Ai primi di ottobre l’Ecuador è stato teatro di una mobilitazione senza precedenti, che ha portato migliaia di persone, in gran parte indigeni, a Quito e nel resto del paese. La risposta del governo è stata la dichiarazione dello stato di emergenza e una dura repressione. Causa scatenante della rivolta, durata dieci giorni prima di essere sospesa all’apertura di un tavolo di trattativa tra indigeni ed il presidente Moreno, il decreto annunciato da quest’ultimo che avrebbe portato alla rimozione dei sussidi sui carburanti (i cui prezzi sarebbero aumentati di una media del 123%), il licenziamento di 10mila dipendenti del pubblico impiego, il taglio drastico dei loro giorni di ferie, la destinazione di un mese di stipendio al risanamento del debito.
Erano condizioni imposte dal Fondo monetario internazionale per la concessione di un prestito necessario per assicurare liquidità, ormai scarsa vista la riduzione delle entrate derivanti da petrolio e gettito fiscale. Ne avrebbero fatto le spese le classi più povere del paese, gli indigeni che vivono nelle zone urbane, i contadini che avrebbero visto aumentare il costo del diesel e quindi il prezzo dei loro prodotti, con conseguente aumento del costo della vita.
Iniziarono a mobilitarsi i trasportatori che paralizzarono il paese fin quando non raggiunsero un accordo per la riduzione degli aumenti dei prezzi dei biglietti di bus. Poi vennero gli indigeni e gli studenti, le donne e i contadini, che affluirono a Quito per prendere d’assedio i palazzi del governo, intanto fuggito a Guayaquil mentre la protesta si diffondeva a macchia d’olio in tutto il paese, con la Conaie (Confederazione dei Popoli Indigeni dell’Ecuador) in testa. Di fronte alla violenza della polizia, e grazie alla mediazione della chiesa e delle Nazioni Unite, si è poi raggiunto un accordo per rivedere il decreto, mentre il presidente Moreno, nel tentativo di rompere il fronte consolidato tra sindacati e indigeni, ha deciso di non presentarsi al tavolo con i primi, che a loro volta hanno annunciato una nuova mobilitazione nazionale il 30 ottobre.
Nei giorni seguenti all’apertura del tavolo di trattativa, il governo non ha però dimostrato alcuna determinazione nel rivedere alla base il decreto, mentre nel frattempo si lanciava in una campagna di criminalizzazione dei leader della protesta. La prospettiva di un nuovo “levantamento” resta quindi aperta. Non è la prima volta che gli indigeni scendono nella capitale e si sollevano fino a provocare la caduta di presidenti, come nel 1999 con Jamil Mahuad. Stavolta la loro agenda non contemplava questa ipotesi, non volendo correre il rischio di un ritorno delle destre o dell’ex presidente Rafael Correa, reo di averli criminalizzati e repressi duramente nel corso degli ultimi anni di mandato.
Le giornate di Quito resteranno nella storia del paese, per la violenza della repressione e per la determinazione di chi è sceso in piazza. Hanno svelato un lato oscuro, quello del razzismo verso gli indigeni considerati dalle classi urbane più agiate, e anche da settori della sinistra più ideologica, come incapaci, immaturi, facilmente manipolabili a scopi politici, o indegni di sfilare nelle strade. La stampa nazionale non è stata da meno, oscurando le proteste e trattandole come un cancro da estirpare, gli indigeni come dei parassiti, un’infezione da combattere ed espellere. Dall’altra parte, invece, la grande solidarietà degli esclusi in tutto il paese, quelli di oggi e quelli di ieri, che hanno visto nella mobilitazione indigena la loro mobilitazione per dignità e giustizia.
Oggi il movimento indigeno, che come in Brasile riesce a portare al cuore della “polis” le sue rivendicazioni, esce rafforzato e con nuove leadership, fortemente connesso e in empatia con la gran maggioranza della popolazione più povera del paese. Sconfitti Moreno e la destra di ispirazione liberista e lo stesso Fmi, mentre si riducono le chance di Rafael Correa e dei suoi di ritornare al timone del paese.
Fra due anni si svolgeranno le elezioni presidenziali e tutto può accadere: o il ritorno della destra che tutti sembrano ormai ritenere ineluttabile, o il rafforzamento di un fronte popolare, indigeno e contadino, che apra una crepa importante tra le due narrazioni dominanti in America Latina. Quella neoliberista, e quella del socialismo del XXI secolo o dell’estrattivismo progressista, ambedue contestate alla radice da una pluralità di soggetti sociali e politici che si sono incontrati per le strade e le piazze del paese, costruendo “comune”, resistendo, e offrendo al paese e al continente un’utopia possibile e concreta.