Condensare in un breve articolo la lunga vita di Guillermo Almeyra Casares, morto a Marsiglia lo scorso 22 settembre, è una impresa impossibile. Quando verrà finalmente tradotto in italiano il suo libro autobiografico di militante e intellettuale marxista, sarà possibile cogliere la densità di una esistenza vissuta per la causa del socialismo e dei lavoratori.
Argentino, nato nel 1928 come Ernesto Guevara, frequenta insieme a quello che sarebbe diventato “el Che”, l’università di Buenos Aires. Internazionalista quasi nel senso fisico del termine, avendo abitato in quattro continenti passando dalla sua Argentina al Brasile, poi al Perù, all’Italia e la Francia, allo Yemen del Sud e al “suo” Messico. Militò in partiti politici di sei paesi (tra i quali in Italia, prima Democrazia proletaria, poi Rifondazione comunista), fondò riviste politiche in sei nazioni, e per la sua attività rivoluzionaria venne espulso più volte e costretto ad andare altrove. Si definiva “copernicano, newtoniano, darwinista, marxista, leninista, trotskista, però in forma laica e senza rinunciare alla critica nei confronti degli errori dei maestri”.
Accademico e docente nelle principali facoltà di Città del Messico, è stato uno dei primi intellettuali a individuare il potenziale dirompente dell’insurrezione indigena zapatista del primo gennaio del 1994 in Chiapas. Dalle colonne de “la Jornada” - il giornale edito a città del Messico e laboratorio della variegata e ricca sinistra latinoamericana – ha continuato fin dal suo letto di ospedale ad analizzare il mondo contemporaneo, proponendo sovente una lettura rigorosa e scomoda.Non faceva sconti per i cedimenti delle organizzazioni del movimento operaio e della rinuncia di tanta sinistra a proporre una vera alternativa di società. In questo Guillermo era un intellettuale scomodo, non solo per i governi, a cominciare da quello argentino e messicano che lo costrinsero all’esilio più volte, ma anche per i dirigenti dei partiti operai e marxisti nel quale ha militato. “Militante critico della sinistra”, lo ha definito “la Jornada”, ricordandone il profilo costante nelle sue diverse fasi storiche di esploratore di nuove strade per l’idea socialista, che per lui rimaneva ancorata rigorosamente alla classe di cui si sentiva parte.
Penna tagliente, era difficile distinguere il campo del mestiere di giornalista con quello del militante politico. Lascia nei suoi scritti – alcuni dei quali tradotti in italiano - oltre che un testamento politico, una lunga marcia nelle speranze del movimento operaio dalla seconda guerra mondiale ai giorni d’oggi.
Di lui mi piace ricordare, per esempio, come l’approdo all’ecologismo – si definiva orgogliosamente eco-socialista – dati fin dai primi anni settanta, avendo studiato a lungo il punto di vista dei popoli indigeni, la “modernità” del loro attaccamento alla madre Terra, e l’incompatibilità in prospettiva della vita stessa del pianeta con il capitalismo contemporaneo. Attento ai fermenti del mondo cattolico legati alla teologia della liberazione, lui, ateo convinto, era il primo ad elogiare il messaggio rivoluzionario del Vangelo predicato in Chiapas dal vescovo degli indigeni, don Samuel Ruiz. Il suo ultimo pensiero è stato per i lavoratori e le lavoratrici del Messico, ribadendo la convinzione che solo la lotta può rovesciare un mondo ingiusto e costruirne uno migliore.