Nessuna società inclusiva, solidale e più giusta sarà possibile, se non si argina lo svilimento dei valori e il degrado sociale e politico che attraversano il paese dinanzi all’immigrazione e alla precarietà di vita e di lavoro. Non si può essere neutrali, vanno contrastate le scelte sbagliate del governo e l’inadeguatezza delle forze politiche democratiche e di sinistra.
La Cgil, con la sua autonomia e le sue proposte, dal Piano del lavoro alla Carta dei diritti universali, è uscita dalla difensiva aprendo una nuova fase, in un contesto di crisi globale e di scontro radicale tra capitale e lavoro. Abbiamo dato forza alle nostre radici guardando al futuro, e indicato la strada di un’impegnativa stagione vertenziale e negoziale sul terreno sociale e su quello contrattuale, presentando piattaforme per la conquista dei Ccnl, e per nuovi modelli contrattuali e di relazioni sindacali.
Ma la Cgil è stata ed è anche molto altro. E’ un’organizzazione democratica laica e multietnica, un soggetto politico di rappresentanza sociale che ha come riferimento la nostra Costituzione: “i valori delle libertà personali, civili, economiche, sociali, politiche e della giustizia sociale, quali presupposti fondanti e fini irrinunciabili di una società democratica”, come recita lo Statuto.
La Cgil è un presidio di valori, di democrazia e civiltà. In questa deriva culturale che tocca anche la nostra gente, va ridato senso alla parola “progresso” legandola ai principi di solidarietà, giustizia e uguaglianza. Sta qui la ragione della partecipazione a iniziative contro il razzismo, la xenofobia e il qualunquismo, come quella del 20 maggio a Milano: “Insieme senza muri”. Siamo per il diritto d’asilo, per cambiare la legge sulla cittadinanza, per l’accoglienza, per investire nelle periferie, per politiche sociali inclusive e per l’uguaglianza. E contro leggi forcaiole e incostituzionali come la Minniti-Orlando, o quella che dà licenza di uccidere ogni intruso nella propria abitazione.
Siamo contrari ai blitz come quello di Milano, e a chi diversifica pericolosamente la gravità di uno stupro sulla base del colore della pelle o della condizione sociale. C’è un bisogno naturale di sicurezza, di legalità e di una vita serena, a cui si stanno dando false risposte che parlano alla pancia di una parte della cittadinanza. Nell’indistinta propaganda populista per accaparrarsi voti, assecondando i peggiori umori che circolano nel paese, prevale la legge del più forte e del “tutti contro tutti”.
E’ una pericolosa degenerazione della democrazia e dei suoi valori. Ogni progressista, democratico e di sinistra dovrebbe contrastare, come fa la Cgil, e non alimentare questa politica barbara e insensata, nella quale sinistra e destra sembrano non avere più confini.
“Il nostro paese riesce se a riuscire è ciascuno di noi”. Non è uno slogan ad effetto quello di Jeremy Corbyn, che ha presentato il manifesto del Labour per le elezioni di giugno, tirandosi addosso tutte le critiche immaginabili di un sistema delle (tele)comunicazioni, inglese e non solo, che lo dipinge come il diavolo. Eppure, come annota il corrispondente londinese del manifesto, il suo programma “è da manuale del ministro delle finanze socialdemocratico: fine dello scandalo dei contratti a zero ore; pensioni agganciate all’inflazione e protette; cancellazione delle tasse universitarie (novemila sterline annue, circa diecimila euro); taglio ai siderali stipendi dei top manager; nazionalizzazione di ferrovie, energia elettrica, acqua (privatizzata da Thatcher nell’89, oggi ci sono nove compagnie idriche nella sola Inghilterra) e poste. Ancora: sostegno incondizionato alla sanità pubblica, più poliziotti e vigili del fuoco per rimediare ai tagli dell’austerity, reintroduzioni di fasce di sussidi alle famiglie”. Per trovare gli 86,4 miliardi di sterline necessari a queste riforme, il Labour propone un aumento della tassa sul reddito e soprattutto della tassa sulle imprese - quest’ultima è soltanto al 26% - e in parallelo di combattere l’evasione fiscale. “Un programma radicale e responsabile – tira le somme Jeremy Corbyn - che chiama in causa i più ricchi e le grandi aziende a pagare un po’ di più”. E’ per questo che i più ricchi e le imprese, da sempre capaci di fare (im)moral suasion sui media, detestano questo politico tutto d’un pezzo. Tanto quanto Corbyn è amato dalla sua base elettorale. La vittoria alle elezioni, con il sistema ipermaggioritario inglese, è una missione quasi impossibile. Ma almeno il Labour può tornare a guardarsi allo specchio, e riconoscersi.
èforte la preoccupazione sull’andamento del confronto con il governo sulle pensioni. Si registra un inaccettabile ritardo sulla chiusura della fase uno, in particolare per l’attivazione dell’Ape sociale e gli interventi per i lavoratori precoci.Inoltre non decolla ancora la fase due, che si dovrebbe concentrare su nodi come la pensione per i giovani, la flessibilità in uscita, la differenziazione dell’attesa di vita, il lavoro di cura, la previdenza complementare e la rivalutazione delle pensioni in essere.
Nondimeno la Cgil e lo Spi si stanno preparando al meglio al confronto, anche attraverso l’approfondimento su tutti gli aspetti che caratterizzano il sistema previdenziale italiano, in un’ottica comparativa con le altre realtà europee. Tra gli altri temi, nel corso di un recente seminario dello Spi a Orvieto, è stata affrontata la proposta della “pensione contributiva di garanzia”, a partire da una relazione di uno dei suoi ideatori, Michele Raitano, docente di Politica economica alla Sapienza di Roma.
La proposta intende intervenire sulle difficoltà collegate al sistema di calcolo contributivo. Allo stato attuale, ogni svantaggio (periodi di non lavoro, salari bassi, part-time involontario, forme lavorative caratterizzate da bassa aliquota) equivale a meno contributi e, di conseguenza, a pensioni più basse in futuro.
La “pensione contributiva di garanzia” è uno strumento previdenziale che ha l’obiettivo di raggiungere assegni compatibili con una vita dignitosa. L’idea è che la pensione non potrà mai scendere sotto una determinata soglia, e in tal caso deve intervenire lo Stato con un’integrazione. Una garanzia, appunto. L’obiettivo è ottenere un assegno pensionistico almeno pari al 60% del salario medio di una persona vicina al pensionamento, lo stesso livello previsto dal protocollo sul welfare del 2007. Un esempio? Se si è stati attivi per 42 anni, quando si arriva a 66 anni d’età la pensione non potrà essere al di sotto dei 930 euro al mese (valori odierni).
La proposta riguarda tutti coloro che hanno iniziato a lavorare con il sistema contributivo nel 1996, e che andranno in pensione dal 2040. Il problema sarà vedere l’evoluzione delle carriere da qui a vent’anni e poi per i decenni a seguire. Al momento non sappiamo cosa succederà nel lungo termine, ma siamo in grado di dire cos’è successo dal ‘96 a oggi. Sulla base di varie simulazioni il quadro è preoccupante: il 50% di coloro che andranno in pensione nel 2040 avrà accumulato meno della metà di un dipendente medio.
Quanto all’entità delle risorse necessarie, dipenderà da vari elementi, a partire dalle dinamiche del mercato del lavoro. Con un mercato del lavoro dinamico e inclusivo la spesa previdenziale è sostenibile. La proposta non dovrebbe superare i 5-6 miliardi di spesa nel lungo termine, quando verosimilmente i picchi della spesa previdenziale saranno risolti. Nel 2040 si può pensare di intervenire con il contributo della fiscalità generale e con una parte che invece si autofinanzia, intervenendo sulle pensioni più alte. Ma una misura di tal genere potrebbe attingere per almeno un terzo dai corrispondenti risparmi in minori assegni sociali.
Le proposte alternative sul tappeto riducono di molto il ruolo dello Stato e hanno un costo immediato sul bilancio pubblico. Bisogna, anzitutto, contrastare l’idea secondo cui tutto si può risolvere con la decontribuzione. Ed evitare ipotesi di “pensioni di base” finanziate dalla riduzione dei contributi: ad esempio, per fare una pensione da 500 euro al mese dovremmo abbassare le aliquote di 7 punti, che tradotto vuol dire 14 miliardi.
Il sistema pubblico continua a essere centrale e la proposta rimane nella logica previdenziale, che incentiva e riconosce la disponibilità a stare nel mercato del lavoro valorizzando la contribuzione. Il contrario di quanto avviene oggi: chi ha carriere fragili, in un meccanismo disincentivante, a conti fatti può trovare non conveniente restare nel sistema. Assistiamo a una sorta di solidarietà inversa: chi ha lavori poveri versa all’Inps dei soldi che non si trasformano in pensione, e in ballo ci sono cifre dell’ordine di più di 100 miliardi.
Vogliamo fare l’operazione inversa: non solo tutti i contributi versati vengono riconosciuti, in più c’è una valorizzazione. La proposta, poi, è flessibile: si può decidere quali esigenze valorizzare, modulando il tutto, nel corso degli anni, in base all’andamento del mercato del lavoro. Si possono prevedere, ad esempio, forme di tutela per i laureati in cerca di prima occupazione, utilizzare al meglio i periodi di cura, e valorizzare il part-time.
Bolzaneto è un quartiere di Genova, nella periferia della Valpolcevera, devastato da scelte economiche che fino agli anni sessanta vedevano la presenza di una raffineria. Non è un luogo turistico, non ci sono molti motivi per accedervi, se non qualche grande struttura di vendita. Bolzaneto è però conosciuto in tutto il pianeta tra chi ha seguito il movimento altermondialista dell’inizio del secolo, e la violenta repressione delle manifestazioni contro il vertice del G8 nel luglio 2001 a Genova.
A Bolzaneto c’è una caserma di polizia, in quei giorni adibita a posto di detenzione temporanea, in attesa del trasferimento verso le carceri del nord Italia. Questa funzione fu stravolta dopo le prime ore del pomeriggio di venerdì 20 luglio 2001, quando si trasformò in una luogo di tortura per centinaia di manifestanti, 65 dei quali affrontarono come parte lesa il processo che portò alla condanna di alcuni poliziotti (pena massima, tre anni e due mesi a un agente che spaccò la mano a un manifestante). Pene lievi, dovute al fatto che in Italia non esiste il reato di tortura, nonostante le numerose risoluzioni provenienti dalle istituzioni europee.
Recentemente il governo ha proposto un risarcimento di 45mila euro, ammettendo le violenze da parte di pubblici ufficiali, impegnandosi a una legge sulla tortura e a intervenire sulla formazione delle forze dell’ordine, per evitare il ripetersi di casi analoghi a quelli di Bolzaneto. Ma 59 delle 65 vittime di Bolzaneto si sono rifiutate di arrivare ad un accordo transattivo, perchè vogliono arrivare ad una nuova sentenza che condanni per l’ennesima volta lo Stato italiano ad adeguarsi alle convenzioni internazionali, e ad inserire nella nostra legislazione il reato di tortura.
La decisione è significativa perché la proposta di legge sulla tortura, comunque archiviata, prevedeva un generico reato di tortura rivolto a chiunque, invece che ai pubblici ufficiali; introducendo poi labili termini di tempo per la prescrizione, in contrasto con la Corte europea di giustizia. La stessa proposta del ministro degli interni Minniti di istituire dei codici di riconoscimento di reparto, anziché quelli individuali come avviene negli altri paesi, ha il sapore di una beffa: a Bolzaneto e alla Diaz conosciamo perfettamente i nomi dei reparti di polizia coinvolti.
Bolzaneto è sinonimo di tortura: soprattutto verso manifestanti stranieri, luogo di privazione della dignità umana. Diverse testimonianze ricordano come il trasferimento nel carcere di Vercelli, ad esempio, abbia segnato il ritorno dei prigionieri alla dignità di persona umana, dopo l’eclissi del diritto e la violenza - se non programmata - certo tollerata e coperta politicamente e istituzionalmente da parte dello Stato italiano.
Sono molti anni che forze politiche bloccano ogni tentativo di arrivare a una legislazione che ci ponga alla pari degli altri paesi europei. Anche in questi giorni sono stati presentati emendamenti che stravolgono la proposta di legge in discussione, limitando il reato a una reiterazione continuata, come se “strappare” le dita di una mano una sola volta non venga configurato e perseguito come un reato odioso come quello della tortura.
Continuare l’impegno perché non cada l’oblio su questa pagina oscura è una condizione indispensabile per contrastare derive autoritarie, e gravi violazioni dei diritti umani che in questi anni si sono verificati in più casi (Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Aldo Bianzino tra gli altri). Gratitudine verso i familiari delle vittime che hanno mantenuto alta l’attenzione, e verso i non molti politici e magistrati che hanno onorato l’Italia nell’impegno per verità e giustizia per Genova e l’Italia.