èforte la preoccupazione sull’andamento del confronto con il governo sulle pensioni. Si registra un inaccettabile ritardo sulla chiusura della fase uno, in particolare per l’attivazione dell’Ape sociale e gli interventi per i lavoratori precoci.Inoltre non decolla ancora la fase due, che si dovrebbe concentrare su nodi come la pensione per i giovani, la flessibilità in uscita, la differenziazione dell’attesa di vita, il lavoro di cura, la previdenza complementare e la rivalutazione delle pensioni in essere.

Nondimeno la Cgil e lo Spi si stanno preparando al meglio al confronto, anche attraverso l’approfondimento su tutti gli aspetti che caratterizzano il sistema previdenziale italiano, in un’ottica comparativa con le altre realtà europee. Tra gli altri temi, nel corso di un recente seminario dello Spi a Orvieto, è stata affrontata la proposta della “pensione contributiva di garanzia”, a partire da una relazione di uno dei suoi ideatori, Michele Raitano, docente di Politica economica alla Sapienza di Roma.

La proposta intende intervenire sulle difficoltà collegate al sistema di calcolo contributivo. Allo stato attuale, ogni svantaggio (periodi di non lavoro, salari bassi, part-time involontario, forme lavorative caratterizzate da bassa aliquota) equivale a meno contributi e, di conseguenza, a pensioni più basse in futuro.

La “pensione contributiva di garanzia” è uno strumento previdenziale che ha l’obiettivo di raggiungere assegni compatibili con una vita dignitosa. L’idea è che la pensione non potrà mai scendere sotto una determinata soglia, e in tal caso deve intervenire lo Stato con un’integrazione. Una garanzia, appunto. L’obiettivo è ottenere un assegno pensionistico almeno pari al 60% del salario medio di una persona vicina al pensionamento, lo stesso livello previsto dal protocollo sul welfare del 2007. Un esempio? Se si è stati attivi per 42 anni, quando si arriva a 66 anni d’età la pensione non potrà essere al di sotto dei 930 euro al mese (valori odierni).

La proposta riguarda tutti coloro che hanno iniziato a lavorare con il sistema contributivo nel 1996, e che andranno in pensione dal 2040. Il problema sarà vedere l’evoluzione delle carriere da qui a vent’anni e poi per i decenni a seguire. Al momento non sappiamo cosa succederà nel lungo termine, ma siamo in grado di dire cos’è successo dal ‘96 a oggi. Sulla base di varie simulazioni il quadro è preoccupante: il 50% di coloro che andranno in pensione nel 2040 avrà accumulato meno della metà di un dipendente medio.

Quanto all’entità delle risorse necessarie, dipenderà da vari elementi, a partire dalle dinamiche del mercato del lavoro. Con un mercato del lavoro dinamico e inclusivo la spesa previdenziale è sostenibile. La proposta non dovrebbe superare i 5-6 miliardi di spesa nel lungo termine, quando verosimilmente i picchi della spesa previdenziale saranno risolti. Nel 2040 si può pensare di intervenire con il contributo della fiscalità generale e con una parte che invece si autofinanzia, intervenendo sulle pensioni più alte. Ma una misura di tal genere potrebbe attingere per almeno un terzo dai corrispondenti risparmi in minori assegni sociali.

Le proposte alternative sul tappeto riducono di molto il ruolo dello Stato e hanno un costo immediato sul bilancio pubblico. Bisogna, anzitutto, contrastare l’idea secondo cui tutto si può risolvere con la decontribuzione. Ed evitare ipotesi di “pensioni di base” finanziate dalla riduzione dei contributi: ad esempio, per fare una pensione da 500 euro al mese dovremmo abbassare le aliquote di 7 punti, che tradotto vuol dire 14 miliardi.

Il sistema pubblico continua a essere centrale e la proposta rimane nella logica previdenziale, che incentiva e riconosce la disponibilità a stare nel mercato del lavoro valorizzando la contribuzione. Il contrario di quanto avviene oggi: chi ha carriere fragili, in un meccanismo disincentivante, a conti fatti può trovare non conveniente restare nel sistema. Assistiamo a una sorta di solidarietà inversa: chi ha lavori poveri versa all’Inps dei soldi che non si trasformano in pensione, e in ballo ci sono cifre dell’ordine di più di 100 miliardi.

Vogliamo fare l’operazione inversa: non solo tutti i contributi versati vengono riconosciuti, in più c’è una valorizzazione. La proposta, poi, è flessibile: si può decidere quali esigenze valorizzare, modulando il tutto, nel corso degli anni, in base all’andamento del mercato del lavoro. Si possono prevedere, ad esempio, forme di tutela per i laureati in cerca di prima occupazione, utilizzare al meglio i periodi di cura, e valorizzare il part-time.

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