’auto. La rete può ormai permettere collegamenti a 360 gradi. “Io ad esempio - spiega Adinolfi - gestisco la posta elettronica dei colleghi, gli accessi, le abilitazioni. Se qualcuno ha bisogno di recuperare dati o informazioni andate perdute, sono in grado di soccorrerlo”.
Come conciliare lo smart working con quella pur minima, elementare socialità che si instaura in ogni luogo di lavoro? Adinolfi sospira, e non certo perché si sente sollevato. Lui, delegato sindacale della Filcams Cgil, sa bene che l’atomizzazione allenta la capacità di costruire relazioni. Non per caso appena tre mesi fa era volato a Palermo per parlare di persona con i colleghi siciliani. “Un conto è guardarsi negli occhi, ben altro sullo schermo di un computer. In un’azienda di informatica ingegneristica il rischio di chiudersi in se stessi sussiste già quando sei in un ufficio ‘comune’, figuriamoci quando lavori in solitudine”.
Va da sé poi che una pratica del genere permette all’azienda di risparmiare su tutta una serie di costi abitualmente fissi, dalle pulizie alla mensa, per finire con la gestione degli uffici, corrente elettrica, materiale di lavoro che non sia il computer. “I buoni pasto però li hanno lasciati”, precisa Adinolfi riflettendo sulle difficoltà di colleghi con famiglie numerose, non di rado in case troppo piccole per poter vivere e lavorare bene.
Le sedi italiane più importanti di Altran sono a Torino, Milano e Roma, ma i 3.500 addetti sono dislocati lungo tutta la penisola, da Genova a Trieste, scendendo a Bologna, Pisa, Firenze, Napoli, Bari, Palermo. “Ora come ora materialmente in sede ci saranno non più di 30 persone. La cassa integrazione è iniziata il 6 aprile e riguarda la metà dei dipendenti, dovrebbe durare circa tre mesi. Chi faceva consulenze nelle regioni più colpite dal coronavirus è attualmente fermo. Fra le tante attività che svolgiamo, c’è quella di testare le centraline elettroniche delle automobili, e per questo mercato sono mesi di autentica sofferenza”.
Adinolfi si considera ormai uno dei vecchi dell’azienda: “Sono entrato il 2 maggio del 2000, lavoravo per una delle tante società che via via sono state inglobate dal gruppo. Ogni tanto scherziamo riflettendo su quanto sia veloce l’innovazione tecnologica, ricordo di aver lavorato anche il primo capodanno dopo il mio matrimonio alla fine del 1999, quando erano tutti terrorizzati dal cosiddetto millennium bug. Il film Matrix sembrava fantascienza, a riguardarlo ora ci scappa una risata”.
Il 9 marzo, primo giorno di lockdown nazionale Adinolfi si è ritrovato a lavorare a stretto contatto con i figli impegnati a seguire le lezioni scolastiche a distanza. “Buttiamola sul ridere, a tavola non ci chiediamo più come è andato il lavoro, come è andata la scuola”.