La situazione economica e sociale ci obbliga ad alzare lo sguardo oltre i confini, ad aggiornare le nostre analisi su tendenze globali, assetto geopolitico, rapporti di forza fra le tre superpotenze in lotta per il dominio su risorse e mercati. Una guerra, non solo economica, che produce effetti nefasti, con nazionalismi pericolosi quanto illusori.
Da oltre dieci anni la crisi del capitalismo investe il lavoro, gli aspetti economici, ambientali e climatici, con la concentrazione della ricchezza e del comando nella finanza e nelle multinazionali. Il capitale, spostandosi a convenienza globale, cannibalizza l’economia e produce precarietà e impoverimento del lavoro, piegando a proprio vantaggio la possibilità di ridurre il lavoro necessario a produrre e distribuire merci. Si sono ridotte le ore lavorate con disoccupazione, flessibilizzazione, prolungamento dell’età pensionabile e sfruttamento dei singoli lavoratori, dilatando nel tempo di vita la prestazione lavorativa con orari più lunghi, lavoro festivo, controllo e prestazioni a distanza, utilizzando le nuove tecnologie, mai neutre. E’ il moderno scontro tra capitale e lavoro.
In questo quadro, abbiamo bisogno di un’Europa sociale e dei popoli. Ma siamo di fronte alla possibile frantumazione di un’Europa finanziaria, liberista e senz’anima; sensibile solo al mercato, spietata nei confronti della Grecia, sprezzante dei principi della Carta dei diritti dell’uomo.
Un’Europa rigorosa su deficit e Pil, ma cinicamente disumana davanti ad oltre trentamila esseri umani che giacciono in fondo al mar Mediterraneo. Tollerante verso i gruppi neonazisti e le deviazioni antidemocratiche dei governi ungherese e polacco, alleati di Salvini, ma altrettanto rigoristi verso l’Italia. Un’Europa che non vuole affrontare i fenomeni migratori con politiche strutturali.
Una deriva che coinvolge l’Italia, attraversata dal vento della destra xenofoba e razzista, alimentato da un governo, il cui ministro dell’Interno fa leva sulle peggiori pulsioni, alla ricerca di facile consenso. Questo significano la chiusura dei porti, le accuse alle ong, le campagne di odio contro migranti, nomadi e poveri, e la logica securitaria del decreto Salvini, in continuità con la Bossi Fini ma anche, purtroppo, con la legge Orlando-Minniti. Se la destra oggi rischia di avere l’egemonia, in senso gramsciano, è per responsabilità di una sinistra che, nel suo complesso, ha perso anima e identità, a partire dal riferimento al mondo del lavoro.
Non ci rassegniamo a questa barbarie. Dobbiamo contrastare con forza un governo socialmente pericoloso, che ha un consenso trasversale di massa, anche tra parte dei nostri iscritti. Per questo è importante che il congresso rafforzi l’attuale linea di una Cgil autonoma, unita, plurale, sempre più capace di riunificare il mondo del lavoro.
“L’Europa di fronte alle tragedie del Mediterraneo continua a non reagire, offrendo così il fianco al governo gallo-verde per proseguire nella sua campagna contro migranti e istituzioni europee” Scrive così ‘il manifesto’, in un ordinaria giornata di drammi e autentiche tragedie, nel braccio di mare che ha permesso 2.500 anni fa di gettare i semi della nostra civiltà. Oggi invece, e la fotografia del quotidiano comunista è nitida, osserviamo da vicino una di quelle guerre a bassa intensità che, non di rado, durano anni. E provocano invariabilmente “effetti collaterali”, tanto dolorosi in vite umane quanto politicamente ingestibili. Si dirà che non solo la maggioranza della popolazione italiana, ma anche di quella dell’Unione europea, condivide la strategia d’azione degli attuali governanti. Certo però fanno pensare le notizie delle imbarcazioni cariche di migranti che vengono lasciate “a bagnomaria” per giorni in mezzo al Mediterraneo, solo perché i governi nazionali interessati, anche della stessa famiglia politica continentale, si rimpallano la, doverosa, responsabilità della prima accoglienza.
Alla miseria della politica si accompagna la miseria della magistratura. Non altrimenti è possibile valutare la notizia del sequestro della nave Aquarius, finita alla fonda nel porto di Marsiglia. L’accusa mossa a Medici senza frontiere, ong con progetti umanitari in 70 paesi e 30mila operatori, è quella di avere smaltito come normali rifiuti solidi urbani materiali pericolosi e infettivi come gli abiti dei migranti soccorsi in mezzo al Mediterraneo, i resti del cibo, e quelli dei kit sanitari utilizzati per le prime cure a bordo delle navi umanitarie. Non siamo su Scherzi a parte, è tutto vero. Con la pubblica accusa che quantifica in mezzo milione di euro i “proventi” del reato.
Una marea di donne e uomini alla manifestazione nazionale del 24 novembre a Roma. Al grido di “Ci volete sottomesse, ricattate e sfruttate, ci avrete ribelli!”
Dall’inizio dell’anno decine di donne sono state uccise in Italia per mano maschile. Un terzo delle donne italiane, straniere e migranti, subisce violenza fisica, psicologica, sessuale ed economica, spesso in ambito familiare e davanti ai figli. I numeri ci dicono che le “mura domestiche”, che dovrebbero conservare affetti, proteggere sentimenti, dare concretezze alle idee condivise e conforto vicendevole, nel nostro paese uccidono più della mafia, più della delinquenza organizzata, e se non uccidono lasciano danni incancellabili.
I mostri sono nutriti da relazioni sbagliate che trasformano la vita quotidiana in un campo di battaglia; l’umanità è stata svenduta senza che ce ne accorgessimo, e si vive come fossero normali le tragedie che si susseguono, una dopo l’altra, in una silenziosa complicità dietro ogni delitto.
Ai soprusi che arrivano alle cronache ne possiamo aggiungere numerosi altri di cui nessuno parla, una vita di ordinarie barbarie nascoste nelle camere da letto, con il silenzio complice della porta accanto. C’è anche tutto il tema della violenza sulle donne anziane, doppiamente fragili per età e per genere; gli abusi nei loro confronti sono in costante e preoccupante crescita, ma restano un fenomeno sottostimato e poco conosciuto.
La violenza maschile sulle donne è la fotografia del possesso di cui la nostra società è malata, e continua ad essere esercitata nell’indifferenza generale della politica e nella tolleranza collettiva, culturale e sociale. Anche le giustificazioni sono un retaggio della nostra storia patriarcale, che considerava normali molti abusi e violenze sulle donne fino a pochi decenni fa.
Oggi possiamo votare, ci sono riconosciuti diritti umani al pari degli uomini, abbiamo convenzioni importanti che ci tutelano, godiamo di maggiori libertà, ma le crisi possono riportare indietro le lancette della recente storia femminile, non esistono “deleghe” o “tutele” che possano garantirci da ritorni al passato e da tentativi di restaurazione. Nessuna conquista è per sempre.
L’attacco alle donne passa anche attraverso campagne fondamentaliste e mozioni comunali che vorrebbero criminalizzare la legge 194, limitando l’autodeterminazione delle donne e giudicando moralmente le loro scelte e la loro vita privata. Anche il Ddl Pillon, di cui si è chiesto il ritiro con le manifestazioni del 10 novembre indette da DI.RE, è contro le donne, perché sessista e classista su affido e mantenimento dei figli; intende difendere la famiglia tradizionale e ristabilire ruoli gerarchici che negano la libertà di decidere delle donne; inoltre riduce le tutele alle donne che subiscono violenza in famiglia.
Per queste ragioni abbiamo convintamente aderito alla manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne e le politiche patriarcali e razziste del governo, lanciata da NonUnaDiMeno il 24 novembre a Roma, in cui una marea di donne e uomini hanno detto “basta!”, al grido di “Ci volete sottomesse, ricattate e sfruttate, ci avrete ribelli!”.
La violenza maschile sulle donne, determinata da atteggiamenti di possesso e negazione dei diritti delle donne, può essere affrontata solo con un cambiamento culturale. Una nuova società è possibile se si attuano politiche per costruire un mondo in cui le relazioni siano migliori, partendo dal riconoscimento della libertà di poter agire e vivere, indipendentemente dai modelli stereotipati.
Le discriminazioni sulle donne, così diffuse nel nostro paese, dimostrano che la nostra democrazia non è ancora compiuta, e non dobbiamo scordare che in un paese diseguale i più deboli pagano il prezzo più alto. Il vero cambiamento che ci farebbe avanzare non può che mettere i diritti e la libertà delle donne al centro delle sue scelte, strategiche e politiche. I diritti sono l’unico antidoto al totalitarismo, e i diritti delle donne sono da sempre garanzia di crescita dell’autodeterminazione del genere umano.
Abbiamo alle spalle il tanto lavoro fatto dalle donne venute prima di noi, che ci permette di godere di libertà e diritti che fino ad un secolo fa non esistevano, ma dobbiamo seguitare ad impegnarci per essere promotrici di una rivoluzione culturale contro il maschilismo, il patriarcato, il sessismo e le discriminazioni, per costruire un paese migliore per le donne e quindi per tutti.
Il sindacato vuole contrattare diritti. La ministra Buongiorno, con la proposta di rilevamento dei dati biometrici, segna l’abissale distanza tra visioni opposte di valorizzazione del lavoro nella Pubblica amministrazione.
Al via la mobilitazione unitaria dei lavoratori pubblici: con tre appuntamenti, a Milano, Roma e Napoli, dove si sono svolte lo scorso 8 novembre tre assemblee interregionali di delegati e lavoratori pubblici, a sostegno della rivendicazione dell’apertura del confronto per il rinnovo dei contratti nazionali 2019-2021, a partire dalle undici proposte contenute nella piattaforma sindacale in attesa dell’approvazione della legge di bilancio.
Difficile perseguire gli obiettivi di valorizzazione ed “efficientamento” dei servizi pubblici senza lo stanziamento di adeguate risorse. Quello previsto dalla legge di bilancio per i rinnovi contrattuali - pari a 1,050 miliardi di euro per il 2019, 1,075 per il 2020, e 1,125 miliardi a decorrere dal 2021 – è ritenuto insufficiente dalle organizzazioni sindacali.
Per il rinnovo del contratto non si tratta solo di risorse economiche. La vertenza sindacale per il rilancio dei servizi e del lavoro pubblico rivendica anche stabilizzazioni, modifiche normative che consentano alle amministrazioni una gestione efficace del lavoro pubblico, superamento dei vincoli sulla costituzione dei fondi per il salario accessorio, un piano generale di formazione e aggiornamento dei dipendenti pubblici, il potenziamento del sistema di relazioni sindacali, il rifinanziamento del servizio sanitario nazionale, la stabilizzazione dei precari, e un grande programma di assunzioni.
Sullo sfondo del quadro di rivendicazioni promosse per il pubblico impiego si addensa la proposta del ministro Buongiorno, con l’omonima annunciata riforma della Pubblica amministrazione, dal sapore vagamente “brunettiano”, attraverso la quale si intenderebbe, fra l’altro, introdurre la possibilità di rilevare i dati biometrici dei lavoratori pubblici al fine del contrasto all’assenteismo.
Per capire la portata di questa riforma è opportuno evidenziare che, al momento, “l’uso generalizzato e incontrollato di dati biometrici, specie se ricavati dalle impronte digitali, non è lecito”, e che “l’utilizzo di dati biometrici può essere giustificato solo in casi particolari, tenuto conto delle finalità e del contesto in cui essi sono trattati, e in relazione ai luoghi di lavoro, per presidiare accessi ad ‘aree sensibili’, considerata la natura delle attività ivi svolte: si pensi, ad esempio, a processi produttivi pericolosi o sottoposti a segreti di varia natura, o al fatto che particolari locali siano destinati alla custodia di beni, documenti segreti o riservati, od oggetti di valore”.
Rispondere alla richiesta di valorizzazione del lavoro e dei servizi pubblici con una proposta di riforma che prevede la rilevazione di dati biometrici per contrastare l’assenteismo nella pubblica amministrazione, segna probabilmente l’abissale distanza esistente tra visioni opposte di “efficientamento” e valorizzazione del pubblico impiego e del lavoro nella Pubblica amministrazione.