L’ottimismo sparso a piene mani da Gentiloni, Padoan (e Renzi) sulla “ripresa” si è tradotto nel “sentiero stretto” per la prossima legge di bilancio. Il sindacato chiede una significativa svolta rispetto alle politiche di austerità. E’ innegabile il fallimento sociale delle politiche di questi anni. Il consueto gioco a dividere tra settori sociali e generazioni dimostra tutto il suo bluff: decine di miliardi dati alle imprese per “incentivare l’occupazione” si sono tradotti in un aumento della precarietà. L’unico dato “positivo” dell’occupazione è l’aumento per la fascia over 50, a scapito dei giovani, sempre più disoccupati. Effetto previsto e prevedibile della legge Fornero e dell’aumento dell’età pensionabile.
Fermare il prossimo scatto “automatico” per l’aspettativa di vita, dunque, non risponde soltanto alla legittima necessità di uscita, in particolare per chi svolge lavori gravosi e usuranti, ma alla reale possibilità di ingresso per i giovani. Ai quali si promette, invece, un percorso a ostacoli tra precarietà e decontribuzione che li porterà sempre più indietro nell’eterno gioco dell’oca delle pensioni. Fermare lo scatto dell’età pensionabile e accogliere la nostra richiesta di una “pensione di garanzia” non ha ricadute sulla prossima legge di bilancio. Il rifiuto mette a nudo la mancanza di volontà politica.
Dare lavoro ai giovani (lavoro vero, stabile, ben retribuito e contribuito), cambiare le pensioni, difendere l’occupazione, garantire a tutti una sanità efficiente: su questa piattaforma – frutto del mandato dei lavoratori - il 14 ottobre si riempiranno le 100 piazze d’Italia per le manifestazioni di Cgil, Cisl e Uil. Un primo passo. Stallo dei tavoli di confronto o meno, il sindacato intende essere pienamente in campo e acquisire tangibili risultati nella legge di bilancio in una prospettiva di radicale modifica delle nome attuali. Proponendo, come sempre, un’idea di paese che contro gli egoismi dei più forti - con i referendum “autonomisti” dei governi regionali leghisti di Lombardia e Veneto - ridistribuisce reddito e ricchezza, salvaguarda e qualifica i servizi pubblici – a partire dalla sanità, con le stesse garanzie su tutto il territorio nazionale -, costruisce coesione sociale e convivenza. Con buona pace di commentatori e forze politiche che vorrebbero assimilare le nostre proposte all’osceno “assalto alla diligenza” di una legge di bilancio pre-elettorale.
Non siamo quelli dei bonus e dei privilegi. Siamo quelli dei diritti sociali universali e di un modello di sviluppo di giustizia sociale ed ambientale. La mobilitazione unitaria deve continuare e, in ogni caso, la Cgil ha la responsabilità di confrontarsi con lavoratori e pensionati, e di dare continuità alla lotta per rispondere alle loro legittime aspettative.
Nel fine settimana, decine di migliaia di persone hanno invaso le piazze centrali delle principali città spagnole. Senza bandiere e indossando magliette bianche, hanno chiesto a gran voce che il dialogo torni a prevalere. Nel mentre, racconta ‘il manifesto’, “la situazione è arrivata a preoccupare persino i mercati e i grandi poteri finanziari che finora erano stati poco sensibili al dibattito catalano”. Proprio quest’ultimo scenario, esemplificato dagli annunci di fuga dalla Catalogna da parte di alcune grandi aziende, come primo atto di una ritorsione del capitale contro gli “indipendentisti”, fa capire che la strada del dialogo è l’unica percorribile. “La possibilità di una dichiarazione unilaterale di indipendenza – osservano in proposito i Comunisti di Catalogna - offrirebbe al regime un pretesto perfetto per aumentare il livello della sua offensiva repressiva. Gli atti giudiziari prima, e la brutale repressione della polizia, non hanno invalidato la legittimità della mobilitazione, però hanno limitato qualsiasi possibilità che il risultato fosse riconosciuto come valido dalla comunità internazionale”. Che fare dunque? Dalla Sinistra europea, per bocca di Katja Kipping (copresidente di Die Linke) e Nicola Fratoianni di Si, arriva una interessante risposta: “La ‘crisi catalana’ dovrebbe essere un’occasione per aprire finalmente la discussione a livello transnazionale sulla democrazia in Europa, sull’Europa che vogliamo, sulla necessità di un processo costituente che risponda alle sfide e ai rischi che abbiamo di fronte. Ma per fare questo è fondamentale seguire oggi la strada indicata, con chiarezza e coraggio, dalle piattaforme municipali, dalle confluenze e dalla sinistra in Spagna e in Catalogna. Il momento della politica contro l’uso della forza, e del dialogo per la convivenza”.
La stagione contrattuale che la Flc Cgil si appresta ad aprire è di straordinaria importanza, dopo oltre otto anni di blocco contrattuale. Si rimettono in moto i rinnovi dei settori pubblici, dando seguito a quanto conquistato da Cgil Cisl e Uil nel protocollo del 30 novembre, e per la prima volta i “settori” della conoscenza si trovano ad essere rappresentati in un unico contratto.
Il protocollo del 30 novembre conteneva altri punti importanti: il tema delle risorse da destinare ai Ccnl (i famosi 85 euro); la revisione della legge Brunetta e la riscrittura del testo unico sul pubblico impiego (per un riequilibrio a favore della contrattazione); la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione. L’allora governo Renzi, sperando di portare a casa la riforma costituzionale, aprì per la prima volta al confronto con i sindacati sulle tematiche del pubblico impiego, e fu costretto ad attuare la sentenza 178/2015 della Consulta sull’illegittimità del reiterato blocco del rinnovo dei contratti pubblici, mettendo le basi per la riapertura della stagione contrattuale.
La prolungata crisi economica e il perdurare delle politiche di austerità hanno prodotto un incremento delle diseguaglianze, un arretramento dei diritti sociali e del lavoro, un taglio pesante alle retribuzioni con un spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale senza uguali nella storia di questo paese. Tutto ciò ha avuto effetti regressivi anche nei settori della conoscenza, attraverso i numerosi interventi normativi degli ultimi anni, dalla legge Brunetta alla 122/2010 (impose il blocco contrattuale e soppresse alcuni enti di ricerca), dalla legge 107/2015 (la “buona scuola”) alla 240/2010 per l’università, passando per le continue riforme degli Epr o quelle mancate delle accademie e conservatori. Obiettivo dichiarato la restrizione degli spazi di autonomia, la compressione delle forme di autogoverno a vantaggio di una dirigenza sempre più dirigista, la marginalizzazione della rappresentanza e del ruolo del sindacato.
In questo difficile contesto, la sfida per la Flc è riconquistare il contratto, pur sapendo che la riforma Madia non ha modificato come avremmo voluto le norme sul pubblico impiego, e che le risorse stanziate sono ancora insufficienti. Non vogliamo un contratto qualunque, ma il primo contratto dell’Istruzione e Ricerca, che getti le basi del nuovo comparto, punti a riconquistare spazi di democrazia, rimetta la contrattazione al centro, e dia risposte alle aspettative di riconoscimento professionale e dignità del lavoro. Un contratto che sappia salvaguardare le specificità dei settori e sia inclusivo di tutte le figure precarie impiegate nei luoghi della conoscenza.
Rivendichiamo un incremento salariale nel triennio non inferiore agli 85 euro medi mensili per tutte e tutti sul tabellare, e la sterilizzazione del meccanismo del cosiddetto “bonus Renzi” di 80 euro, per non intaccare le risorse contrattuali destinate. Rivendichiamo risorse straordinarie e aggiuntive per avviare un progressivo recupero salariale credibile, dopo 8 anni di blocco, che sia in grado di recuperare il gap con le retribuzioni europee, contrasti la “fuga dei cervelli” e renda attrattivo il nostro sistema della conoscenza: gli 85 euro non bastano a rispondere alle legittime richieste dei lavoratori. Vogliamo la conferma dei meccanismi degli scatti di anzianità e l’estensione a tutto il nuovo comparto dell’esperienza riconosciuta sotto forma di automatismi retributivi.
Il contratto dovrà regolare qualsiasi risorsa retributiva o voce di salario, qualunque sia la provenienza, come nel caso della 107 nella scuola e della 218 negli Epr; nonché tutte le materie sottratte dalla legge alla contrattazione e rimandate agli atti unilaterali delle dirigenze. Rivendichiamo l’equiparazione di tutti i diritti fra il personale a tempo indeterminato e determinato e l’inclusività per tutti i contratti atipici, compresi gli assegni di ricerca.
Diciamo ‘No’ alla valutazione individuale, e vogliamo il superamento della performance per tutti gli addetti al comparto. Rivendichiamo risorse aggiuntive per riconoscere lo sviluppo professionale e il diritto alla carriera, in funzione degli specifici ordinamenti professionali esistenti. Un contratto, infine, che rafforzi il ruolo della contrattazione decentrata e delle Rsu.
Il primo contratto del comparto Istruzione e Ricerca dovrà parlare ai settori specifici di provenienza con una parte comune, condivisibile, di valori e argomenti, e quattro specifiche sezioni per salvaguardare le peculiarità professionali consolidate storicamente e contrattualmente, che non possono essere ignorate.
La Flc Cgil è pronta alla sfida e alla mobilitazione, a partire dalla verifica delle risorse nella legge di stabilità. Ha avviato un ciclo di assemblee e di consultazione dei lavoratori della conoscenza, in attesa che il governo emani l’atto d’indirizzo per avviare il tavolo negoziale all’Aran.
Sono anni ormai che il “caso Atac” è scoppiato, sia economicamente che mediaticamente. E sono anni che come Filt Cgil di Roma e del Lazio denunciamo anomalie, disservizi, malagestione, assenza di programmazione, mancata applicazione di accordi, atti unilaterali. Con tutte le giunte e le amministrazioni, nessuna esclusa.
Oggi, ad un anno e poco più dall’insediamento della giunta Raggi, Atac è in regime di concordato preventivo. Un percorso ormai intrapreso, su cui la Filt del Lazio si è dichiarata da subito non favorevole, non certamente in termini ideologici - come qualcuno ha cercato spesso di attribuirci - ma perché, se la procedura non dovesse concludersi con un buon esito, l’unica alternativa sarebbe costituita dal fallimento.
La responsabilità e la disponibilità con cui ci siamo sempre misurati ai tavoli sindacali aziendali in questi anni, così come i piani industriali e gli accordi, molti dei quali certo non rivendicativi ma di puro “contenimento” a cui abbiamo apposto firme, sono la più chiara dimostrazione di quanto fossimo convinti – e ci avessero sempre lasciato credere - che altre strade fossero assolutamente percorribili. Una scelta dunque ben precisa, una scelta politica che però abdica alla politica stessa, affidando tutto ad un giudice fallimentare.
Oggi comunque la Filt è tutta impegnata a scongiurare il peggio, affinché la più grande realtà di trasporto pubblico del paese continui a vivere e si rilanci. Ma da qui in poi non sono consentiti né errori né superficialità, né mancanze né distrazioni. Questa operazione ha e avrà impatto, e non per poco tempo, sui circa 11.600 lavoratori e lavoratrici di Atac, più tutti quelli e quelle dell’indotto che vive ed opera intorno all’azienda; hanno già iniziato a subire alcuni effetti che, comunque sia, una procedura di questo genere potenzialmente comporta.
Per noi sono chiare le garanzie minime imprescindibili: prolungamento dell’affidamento in house fino al 2024, certezza e garanzia esplicita dei livelli occupazionali e dei redditi dei lavoratori di Atac attraverso l’esigibilità del primo e secondo livello di contrattazione, e un confronto reale con l’azienda sul piano industriale.
Ci aspettano mesi complicati e difficili da gestire. La nostra attenzione è e dovrà continuare ad essere altissima, così come la nostra azione e mobilitazione sindacale, per la salvaguardia dei livelli salariali ed occupazionali e per un servizio pubblico di qualità che si fregi di essere tale. Ce lo meritiamo tutti, cittadini e lavoratori.