Alessandro Leogrande - di Jean Renè Bilongo

 

Mai avrei immaginato fosse l’ultima volta che lo vedevo! Era lì presente, come sempre. Chiacchierammo del tutto e del più. Con un interesse particolare per le tante vicissitudini che segnano il vissuto degli immigrati. Era un profondo conoscitore della galassia migrante, delle sue ansie, delle sue speranze. Cercava di decifrare, con le lenti dell’intellettuale, le nuvole sempre più minacciose addensate sopra l’Italia multietnica e che si scioglievano, qua o là, in irascibili piovaschi fascisti e xenofobi.

Parlammo fino a quando il precoce buio vesperale tipico dell’autunno cominciò ad avvolgere lo spazio e il tempo. Eravamo in Piazza Montecitorio. A cercare di spostare il macigno tombale calato sulla riforma della cittadinanza. Insieme alla rappresentanza sociale e all’associazionismo, anche lui era lì, per esprimere il disappunto rispetto alle piroette proditorie della politica.

Ho conosciuto Alessandro Leogrande nell’ambito della battaglia condotto dalla Flai contro lo sfruttamento e il caporalato. Un tema che conosceva bene. Aveva pubblicato “Uomini e caporali: viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del sud”, una sapiente opera epistemico-letteraria incentrata sul caporalato che, ogni giorno, succhia voracemente le energie di decine di migliaia di donne e uomini provenienti da ogni dove, calpestandone la dignità fino a ridurli a una condizione non dissimile dalla schiavitù.

Incrociai Alessandro per la prima volta nell’estate del 2009 a Ortanova, durante la campagna “Oro rosso” organizzata dalla Flai nelle campagne della Capitanata. “Oro rosso” segnava l’inizio di una mobilitazione senza precedenti per denunciare gli abusi di cui sono vittime i lavoratori agricoli, senza differenziazioni tra autoctoni e migranti. Da lì sorse un sentimento di stima con Alessandro: un ragazzo mite ma forte delle sue convinzioni, timido ma socievole. Fui colpito dalla sua grande conoscenza del mondo della migrazione, aldilà di clichés, pregiudizi e luoghi comuni che imperano in tema.

Quando nel 2010 fu organizzata la prima edizione del “Premio Masslo” nelle strade e nelle campagne del casertano, una straordinaria iniziativa politico-sindacale della Flai atta a valorizzare il contributo dato dai migranti all’economia agricola italiana, chiedendo al tempo stesso maggiore attenzione nei loro riguardi, Alessandro fu coinvolto in tutto il percorso, ma soprattutto nella giuria chiamata a pronunciarsi e premiare le migliori opere di narrativa, giornalismo, e arti plastiche, inerenti il vissuto, l’integrazione sociale, e l’inclusione civile dei migranti.

Da allora, Alessandro è diventato un ospite fisso anche nelle tre edizioni successive del “Premio Masslo”. Condivideva e sosteneva la battaglia della Flai contro lo sfruttamento. Perché necessaria, imperativa, giusta. L’unico modo per riconquistare la dignità di cui tanti sono ancora troppo depredati nel lavoro agricolo. In questo senso, il primo “Rapporto agromafie e caporalato” non poteva non annoverare Alessandro tra gli autori.

Alessandro è stato uomo delle mille battaglie a difesa dei migranti. Da giornalista ha cercato, con tutta la passione di cui era capace, di capire noi altri migranti, le nostre chiavi mentali, i nostri prismi di lettura del mondo che ci circonda. Per farlo non esitava a cacciarsi in esercizi talvolta estenuanti. Prima di andarsebe aveva da poco pubblicato “La frontiera”: il titolo basta per capire da che parte stesse Alessandro rispetto alla Fortezza Europa, arroccata su se stessa e indifferente alle ecatombe che si consumano nelle sue acque sempre limacciose.

Da quel pomeriggio in Piazza Montecitorio non ho rivisto Alessandro. Pochi giorni dopo l’ho “ritrovato” attraverso un testo: aveva firmato una lettera aperta in cui esortava le Ong a disertare il bando con il quale il Viminale si proponeva di “migliorare le condizioni” nei campi d’internamento libici. E’ stata la sua ultima battaglia. Alessandro aveva centrato il punto: il “sistema di contenimento libico” fa orrore ed è contestato da più parti.

La notizia della scomparsa di Alessandro è stata uno shock. L’antica saggezza delle mie latitudini di origine dice che “il passaggio dell’elefante si evince dall’impronta che lascia, profonda e inconfondibile nel suolo”. L’impronta di Alessandro continuerà a essere una straordinaria coordinata per continuare le battaglie in cui si è speso.

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