Ancora una volta sarà la partita delle compatibilità economiche a decidere i tempi della politica.
Mai come quest’anno la manovra economica del governo si presenta estremamente complicata e macchinosa. Per ragioni politiche ed economiche. I documenti del governo, il Def e la “manovrina” da 3,4 miliardi - lievitata per dimensioni fino a una “quasi finanziaria”, come l’ha definita Padoan – devono ancora essere sottoposti al giudizio della Commissione europea. La quale valuterà non solo se la correzione richiesta pari allo 0,2% del Pil corrisponde al vero, ma anche e soprattutto se risulta realistico l’impegno italiano a ridurre nel 2018 il deficit strutturale nella misura dell’1,2%, così come scritto nel Def.
Dell’aumento di tasse e in specifico dell’Iva non si sarebbe dovuto nemmeno parlare, perché questo avrebbe incrinato la popolarità dell’uomo di Rignano impegnato nelle primarie del 30 aprile. Pura finzione, naturalmente, perché Renzi non ha mai avuto né la volontà né la forza di ingaggiare un vero braccio di ferro con la Ue, che avrebbe comportato quanto meno una vera alleanza con i paesi più in difficoltà, quali ad esempio la Grecia.
In ogni caso pareva che fosse stato Padoan ad avere vinto il primo round, ottenendo consensi in sede Ue. Anche se molto prudenti, visto che il commissario agli affari economici Pierre Moscovici ancora a fine aprile dichiarava con severo cipiglio che pacta servanda sunt. In realtà era chiaro fin dall’inizio che la vera partita non si giocava ora sul Def quanto sul Nadef di autunno, ovvero sulla Nota di aggiornamento. Il governo è atteso per allora al varco delle cosiddette clausole di salvaguardia, pari a 19,5 miliardi di gettito annuo derivante dall’incremento dell’Iva dal 10% al 13% e dal 22% al 25%. Una mazzata per i consumi, per chi ha redditi più bassi e per l’economia nel suo complesso. Il tutto si giocherà tra settembre e ottobre. Il governo – ma quale? - spera che per allora si concluda l’istruttoria avviata a livello europeo per la revisione dei criteri che determinano il valore del deficit strutturale.
Intanto, dopo che Renzi ha liquidato lo scambio fra aumento dell’Iva e riduzione del cuneo fiscale, con l’attuale manovra il governo si è per così dire portato avanti. Il peso degli aumenti futuri dell’Iva scenderebbe da 19,6 a 15,2 miliardi, attraverso un ripensamento delle aliquote. Quella “agevolata” del 10% subirebbe un aumento nel 2018 all’11,5%, anziché al 13% e quella ordinaria del 22% dovrebbe arrivare al 25% nel 2018, salire al 25,4% nel 2019, per scendere al 24,9% l’anno successivo e stabilizzarsi di nuovo sul 25% dal 2021. Capire le ragioni di questa stravagante altalena lo lasciamo a tecnici più dotati. Resta il fatto che la “contesa” Renzi-Padoan si è risolta con un banale compromesso, grazie al quale - e questo andrebbe sottolineato con forza, mentre è passato sotto silenzio – il governo abbandona la linea della sterilizzazione e sceglie la previsione esplicita di un aumento, seppure un poco meno corposo, dell’imposta sul valore aggiunto.
Ma tutto ciò non mette affatto al sicuro il governo. L’Italia aveva ottenuto lo scorso anno flessibilità sul bilancio per un totale dello 0,25% del Pil, in cambio di una promozione di investimenti pubblici. Che non si sono visti. Anzi l’Istat ha mostrato che nel 2016 vi è stato un calo del 4,4% rispetto all’anno precedente. Il rischio di una procedura per debito eccessivo rimane, ed è del tutto incerto che le spiegazioni tecniche e politiche inserite nel Def riescano a convincere gli euroburocrati di Bruxelles. Del resto gli investimenti in Italia sono al di sotto dei livelli pre-crisi del 2008 (-28%). La componente pubblica degli stessi è in picchiata: dal 2009 un 35% in meno. Eppure l’effetto moltiplicatore di buoni investimenti pubblici è più del doppio di quello che si ottiene con trasferimenti e detassazioni. Mentre la politica dei bonus che ha caratterizzato il duo Renzi-Gentiloni non ha portato nulla né in termini di benessere, né di occupazione. Come dimostrano le basse stime di crescita del Def, che ruotano attorno all’1% per i prossimi tre anni.
Ora che Renzi si presenta vincitore alle primarie, che peraltro hanno visto per la quarta volta diminuire i votanti, deve decidere se andare alle elezioni prima o dopo la legge di bilancio, che comunque non sarà popolare. Non prima di avere fatto una legge elettorale almeno decente, ha detto Mattarella. Il che sarebbe il minimo. I tempi sono stretti. Ma ancora una volta sarà la partita delle compatibilità economiche a decidere i tempi della politica.