Un anno fa in occasione del World Economic Forum, con centinaia di organizzazioni della società civile in tutta Europa, abbiamo lanciato la campagna “Diritti per le persone, regole per le multinazionali” (https://stop-ttip-italia.net/diritti-per-le-persone-regole-per-le-multinazionali/) - una raccolta firme europea e centinaia di azioni dimostrative in tutta Europa con epicentro Davos – per far emergere la condizione di impunità in cui operano le grandi imprese, capaci di sfuggire a numerose accuse di violazioni dei diritti umani e dell’ambiente, scaricandole su aziende controllate o società satellite.
Abbiamo chiesto con forza l’abolizione dei meccanismi di arbitrato internazionale a difesa degli investitori contro le decisioni degli Stati (Isds, che sta per Investor to State Dispute Settlement), in base ai quali le imprese oggi possono citare in giudizio - utilizzando simil-tribunali sovranazionali e non trasparenti - gli Stati che mettono in atto politiche considerate lesive dei loro investimenti. Queste clausole, contenute in circa 3mila trattati di liberalizzazione degli scambi o degli investimenti (https://investmentpolicy.unctad.org/international-investment-agreements), hanno consentito al settore privato, negli ultimi 20-30 anni, di contestare con successo numerose misure volte alla tutela ambientale, della salute o del lavoro, riuscendo spesso a indebolirle, farle ritirare o a ottenere lucrose compensazioni a danno dei contribuenti.
Esattamente un anno dopo, come Campagna Stop Ttip/Ceta Italia, con il sostegno delle organizzazioni Fairwatch, Terra e Cospe, abbiamo condotto un aggiornamento di questo terribile proliferare, e abbiamo scoperto che nel 2020 il numero delle cause intentate grazie a queste clausole supererà la soglia psicologica dei mille procedimenti.
Nel nuovo report “Processo al futuro” (http://stop-ttip-italia.net/wp-content/uploads/2020/01/Processo-al-futuro_GEN2020.pdf) raccontiamo che, dal momento che molte dispute non vengono rese pubbliche, è possibile che questo traguardo sia già stato superato. Gli ultimi dati disponibili elencano 983 cause, di cui 322 ancora in attesa di sentenza. Delle 677 passate in giudicato, ben 430 hanno visto un successo totale o parziale delle aziende (191 risolte in favore dell’investitore, 139 chiuse con un patteggiamento), 230 hanno scagionato lo Stato, 73 sono state sospese e 14 chiuse senza l’attribuzione di un risarcimento.
Nella gran parte dei casi, il paese denunciato (l’Isds è un sistema a senso unico, in base al quale uno Stato può solo comparire come imputato, mai nelle vesti dell’accusa) ha pagato almeno le spese legali, che mediamente ammontano a 8 milioni di euro ma possono lievitare fino a trenta.
Anche l’Italia è sotto attacco: a maggio 2017 la società petrolifera britannica Rockhopper ha intentato una causa contro l’Italia (https://investmentpolicy.unctad.org/investment-dispute-settlement/cases/800/rockhopper-v-italy), dopo il rifiuto del nostro Stato, nel 2016, di concedere al celebre progetto Ombrina Mare la concessione per estrarre petrolio nell’Adriatico abruzzese entro le 12 miglia marine. Il no dell’allora governo Renzi, ratificato dal Parlamento con la legge di stabilità, arrivava per disinnescare il referendum che si sarebbe tenuto in primavera.
La Rockhopper ha deciso di utilizzare la clausola Isds contenuta nel Trattato sulla Carta dell’Energia per chiedere i danni all’Italia. L’amministratore delegato della società, Sam Moody, ha detto pubblicamente che potrebbe ottenere fino a 350 milioni di dollari. Di questi, circa 50 milioni sarebbero stati effettivamente investiti, ma gli altri 300 consisterebbero in profitti attesi, andati in fumo con il divieto di nuove autorizzazioni e nonostante l’Italia abbia receduto dal Trattato oltre un anno prima della presentazione della causa.
Mentre l’Italia e l’Unione europea si trovano a dover fronteggiare gli effetti del cambiamento climatico, che mettono in discussione la nostra vita quotidiana ma anche gli assetti produttivi del nostro paese provocando interruzione di vie di trasporto, roghi in aree produttive e devastazione di interi territori, le grandi imprese più inquinatrici – dall’energia all’agrobusiness - remano contro, usando i tribunali arbitrali come clava per bloccare o rallentare l’azione per il clima.
La nostra indagine dimostra che gli accordi commerciali promossi dalle stesse Italia e Unione europea, che continuano a contenere meccanismi come questi, proteggono gli interessi di queste imprese scaricando sui fondi pubblici come quelli del Green New Deal europeo i costi dell’adattamento ai cambiamenti climatici da loro alimentati. Dobbiamo chiedere insieme all’Italia e all’Ue coerenza e maggiore rigore per impedire questo scempio.