Il primo novembre a Roma la manifestazione nazionale a difesa del Rojava, aggredito da Erdogan.
La Conferenza internazionale di Roma, in Parlamento e poi nel cinema Palladium gremito da oltre 600 persone, tra cui moltissimi giovani, ha voluto lanciare un messaggio all’Europa e al mondo. Roma non è scelta casuale: fu sede nel 1998 di un esilio di 65 giorni del presidente Ocalan, dove la speranza dell’asilo politico venne frustrata dall’allora governo D’Alema, e da dove è cominciato il suo viaggio verso la cattura e la dura prigionia che continua ancora oggi.
Il messaggio, articolato in tre giorni di interventi di docenti, attivisti/e, avvocati/e, giornalisti/e, politici/che, dice che l’obiettivo della lotta curda, bollata dalla Turchia come terrorismo, è pace e democrazia. Per questo sono stati in prima fila a combattere e sconfiggere il sedicente stato islamico due anni fa. Si parla di “confederalismo democratico, municipalismo e democrazia globale – visioni e strategie dal Kurdistan”. Ovvero come realizzare una coesistenza plurale tra popolazioni locali molto diverse: curdi, arabi, yazidi, turcomanni, ceceni, cristiani, musulmani.
È un messaggio al mondo che si oppone alla vigliaccheria e arroganza statunitense e alla violenza armata della Turchia. Ascoltiamo parole di grande determinazione nel prospettare una strategia e un modello di società alternative globali, in una situazione in cui, dopo otto anni dall’avvento delle rivoluzioni arabe e dall’inizio della guerra civile in Siria, si sono modificati equilibri ed alleanze ed è stata bloccata l’avanzata di Daesh.
La conferenza è stata istruttiva ed emozionante. Come in una situazione di terza guerra mondiale (termine spesso utilizzato) viene sviluppato un progetto sociale e politico basato sulla partecipazione attiva e la coesistenza di popolazioni diverse, è un fatto straordinario, in tempi di nazionalismi e regressione della democrazia. Una proposta che vuole superare il modello, in crisi, di “stato nazione”, chiamando al confronto esperienze a livello locale e globale: Colombia, Filippine, Brasile (Sem Terra), Catalogna, Paesi Baschi, Messico, mentre viene raccontata, tra gli altri da Leyla Imret, ex sindaca di Cizre, la sospensione, da parte del sultano Erdogan, di decine di sindaci curdi.
Protagoniste indiscusse le donne: sindache, docenti, filosofe, comandanti militari, come Debr Issa, delle Unità Ypj, di autodifesa e protezione delle donne, protagonista due anni fa della liberazione di Raqqa, roccaforte di Daesh. Da Haskar Kirmizgul veniamo a conoscere il pensiero radicale che le sostiene: Jineolojî. “La scienza delle donne e della vita libera”, come indica il termine stesso, composto dalla parola curda Jin, che significa “donna”, e da logos, in greco, che vuol dire “ragione”, “discorso” in senso più ampio anche “scienza”. Una nuova scienza, che critica la connessione esistente tra egemonia, oppressione e scienza. Critica l’egemonia dell’uomo nella storia. “Ma la storia – history/HERstory – della donna si è sempre cercato di nasconderla e distruggerla”. “Una scienza che si sviluppa intorno alle donne è il primo passo verso una vera sociologia” dice il presidente Ocalan, da tutte e tutti riconosciuto come leader politico e intellettuale indiscusso.
Il movimento delle donne curde è ricco e plurale. Le loro divise mimetiche non ingannino: mai sentito soldati più antimilitaristi di loro, più rivolte alla protezione della popolazione che alla distruzione del nemico, usando corpi e vite come strumenti di resistenza. Sono loro che hanno fatto la rivoluzione, sociale, politica, ambientale nel Rojava.
Di economia ecologica parlano Ahmad Yousef (presidente dell’Afrin University), Ercan Ayboga, attivista ambientale. Mentre un giornalista, Ferda Cetin, spiega bene la strategia su cui questa rivoluzione appoggia, evocando il pensiero del presidente Ocalan, con la sua insistenza sul legame tra locale, regionale e globale.
Dunque la conclusione della Conferenza si può riassumere così: dalla critica del presente nasce la prospettiva di una utopia concreta. Non sarà possibile realizzarla senza la costruzione di un nuovo internazionalismo del XXI secolo.
Solo tre giorni dopo la conclusione della Conferenza internazionale, promossa a Roma dai curdi (4-6 ottobre), la Turchia ha sferrato un attacco contro di loro nel nord est della Siria, dopo l’annuncio di Donald Trump smentito, poi confermato, del ritiro delle truppe degli Stati Uniti dalla Siria. La notizia, sorprendente per modalità e contraddittorietà, non lo è stata nel contenuto e nei suoi effetti pratici. Da tempo si sapeva che gli Usa intendevano disinteressarsi dell’area e della ricostruzione del paese. E anche lo sbandierato “cessate il fuoco” Trump-Erdogan si sta rivelando un imbroglio ai danni di questo popolo coraggioso.