Il 28 settembre, in occasione della giornata mondiale per il diritto all’aborto sicuro e legale, noi donne abbiamo manifestato in molte piazze italiane per rivendicare la libertà di decidere del nostro corpo, della nostra sessualità e della nostra salute riproduttiva. Abbiamo chiesto il rispetto e l’applicazione della legge 194/1978, a partire dalla garanzia della presenza, in tutte le strutture pubbliche ospedaliere e territoriali, di personale non obiettore.
Siamo dovute scendere in piazza perché il diritto alla salute e alla procreazione libera e responsabile è ancora messo in discussione. Sembra di essere tornate indietro di molti anni. La richiesta di applicazione della legge 194 si trasforma in un giudizio etico e morale sulle donne che ricorrono all’aborto. È messa nuovamente in discussione la stessa libertà delle donne di andare, vestire, vivere come meglio ritengono, senza per questo essere giudicate o addirittura additate come corresponsabili degli episodi di violenza.
Lo scorso mese due stupri hanno riempito le cronache nazionali: quello di Rimini e quello di Firenze, emblematici per come lo stesso reato è stato trattato nell’informazione e nelle reazioni. La violenza ai danni di donne è stata narrata in modi diversi in base all’identità degli stupratori. L’attenzione non era rivolta alle donne vittime della violenza se non, strumentalmente, per accentuare o minimizzare la responsabilità degli autori della violenza stessa.
In modo ulteriormente diverso le cronache riportano gli ormai quotidiani episodi di violenza, stalking, femminicidi. In questi casi l’attenzione è diretta alle vittime, di cui sappiamo tutto: ne conosciamo i nomi, i volti, la storia. Molto meno invece viene raccontato dei maschi autori dei fatti, se non che sono uomini “normali”, al più gelosi o passionali. Ancora si parla di raptus, di troppo amore.
La violenza sulle donne continua, e continua la mancanza di consapevolezza di un fenomeno grave, la mancanza di responsabilità collettiva su episodi che sono determinati non da singoli, personali eventi, ma da una generale idea di disparità tra uomini e donne, da una cultura del possesso ancora troppo diffusa, da un uso delle parole che porta a giustificare la violenza.
Il 30 settembre siamo così tornate in piazza sull’onda dell’appello nazionale “Avete tolto senso alle parole”, lanciato per denunciare non solo la violenza fisica e verbale a cui le donne sono quotidianamente sottoposte, ma la narrativa che trasforma stupri ed omicidi in un processo alle vittime. A Verona abbiamo promosso un incontro tra tutte le associazioni e le donne che, a vario titolo, si occupano di questioni di genere, per cercare di trovare azioni comuni da proporre, per spingere un cambiamento nei comportamenti, nel linguaggio, nella cultura. Ci siamo incontrate per una colazione (“Caffè e Parole … le Nostre!”) presso la libreria-emporio culturale Libre!, cooperativa che fa di lettura, studio e diffusione delle parole attività quotidiana.
La presenza è stata significativa. Hanno partecipato rappresentanti di numerose associazioni, la consigliera provinciale di Parità, avvocate, giornaliste, insegnanti, sindacaliste, donne richiamate dall’appello e anche alcuni uomini.
La discussione è stata libera e partecipata. Si è manifestata la stanchezza nei confronti di convegni e riflessioni pubbliche, spesso destinati a una platea di donne, ma che poco o nulla spostano nella realtà quotidiana. È stato rilevato come sia necessario e urgente spostare l’impegno dalla riflessione e dalla pubblica denuncia all’azione concreta, senza accontentarsi dei rituali celebrativi in occasione del 25 novembre. Si è quindi deciso un tavolo di programmazione di azioni e interventi comuni, che si riunirà nei prossimi giorni.
Dobbiamo riprendere un lavoro comune. Negli ultimi anni abbiamo perso la capacità di riconoscerci tra donne, di agire insieme. Tendiamo a fare ognuna per sé e nel proprio ambito. La nostra capacità di cambiamento sarebbe più efficace se agissimo insieme. Gli ambiti di lavoro sono molti e tutti necessari: educazione soprattutto, ma anche attenzione ai testi scolastici; denuncia delle pubblicità che utilizzino strumentalmente il corpo della donna o stereotipi femminili; il bilancio di genere; la toponomastica che ignora completamente le donne. Potremmo partire dal chiedere la cancellazione della depenalizzazione dello stalking, e la non accessibilità al rito abbreviato per gli autori di femminicidio. Facciamo che il 30 settembre sia l’inizio di un percorso. La situazione è grave, è ora che le streghe ritornino!