La grande manifestazione del 17 giugno a Roma è stata una risposta democratica e di massa, giusta e opportuna, allo schiaffo alla democrazia voluto dal governo Gentiloni, cioè da Renzi. Sotto il ricatto del voto di fiducia è passata una delle più pesanti prevaricazioni alle cittadine e ai cittadini italiani: lo scippo del loro diritto ad esprimersi e dello strumento referendario. Mai finora l’articolo 75 della Costituzione era stato violato così palesemente. Spiace che il vergognoso ricatto governativo sia stato subito da chi avrebbe dovuto coerentemente votare contro, a partire da alcuni parlamentari dello schieramento di sinistra.
In un mese, senza confronto col sindacato, hanno fatto votare al Parlamento una legge e poi il suo contrario, beffandosi della volontà di milioni di persone e minando ulteriormente la credibilità e la fiducia nelle istituzioni. Bisogna evitare che questo diventi un precedente per impedire referendum non graditi.
Contrastare questo schiaffo alla democrazia è stato il primo obiettivo della manifestazione del 17 giugno. Con un colpo di mano si è puntato a cancellare quasi due anni di impegno della Cgil: prima con la consultazione straordinaria degli iscritti, poi con la presentazione della proposta di legge ‘Carta dei diritti universali del lavoro’ e dei tre referendum di sostegno, ridotti a due dalla Corte Costituzionale, sui quali sono state raccolte 4,5 milioni di firme e si è registrato un consenso molto ampio.
Fissata la data del 28 maggio, mentre alla commissione lavoro della Camera veniva incardinata la nostra proposta di legge, il 21 aprile il Parlamento faceva proprio un decreto del governo che abrogava le leggi sottoposte a referendum, rendendo vano lo svolgimento della consultazione. Poi a fine maggio, in commissione bilancio della Camera, sono stati reintrodotti i voucher nella “manovrina” economica, fatta approvare, senza alcun rispetto, a colpi di fiducia prima alla Camera e il 15 giugno al Senato.
E’ stato un danno profondo, nel metodo e nel merito. Si è reintrodotta con altro nome una forma di lavoro precario e indefinito, con un effetto se possibile più negativo dei voucher. Si potevano regolare, come da noi proposto nella Carta dei diritti (articoli 80 e 81) le prestazioni occasionali per le famiglie. Estendere alle aziende fino a cinque dipendenti, la stragrande maggioranza, e alla pubblica amministrazione il “nuovo” buono - che non è un contratto di lavoro perché non prevede nessun diritto - è un atto gravissimo.
La Cgil si è sempre battuta per difendere la democrazia e le sue regole, e con esse la libertà nel lavoro, la cittadinanza del lavoro. La nostra iniziativa non si ferma, a partire dal ricorso alla Corte Costituzionale contro l’illegittimità di queste decisioni.
Anche se il disegno di legge sullo “ius soli” porta in sé la consueta dose di furbizia italica – i diretti interessati devono “meritarsi” la cittadinanza - non c’è dubbio sul fatto che il Parlamento debba approvare, al più presto, una norma che è dettata dal buonsenso ancor prima che dal diritto. Perché siamo di fronte al fatto, assodato, che più di un milione di ragazzi e ragazze sono cresciuti e sono diventati, sui banchi delle scuole italiane, gli amici dei nostri figli e dei nostri nipoti, condividendo insieme a loro passioni, aspirazioni, studi, sport, musica e sentimenti.
Eppure per lo Stato italiano rimangono immigrati, relegati in un purgatorio senza fine, senza diritto di voto, e con le periodiche code alle questure per il rinnovo dei permessi e per fare viaggi di studio o di svago. Questo nonostante che 814mila di loro siano nati in Italia. E altri 300mila siano arrivati da neonati o quasi, tanto da parlare un italiano che non ha nulla da invidiare a quello degli “indigeni”. Anzi non di rado si esprimono meglio di tanti presunti italiani “ciento pe’ ciento”.
Eppure questa legge attende da 13 lunghi anni di essere approvata. E da ben due anni il Parlamento ne lima anche le virgole, ritardandone l’approvazione finale. Una strategia d’azione folle, che finisce per attirare le fastidiose, e infette, mosche cocchiere delle forze politiche più o meno dichiaratamente xenofobe che allignano nel paese. Così ragazzi e ragazze ben educati sono costretti a vedere scene disgustose, anche in Parlamento, ad opera di minus habens coccolati dai demagoghi di turno, e spesso anche dai padroni del vapore televisivo. Quelli che hanno formato una percezione dell’opinione pubblica sull’immigrazione basata sulla disinformazione. Tant’è.
Il protocollo d’intesa siglato da Cgil, Cisl, Uil di Roma e Lazio e dalla sindaca Raggi ricopre un’importanza che travalica decisamente il suo stesso contenuto, inserendosi nel confronto dialettico con il Movimento 5 Stelle e nella più generale dinamica politica del nostro territorio.
E’ noto a tutti noi che il processo avviatosi da qualche anno, conosciuto con il termine di “disintermediazione”, ha trovato fautori in tutto il consesso politico e in particolare nella compagine pentastellata. Naturalmente parliamo del ruolo della confederazione, a tutti i livelli, per la valenza politica generale che reca con sè, attestandosi come una vera e propria anomalia europea.
Perché, dunque, dopo un anno di consiliatura, la sindaca Raggi si è decisa – e con enfasi inusitata – a ricercare un accordo con i sindacati confederali? Ferma restando la eterogeneità del gruppo dirigente dei cinque stelle, soprattutto a Roma, il primo elemento da registrare è quello del progressivo isolamento della giunta, sia nelle interlocuzioni istituzionali, che con le parti sociali. E’ emersa dunque la necessità di costruire un sistema di alleanze che garantisca alla giunta stessa la prosecuzione del proprio cammino. Il fatto significativo è che il primo accordo lo si sottoscriva con il sindacato.
Il secondo elemento riguarda la mobilitazione che è stata costruita sul territorio, e che traguardava ad una grande manifestazione unitaria cittadina. Il solo annuncio della manifestazione ha messo in fibrillazione la sindaca, non potendo assorbire il colpo di una rappresentazione pubblica del proprio fallimento e immobilismo.
Dunque, i dati rilevanti sono due: 1) I cinque stelle si piegano ad un accordo con il sindacato, in quanto strumento di rappresentanza generale; 2) La mobilitazione, come strumento ordinario dell’azione politico-sindacale, è sempre utile per calibrare i rapporti di forza in campo e misurare la reale rappresentatività del sindacato. In realtà c’ è anche un terzo dato, che riguarda i contenuti politici del protocollo. Considerate le condizioni disastrose della capitale, da tutti i punti di vista, si è condivisa la necessità di lavorare (dovremmo avere una conferma a giorni) per la costruzione di un tavolo interistituzionale fra Roma Capitale, Regione Lazio e governo, aperto al confronto con le parti sociali.
L’obiettivo è quello di lanciare una sorta di “Patto per Roma”, che parta dalla insostenibilità del debito capitolino. Fra i punti fondanti del protocollo c’è infatti quello della ricontrattazione del debito (13 miliardi di euro), per pagare gli interessi del quale Roma applica l’addizionale Irpef più alta d’Italia. Non un tavolo di bei propositi, dunque, ma un luogo di assunzione collettiva di responsabilità, nella consapevolezza che la capitale del paese ha un carico di oneri aggiuntivi che non può essere trascurato, oltre a tutte le altre criticità note ai più.
Il protocollo, dunque, pur essendo calibrato sulla definizione di corrette relazioni sindacali, abbraccia questioni più generali, di forte valenza politica, investendo diversi livelli istituzionali e traguardando le diverse criticità presenti sul territorio, attraverso l’istituzione di otto tavoli tematici: politiche di bilancio, fiscali e tariffarie; mobilità; ciclo dei rifiuti; riorganizzazione delle società partecipate; politiche del welfare, della disabilità e abitative; politiche di sviluppo territoriale, di rigenerazione urbana e periferie; politiche per la cultura e il turismo; lavoro, appalti e azioni per la legalità.
L’obiettivo è quello di porsi alla testa di un fronte comune - politica, associazioni, movimenti, ecc. - in grado di conferire alla nostra città quell’impulso di idee e d’innovazione in grado di determinare un radicale cambio di rotta, ponendo il lavoro al centro delle nostre scelte e l’equità sociale come faro per illuminare il nostro cammino.
La cultura è un bene fondamentale per la crescita individuale e lo sviluppo di un territorio, ma troppo spesso è considerata secondaria se non un costo per la comunità. Nello spettacolo dal vivo operano migliaia di lavoratori che contribuiscono ad arricchire la vita di ognuno di noi, svolgendo un mestiere faticoso e molto impegnativo. Eppure la realtà quotidiana di questi professionisti è poco o per nulla conosciuta, e anche le statistiche ufficiali ne offrono una rappresentazione limitata.
L’analisi dei dati Inps e Istat restituisce due rappresentazioni molto diverse per numerosità e tipologie professionali. L’Inps (ex Enpals) registra 136.571 individui con professioni creative e artistiche che nel 2015 hanno fatto almeno un versamento nelle casse previdenziali per lo spettacolo dal vivo. L’Istat, che considera la professione “prevalente”, stima invece circa 38mila professionisti.
La Slc-Cgil ha promosso una ricerca condotta insieme alla Fondazione Di Vittorio, con l’obiettivo di indagare i principali aspetti del lavoro dei professionisti dello spettacolo dal vivo. Allo stesso tempo si è configurata come una ricerca-azione per supportare l’intervento del sindacato e delle associazioni, partendo dai bisogni e dalle proposte dei lavoratori per costruire strategie di mobilitazione, sindacalizzazione e contrattazione.
I risultati descrivono un mondo fortemente frammentato, caratterizzato in maniera strutturale da lavoro precario, discontinuo, mobile sul territorio. I lavoratori hanno numerose difficoltà per difendere i propri diritti e per costruire azioni collettive per le loro rivendicazioni.
Al questionario hanno risposto circa 3.800 lavoratori (2.090 questionari validi per l’analisi statistica). I rispondenti sono soprattutto attori (60,5%), seguiti da autori, registi, drammaturghi, scenografi (17%), musicisti (15,5%), ballerini (7%). La ricerca restituisce l’immagine di un lavoro povero (la metà guadagna meno di 5.000 euro netti l’anno) e irregolare (il 37% lavora spesso in nero) e, in particolare, emerge il problema del “tempo non riconosciuto”, come per le prove (70%) e le ore in più non retribuite (60%).
Solo una quota marginale ha un contratto a tempo indeterminato (4%) mentre la maggior parte lavora con contratti a termine o autonomi e il 40% con più tipologie di contratti nel corso dell’anno. Una situazione di destrutturazione e varietà delle forme contrattuali, non solo a livello macro ma anche nelle biografie individuali. In questo scenario, appare sempre più evidente la necessità di affermare i diritti e le tutele per la persona al di là della forma specifica di impiego, come proposto dalla Cgil con la Carta dei diritti.
Analizzando le aspettative per il futuro, emerge con forza la consapevolezza dei lavoratori di trovarsi davanti un mercato caratterizzato inevitabilmente da discontinuità e frammentazione, così come a professioni con forte spinta verso l’autonomia. Chiedono soprattutto una maggiore continuità lavorativa con più diritti e tutele (la priorità per l’80,3%), mentre la richiesta di stabilizzazione riguarda una quota minoritaria.
Per fronteggiare i bassi redditi e la discontinuità, i lavoratori individuano alcune priorità per l’azione congiunta di sindacato e associazioni: l’istituzione di un equo compenso - una giusta paga minima per le mansioni svolte – è considerata un’urgenza per il 44,3% dei rispondenti, seguita dalla promozione di un sostegno al reddito in caso di disoccupazione (29,6%). E’ lungo questo doppio binario di tutele sul lavoro e tutele sociali che deve muoversi l’azione sindacale.
I servizi principali che i lavoratori chiedono al sindacato sono l’assistenza per l’accesso all’indennità di disoccupazione (nel 26,5% dei casi al primo posto come servizio necessario) seguito dall’assistenza fiscale e legale (20%). Considerando la contrattazione territoriale, le priorità nei confronti delle istituzioni locali sono la promozione di politiche per aumentare l’offerta di spettacoli e le opportunità di lavoro (nel 55,3% dei casi) seguita da una maggiore disponibilità di strutture pubbliche per compagnie, gruppi e associazioni (31,8%). A questo si affiancano altre politiche di settore, ritenute fondamentali dalla quasi totalità dei rispondenti: il riconoscimento istituzionale della professionalità del lavoratore dello spettacolo (96,8%), un fondo regionale specifico per lo spettacolo sul modello del Fus nazionale (86,6%), un Testo unico per lo spettacolo dal vivo (84,3%).
Emerge la possibilità per il sindacato di costruire reti partendo dai bisogni e dagli obiettivi comuni individuati dai lavoratori, costruendo insieme alle associazioni percorsi di mobilitazione per affermare diritti fondamentali, capaci di riunificare il mondo del lavoro anche in contesti di estrema frammentazione e discontinuità.