Passato il periodo più intenso delle grandi proteste in Cile, terminate con la richiesta da parte dei manifestanti di un’assemblea costituente, rimane la situazione di un paese che ha dimostrato, con una mobilitazione senza precedenti, di essere stufo di vivere ancora ostaggio dei militari e della Costituzione da loro promulgata.
La crisi politica e sociale che ha travolto il Cile è stata una vera e propria sorpresa, per la classe politica ed economica dello Stato andino e per il mondo intero, tutti incapaci di comprendere il disagio della popolazione. È entrato definitivamente in crisi il patto sociale messo in atto nel 1990, alla fine della dittatura, in realtà mai attuato.
La protesta nasce il 18 ottobre quando migliaia di manifestanti mettono a ferro e fuoco Santiago e altre città del paese. La rivolta si fece via via più pacifica e sempre più numerosa, coinvolgendo centinaia di migliaia di giovani e donne. Sotto scacco era ed è un modello economico liberista che fa pagare ai cittadini la sanità e l’istruzione. E la ribellione in atto può essere considerata il più grande tentativo, a trent’anni dalla fine della dittatura, di ricostituire un tessuto sociale disgregato che i tanti governi di centro-sinistra non avevano animato.
Il modello cileno era riuscito a reggere grazie al labile equilibrio instaurato tra le prevalenti forze di mercato e i pochi beni pubblici. Ma i primi segnali di insofferenza si erano già visti nel 2006, quando una mobilitazione, sia pure meno evidente dell’attuale, aveva iniziato a scuotere dalle fondamenta il liberismo cileno. Né va dimenticata l’irrisolta questione indigena dei Mapuche, sfiduciati al punto da far gridare nel 2011 al loro rappresentante Lonko Juana Calfunao in un intervento all’incontro tra i popoli indigeni e il Congresso nazionale: “Non siamo venuti qui per chiedere ai deputati e ai senatori di legiferare per noi, siamo venuti a chiedere che non legiferino più e che non parlino più per noi, da ora in poi parleremo per noi stessi”.
Con tutti questi problemi irrisolti è difficile fare una previsione su cosa potrà accadere nei prossimi mesi, almeno fino alla fine del mandato, nel 2022, dell’attuale presidente di destra Sebastian Piñera. Il quale nel frattempo ha promesso delle risorse che vanno timidamente nella direzione chiesta dai manifestanti, e un referendum da tenersi il prossimo 26 aprile sulla necessità o meno di realizzare la riforma di una Costituzione eredità della dittatura.
Il cammino per uscire dalla crisi è ancora lungo e tortuoso. Se, come prevedibile, vinceranno i “Sì” si andrà incontro a lunghi mesi di lavori costituenti, e la nuova Carta costituzionale dovrà essere approvata dai 2/3 del Parlamento. Inoltre, il risultato di questi lavori istituzionali dovrà essere sottoposto a un nuovo referendum. Vista la complessità del percorso istituzionale, i ritardi saranno non solo possibili, ma potremmo dire certi. E il Cile di oggi, desideroso di cambiamenti radicali, non può permetterseli. Senza dimenticare le divisioni tra i diversi partiti politici e gli ostacoli presenti nell’attuale Costituzione, realizzata dai militari proprio per evitare o rendere difficili eventuali cambiamenti.
Nuove rivolte insomma sono dietro l’angolo, soprattutto se alle lunghe riforme costituzionali non farà seguito l’introduzione di un welfare ora inesistente. Solo chi se lo può permettere ha accesso alla sanità e all’istruzione a pagamento, e a un sistema pensionistico privato. Costretto dalle proteste il capo dello Stato ha annunciato alcune riforme. Tra queste l’aumento del salario minimo, con lo Stato che si occuperà di integrazioni per chi sta sotto la soglia dei 430 euro; l’aumento del 20% delle pensioni minime; la creazione di un sistema per rendere più stabile il prezzo di forniture primarie come quella elettrica. E un meccanismo di redistribuzione delle entrate tra le municipalità, per fare in modo che quelle con più gettito intervengano in aiuto di quelle più deboli.
Il problema - come segnalato dalla professoressa Mori dell’Università Bocconi di Milano - è che, in un paese fortemente diseguale, andrebbe rivisto completamente un sistema di tassazione che oggi favorisce le imprese e i ceti più abbienti. Uno scenario che ha limitato drasticamente la redistribuzione delle risorse in un contesto di crescita continua dell’economia. Con maggiori entrate fiscali nelle casse dello Stato sarebbe possibile avviare un percorso per finanziare lo stato sociale. Se questo non dovesse avvenire, o verificarsi in modo molto timido, è molto probabile che i cileni e le cilene torneranno in piazza. E se è vero che i governi di centro-sinistra hanno fallito nell’obiettivo di riformare profondamente il paese, pensare che possa farlo un uomo che ha lavorato con Pinochet e che ha introdotto le politiche liberiste di Milton Friedman e dei Chicago Boys appare improbabile.