Sanità ferita, anche il Veneto taglia e non ricuce - di Frida Nacinovich

 

La sanità pubblica avrebbe bisogno di una cura ricostituente, di quelle che si ordinano agli adolescenti un po’ gracili, o alle loro coetanee finite nella ragnatela del ‘vorrei-essere-velina-quindi-smetto-di-mangiare’. Invece gli ultimi governi - da Berlusconi a Gentiloni passando per Monti, Letta e Renzi - hanno prescritto alla sanità pubblica cure dimagranti su cure dimagranti. Risultato: diminuiscono i posti letto, aumentano le liste d’attesa anche per gli esami più importanti, chiudono i presidi socio-sanitari che, da sempre, sono i più vicini alle esigenze delle fasce più deboli della popolazione, in primis gli anziani.
Sta succedendo ovunque lungo la penisola, anche nelle regioni - Toscana, Emilia, Lombardia, Veneto - che l’autorevole (e confindustriale) Sole24Ore mette al vertice della classifica del settore. Poi, per incollare qualche toppa su una gomma lisa, la politica inventa delle singolari riorganizzazioni. È il caso del Veneto, dove all’inizio del 2017 la giunta e il consiglio regionale di centrodestra hanno istituito la cosiddetta Azienda Zero, che ha organizzato la sanità in nove Asl. Per il governatore Zaia si è trattato “della pietra angolare di tutta la legislatura”. E naturalmente, in teoria, la riforma assicura meno burocrazia, cure d’eccellenza per tutti, riduzione di liste d’attesa, e perfino risparmi per novanta milioni di euro.

Ma è davvero così? Katia Manganotti scuote la testa. Lei lavora in sanità dal lontano 1981, prima nel settore privato e poi in quello pubblico. Quasi trent’anni di esperienza, in quella prima linea dell’assistenza che è il settore infermieristico. “Dopo tutto quello che ho visto in oltre un quarto di secolo - esordisce - avrei solo voglia di lasciare il testimone alle mie colleghe e ai miei colleghi più giovani. Ma ‘grazie’ all’ex ministro Fornero dovrà passare del tempo, e mi toccherà vederne ancora di cotte e di crude”. Disillusa? Quando si parla di sanità vengono a galla tutti gli effetti collaterali delle cosiddette riforme fatte negli ultimi anni. “Siamo tornati indietro, passando dalla figura dell’infermiere unico polivalente al semplice esecutore di ordini. Ma, senza nulla togliere al valore del medico, così non si tiene conto della qualità dell’assistenza. E nelle nostre corsie sono tornate le piaghe da decubito”.

La sanità è come un bancomat: c’è bisogno di trovare soldi per far finta di essere di sinistra, e si levano al fondo sanitario nazionale. “La salute non può dipendere solo dai bilanci. Stiamo parlando delle cure da dare a persone in carne e ossa, dentro e fuori l’ospedale”. Il percorso sanitario-assistenziale, ricorda non per caso l’Organizzazione mondiale della sanità, non va considerato soltanto nell’intervento sulla patologia che si effettua in ospedale, ma comprende anche il recupero riabilitativo, spesso faticoso, dopo le dimissioni. Una dimensione, quest’ultima, che in Veneto è quasi sempre affidata a cooperative esterne, create ad hoc. “Un errore - spiega Manganotti, delegata sindacale Fp Cgil - perché la sanità pubblica è la risposta migliore, quella più adeguata alle esigenze del paziente”.

Il profondo nord ha seguito la strada della sussidiarietà: di fatto con i fondi pubblici si permette ai cittadini di curarsi anche dal privato. La Lombardia ne ha fatto un vanto. E il Veneto? “Per fortuna ancora non siamo arrivati a questo punto”. Manganotti non è un’operatrice sanitaria folgorata sulla via di Damasco, già a suo tempo (e stiamo parlando di vent’anni fa) criticò la cosiddetta riforma che introdusse l’intramoenia, in altre parole la possibilità per il medico specialista, ma anche per l’infermiere, di lavorare privatamente all’interno della struttura pubblica. Una critica confermata oggi. “Io la vedo così: se al lavoro comune, collettivo, sostituisci quello privato, magari ti arricchisci personalmente, ma perdi di vista il senso del servizio sanitario nazionale. Quasi inutile dire che ‘riforme’ del genere finiscono per ricadere, come una valanga, su una struttura di per sé delicata come quella dell’assistenza sociosanitaria. Se un medico stacca alla quattro e poi continua fino alle sei del pomeriggio a fare visite solo private, è ovvio che le liste d’attesa finiscano per allungarsi”. Va da sé che Manganotti contesti il ‘modello lombardo’, quello della sussidiarietà, che di fatto ha affidato il settore nelle mani dei privati.

Nell’Asl veronese dove Manganotti lavora, l’età media degli addetti negli ultimi anni si è innalzata. “Non ci sono state assunzioni, né pensionamenti. Siamo diventati dei ‘vecchietti’, e sì che facciamo un lavoro faticoso. I turni devono coprire tutte le ventiquattro ore del giorno, e non ci sono né domeniche né festivi. Il nostro contratto di categoria, poi, é fermo dal 2009, come nel resto del pubblico impiego”.

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