In una fredda giornata a Washington, il 20 gennaio, Trump è entrato in carica come 45esimo Presidente degli Stati Uniti. Una cerimonia che sembrava improbabile non più di tre mesi fa ha confermato quello che sembrava impensabile: il miliardario genio della truffa e protofascista è presidente e le sue mani sono ora sulle leve del potere militare e di polizia dell’impero americano. Mentre la cerimonia è stata segnata dalle defezioni del mondo della cultura (solo un manipolo di artisti di scarso rilievo ha voluto esibirsi), anche come presidente eletto ha ancora esercitato il potere dei suoi “tweets” prima del giuramento. Nel suo discorso di insediamento Trump ha audacemente denunciato le elite e i loro politici, molti dei quali seduti davanti a lui, e ha detto che il suo governo sarà per il popolo e la sua prosperità. Alla sua prima conferenza stampa, l’11 gennaio, ha sottolineato tre temi: posti di lavoro, il prezzo dei farmaci e la sanità per i veterani. Temi che trovano il favore della sua base, in particolare negli stati chiave che gli hanno dato il margine di vittoria. Ancora una volta la risposta della stampa è stata distratta, centrata sulla Russia e i suoi legami con Putin. Questo dimostra la sfida che abbiamo di fronte: Trump è indecente, ma un buon comunicatore che sfrutta i temi attraenti per i lavoratori.

Una giusta e rumorosa women’s march di oltre 500 mila donne ha avuto luogo a Washington il giorno dopo, eclissando la folla che aveva celebrato l’insediamento. Le donne e i loro sostenitori sono scesi a Washington, nel freddo polare, con bus da 48 stati e con aerei da Hawaii e Alaska. Centinaia di altri cortei si sono svolti in altre città americane con simultanee manifestazioni di solidarietà in giro nel mondo, compreso al Pantheon a Roma. La grandezza di queste proteste preannuncia un forte movimento.

Seguiranno certamente molte più marce e proteste contro gli attacchi ai migranti e ai neri, in difesa dei manifestanti contro l’oleodotto Standing Rock e del movimento Black Lives Matter, che è stato costretto a prendere di mira gli attacchi razzisti della polizia contro la comunità nera.

Mentre queste lotte saranno appoggiate unitariamente, per sostenere una battaglia di più lungo termine i progressisti dovranno trovare la loro voce nella sistematica decostruzione del programma di Trump sul lavoro, la sanità e le pensioni. Una ben organizzata risposta su questi ed altri importanti temi cade chiaramente sull’organizzazione guida dei lavoratori: i sindacati.

Alla vigilia delle elezioni, i sindacalisti che hanno sostenuto Bernie Sanders e la sua campagna “socialista” per la nomination democratica hanno deciso di convocare una riunione per creare una nuova forma organizzativa che possa portare nel cuore del paese un messaggio di democrazia economica e popolare. Sei sindacati nazionali hanno sostenuto Sanders (Apwu, Atu, Cwa, Ilwu, Nnu e Ue). Questi sindacati stanno decidendo di incontrarsi in febbraio per discutere un programma post elettorale che sfidi esplicitamente l’ortodossia neoliberale che permea l’Afl-Cio e gran parte del movimento operaio e per sostenere la nuova formazione di Sanders, Our Revolution, che intende cimentarsi sul terreno elettorale e nelle primarie democratiche a tutti i livelli.

Questa nuova formazione “oltre Bernie” vuole anche raggiungere gli oltre cento sindacati locali e gli oltre 47 mila iscritti a sindacati che lo hanno sostenuto. E’ una sfida immensa. Basta vedere il senatore Booker per figurare la bancarotta dei democratici pro-impresa. Primo senatore afroamericano del New Jersey, Booker, rompendo il protocollo, ha testimoniato contro la nomina razzista a ministro della giustizia del senatore Jeff Sessions. Ma nella stessa settimana si è speso in difesa dell’industria farmaceutica contro l’importazione dal Canada di farmaci generici a basso costo! Ha votato contro la legge proposta da Sanders che era un passo concreto contro i prezzi imposti da big pharma e dimostrava l’ipocrisia della retorica di Trump. La norma è stata sconfitta perché dodici Democratici, tra cui Booker, hanno votato contro.

Le elezioni hanno dimostrato che i lavoratori americani possono facilmente essere sedotti. Non ne possono più della retorica neoliberista e delle vuote promesse della maggioranza democratica. Andando avanti bisogna vedere se il mondo del lavoro e la sinistra possono affrontare la sfida di Trump con un programma convincente per far avanzare i reali interessi di classe.

Il 20 gennaio si è tenuta la riunione del coordinamento regionale Veneto di Lavoro Società, presente il referente nazionale Giacinto Botti. Il confronto collettivo ha confermato l’importanza della proposta della Cgil in questa fase politico-sindacale. Il positivo esito del referendum costituzionale del 4 dicembre, sia per la forte partecipazione che per il voto espresso, è stato certamente determinato da fattori diversi: dalla finalità politica di far cadere il governo Renzi, al disagio e malcontento sulle condizioni economiche e sociali, ancor più evidente nel voto giovanile. Ma anche per un convinto contrasto, sostenuto dalla valutazione e dall’indicazione di voto della Cgil, a una riforma peggiorativa della Costituzione, per una forte concentrazione dei poteri nel rapporto tra Stato e Regioni e tra governo e Parlamento, ancor più accentuata in caso di “combinato disposto” con l’italicum.

C’è continuità tra il referendum costituzionale e l’attuale fase referendaria a sostegno della Carta dei diritti universali del lavoro. Questa proposta strategica della Cgil incarna l’idea di piena attuazione della Costituzione, di ripristino ed estensione universale dei diritti e delle tutele, di stop alla mercificazione del lavoro. Ha prodotto un primo importante risultato: riportare il lavoro e la sua dignità al centro dell’attenzione politica e mediatica.

La campagna referendaria va portata avanti con determinazione, al di là del depotenziamento della decisione ‘politica’ della Consulta sull’articolo 18, della macchina del fango sul sindacato, di possibili interventi legislativi, da valutare per il loro grado di coerenza con le finalità dei quesiti. Serve uno sforzo straordinario di mobilitazione e controinformazione per raggiungere il quorum e far prevalere il Sì. In gioco c’è anche la misurazione del grado di rappresentanza, consenso e autorevolezza della Cgil.

Contestualmente va data continuità alla nostra iniziativa complessiva, di rappresentanza generale e maggiore inclusività. Quindi, declinare e sostenere a tutti i livelli i piani del lavoro, le proposte su occupazione, sviluppo, beni comuni, sostenibilità ambientale, istruzione e welfare. Rilanciare il confronto e la mobilitazione a sostegno della piattaforma previdenziale, andando oltre i risultati importanti ma parziali acquisiti, e perseguendo un meccanismo strutturale di flessibilità in uscita e di garanzia di una pensione dignitosa per giovani, i precari e per quanti lavorano con discontinuità, condizione necessaria per la sostenibilità della previdenza pubblica.

Poi rafforzare la fase vertenziale per i rinnovi contrattuali, respingendo i tentativi di superare o svuotare la funzione generale dei Ccnl. E’ fondamentale conseguire i rinnovi applicando il Testo unico sulla rappresentanza, e salvaguardando i due livelli di contrattazione sostanzialmente, non solo formalmente. I contenuti di alcuni accordi, dai meccanismi di incremento salariale post verifica inflattiva, all’inserimento dei benefit nel calcolo dell’aumento complessivo, alla possibilità di deroghe ai Ccnl, sono elementi di criticità e preoccupazione che vanno circoscritti e stoppati.

Lavoro Società ha dato un contributo importante affinché l’organizzazione assumesse queste priorità. Abbiamo sollecitato una posizione netta e visibile della Cgil sulla riforma costituzionale, sostenuto l’importanza dei tre quesiti referendari a supporto della Carta dei diritti, spinto fin dal congresso per rilanciare l’obiettivo di una radicale modifica della legge Fornero, valorizzato il Testo unico sulla rappresentanza, espresso la necessità di salvaguardare e mantenere il ruolo centrale ed essenziale del Ccnl nel sistema contrattuale.

Su queste priorità si deve caratterizzare l’autonomia di analisi, proposta e iniziativa della Cgil rispetto al quadro politico-istituzionale. Dal coordinamento regionale sono emersi inoltre alcuni temi sui quali si ritiene necessaria una più chiara definizione dell’orientamento della Cgil: l’intreccio e i rischi nel rapporto tra welfare universale, welfare integrativo, benefit aziendali; il rapporto e i rischi tra l’esigenza di incrementare lavoro stabile, contrattualizzato e soggetto a contribuzione, e la sempre più ampia diffusione non solo di voucher, tirocini, stage, ma anche di lavori socialmente utili per percettori di ammortizzatori sociali e di sostegno al reddito, per profughi in attesa di definizione dello status, e di molteplici attività di volontariato che rischiano di sconfinare nella sostituzione di lavoro.

Con questo quadro di riferimento ci avviciniamo alla prossima fase congressuale. Dobbiamo sviluppare una riflessione approfondita sul contributo e le modalità con cui la affronteremo, sulla evoluzione possibile delle regole e della gestione del pluralismo interno, sul senso della nostra esperienza collettiva.

 

Hanno fatto il passo più lungo della gamba, le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: almeno 600 esuberi, la chiusura di tredici negozi, la cessione di altri sei, il recesso del contratto integrativo aziendale. La coop sei tu, chi può tagliare di più, parafrasando la fortunata campagna pubblicitaria. Unicoop Tirreno è la pecora nera nel gregge Coop. Che la storica cooperativa, nata nel 1971 a Piombino come spaccio dell’Ilva, avesse problemi di galleggiamento era cosa nota, ma che rischiasse di affondare come il Titanic in pochi se lo sarebbero aspettato.

Lavoratori e delegati sindacali si sono trovati sul tavolo un piano industriale drammatico, una cura da cavallo. Ma il cavallo (cioè i lavoratori) non ha alcuna intenzione di subirla. I sindacati precisano che degli oltre 600 esuberi (indicati nel piano come “481 full time equivalenti”), 160 saranno alla sede centrale di Vignale-Riotorto, 95 nella rete di vendita fra Toscana e Lazio (oltre a due negozi in Campania), e gli altri fra i tredici negozi chiusi e i sei ceduti (ancora non è chiaro a chi).

Secondo stime sindacali, Unicoop Tirreno ha salutato il 2016 con un rosso di circa 25milioni: una voragine al termine di sei annate sempre chiuse con il segno meno. E tutto questo nonostante il soccorso del sistema Coop, sotto forma di 170 milioni per rafforzare il patrimonio. Come effetto collaterale della crisi di Unicoop Tirreno, dovrà essere drasticamente ridotta perfino l’attività para-bancaria di gestione del risparmio dei soci: secondo le recenti disposizioni di Bankitalia, per rispettare il rapporto con il patrimonio, i depositi dovranno scendere da 930 a 500 milioni di euro entro la fine del 2019.

Pioggia sul bagnato. “I 481 full time equivalenti, in un contesto lavorativo in cui la maggior parte degli addetti è part time, può significare fino a 600 persone che rimarranno senza lavoro”, sottolinea Paolo Lorenzi. Lui conosce l’argomento, è delegato sindacale per la Filcams Cgil, e lavora al punto vendita Unicoop Tirreno di Viareggio - forte di sessanta addetti - dal 2009. Prima ancora, era il 2003, prestava servizio all’Ipercoop di Livorno. Un delegato esperto, testimone diretto della parabola della cooperativa di consumo piombinese. “Si sapeva che le cose non andavano benissimo, ma la cifra annunciata degli esuberi è stato un fulmine a ciel sereno”.

Già 600 sono tantissimi, e il conto non si ferma qui. Quanti sono gli stagionali che nel periodo estivo venivano chiamati anno dopo anno presso i negozi delle località turistiche? Quanti sono i lavoratori interinali che venivano utilizzati per coprire i picchi lavorativi festivi? Tutte persone che speravano, e sono state illuse per anni, di aver trovato un approdo sicuro tra le braccia della grande cooperativa.

Sindacati e lavoratori hanno già annunciato un pacchetto di scioperi. “Stiamo ancora discutendo come organizzare la nostra protesta. Le assemblee sono partecipatissime”, racconta Lorenzi. “Ai licenziamenti si aggiunge la cancellazione del contratto integrativo. Una cosa del genere non era mai successa. Abbiamo paura che quanto sta accadendo a noi possa fare da testa di ponte per le altre aziende della galassia Coop”. Fra queste naturalmente c’è chi naviga in acque decisamente più tranquille, come ad esempio Unicoop Firenze.

Unicoop Tirreno è intimamente legata alla costa toscana, lì dove è nata nel secondo dopoguerra (Val di Cornia) e si è sviluppata (province di Livorno, Grosseto, Lucca, Massa Carrara). Le cifre parlano chiaro: 116 tagli di posti full time equivalenti (fte) arriveranno dalle cessioni di 8 negozi, 110 dalle chiusure di 13 negozi, 160 dal personale della sede di Riotorto, e 95 ulteriori esuberi nella rete vendita. Circa il 10% di tutta la forza lavoro della cooperativa. “Il piano industriale avrà un impatto negativo su tutto il territorio. I sindacati non hanno alcuna intenzione di avvallare i tagli al personale. Non è possibile che siano solo i lavoratori a pagare anni e anni di strategie commerciali sbagliate”, dice ancora Lorenzi. “Gran parte di noi ha investito nell’azienda attraverso il prestito sociale, la crisi ci colpisce ancora di più perché siamo parte di questa azienda”.

Lorenzi spiega quanto il lavoro degli addetti coop nei punti vendita sia molto ‘fisico’. Dal carico e scarico delle merci, all’uso delle attrezzature per i reparti gastronomia, pescheria, macelleria (affettatrici, coltelli), fino ai turni di cassa che si susseguono senza soluzione di continuità. E il servizio ai clienti va dato, non ci possono essere buchi negli organici. “Questo piano è impraticabile. Il nostro no è motivato e deciso, siamo compatti”.

 

Sabato 21 gennaio abbiamo visto la faccia splendida del Montello: non c’erano fiaccole, insulti, rabbia e paura, ma sorrisi, sole e musica.

Tutto era iniziato con uno striscione da brividi: “Il Montello sarà il vostro inferno”. Preparato e portato lì dai soliti seminatori di odio neofascisti, sostenuto poi e fatto sfilare da leghisti e padri di famiglia locali davanti ad un imperturbabile governatore del Veneto, Luca Zaia. Era fine dicembre, una di quelle fiaccolate da Ku Klux Klan in salsa veneta per protestare contro la presunta (e mai presa) decisione di aprire l’ennesimo centro di accoglienza di emergenza per richiedenti asilo in una ex polveriera. Ormai è la prassi: pochi comuni favoriscono l’accoglienza diffusa, così le prefetture sono costrette ad organizzare hub più o meno grandi per gestire l’emergenza.

Si levò alta molta indignazione, Zaia disse di non essersi accorto dello striscione incriminato, qualcuno ricordò loro che proprio dal Montello (una sistema collinare pedemontano sulle rive del Piave) partirono come profughi oltre 20mila trevigiani verso il nuovo mondo. Ce li immaginiamo quei ragazzotti e quei padri di famiglia: si saranno incontrati in osteria dopo essersi scambiati un segno di pace alla messa di mezzanotte di Natale, e dopo un brain-storming a base di cabernet avranno trovato geniale preparare uno striscione, per augurare a persone che fuggono da miseria e guerra che il luogo di accoglienza per loro predisposto diventi un inferno.

Ma sabato scorso abbiamo potuto vedere un’altra splendida faccia del Montello: non c’erano fiaccole, insulti, rabbia e paura, ma sorrisi, sole e musica. Cinquecento volontari di un grande festival sulla multiculturalità, “Ritmi e danze dal mondo-Crocevia di incontri e di culture” che si svolge da 22 anni proprio lì, hanno lanciato un appello per una manifestazione di riparazione con “la marcia dei millepiedi”. Hanno chiesto di testimoniare di persona che l’immagine del Montello che ha girato l’Italia non corrispondeva alla realtà. E così è stato.

Oltre cinquemila persone, per cui ben di più di mille piedi, hanno attraversato gli splendidi declivi della terra del prosecco tra balli e canti e bandiere arcobaleno. Per testimoniare che la solidarietà e l’accoglienza vincono la paura e l’odio. Ma è stata una manifestazione con la capacità anche di porre con forza la necessità di affrontare la questione delle migrazioni in modo organico e nuovo, superando l’eterna emergenza.

Serve rivedere a fondo il rapporto tra l’Europa e il continente africano, tra il diritto internazionale e le guerre, tra modelli di sviluppo e stravolgimenti climatici globali. E proprio da una terra come il Veneto, che ha vissuto il dramma dell’emigrazione in passato, e ora subisce la pervasiva propaganda razzista a buon mercato che alimenta ansie e paure, può venire un messaggio di speranza.

Il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in Europa è in crisi perché non si vuole affrontare un nodo determinante ed ineludibile: quello della presenza di decine di migliaia di migranti economici che non hanno più canali di migrazione regolare verso l’Europa, e tentano di entrare seguendo le rotte dei trafficanti di esseri umani assieme a chi fugge dalle guerre libiche, siriane e irachene. Persone che poi vengono stritolate dai meccanismi del diritto internazionale sulla protezione umanitaria, finendo per rimanere senza documenti e permesso di soggiorno ai margini della società. Dobbiamo avere il coraggio di affrontare a livello europeo questo grandissimo dramma che riguarda persone, che non sono solo freddi numeri nelle statistiche delle prefetture, per dare accoglienza e protezione a chi fugge da guerre e persecuzioni, e possibilità di migrazioni regolari a chi cerca un lavoro e un futuro migliore per sé e per la propria famiglia.

La storia del Veneto, terra di migranti verso il nord e sud America, verso la Svizzera e il Belgio, verso la Germania e la Francia ci dice che le migrazioni non si fermano davanti a leggi o circolari. Sono il motore dello sviluppo umano e alla fine vincono sui pregiudizi e producono società nuove, benessere e sviluppo. Non potete fermare il vento, potete solo fargli perdere tempo.

 

Al di là delle polemiche del dopo, dobbiamo pretendere un diverso modello di sviluppo, sostenibile e rispettoso del territorio.

Gennaio 2017, mese in cui una serie straordinaria, tragica e luttuosa di eventi si è combinata in maniera perfetta da suggerire al Centro, quotidiano locale, il titolo “Apocalisse Abruzzo”: una nevicata eccezionale, che ha scaricato sulla nostra regione fino a quattro metri di neve; quattro scosse di terremoto superiori ai cinque gradi di scala Richter; l’esondazione del fiume Pescara, che ha provocato l’allagamento di parte della città; decine e decine di Comuni isolati che sono rimasti fino a sei giorni senza corrente elettrica, e quindi senza riscaldamento; e poi le vicende tragiche del resort di Rigopiano e della caduta di un elicottero dei soccorsi.

Al di là dello stuolo di polemiche che, dopo le tragedie (sempre dopo), occupano le pagine dei giornali e i dibattiti nelle televisioni (se quell’albergo poteva stare in quel posto, se tutto si è fatto in maniera corretta, ecc.), e al di là del fatto che molte di queste diventano strumentali e fuori luogo, rimane una riflessione che ci deve impegnare come Cgil: e cioè che noi dobbiamo pretendere un diverso modello di sviluppo per il nostro paese, e in particolare per la nostra regione.

L’Abruzzo è una regione meravigliosa, una canzone popolare recita: “L’Abbruzz è la cchiù bbell d’ tutt l’ reggion – p’cchè te la Majell, p’cchè la ggent è bbon...” (L’Abruzzo è la più bella di tutte le regioni – perchè ha la Majella, perchè la gente è buona). Ma ha un territorio fragile. Non possiamo più pensare di sottomettere la natura alle ragioni del profitto, depredarla e mancarle di rispetto, non possiamo più pensare che i terremoti siano eventi unici o eccezionali; sopratutto nell’Italia centrale dobbiamo imparare a conviverci. Così come le modificazioni climatiche ci devono convincere che eventi atmosferici come queste ultime forti nevicate si potranno ripetere con una frequenza maggiore rispetto al passato.

Allora la rivendicazione di un modello di sviluppo sostenibile, inclusivo e intelligente deve impegnarci con energia e con fantasia. Il rapporto con il territorio, conoscerne tutte le peculiarità e tutte le fragilità deve essere una scelta obbligata e irreversibile. Recuperare piuttosto che continuare a costruire; stare attenti alle emissioni e alla produzione di energia; bonificare e ripristinare l’esistente; usare norme antisismiche sia per le abitazioni private che per gli opifici industriali; rispettare le zone protette e prestare la massima attenzione alla sicurezza e alle condizioni di lavoro: sono temi che dovremo coniugare in tutte le forme possibili, costruire su questo consenso tra i lavoratori, e impegnare tutta l’organizzazione.

Noi in Abruzzo ci misureremo su questi temi e su proposte di sviluppo industriale sostenibile con iniziative di confronto, ma anche di mobilitazione e di lotta per porre all’agenda delle istituzioni locali e delle nostre controparti il tema della qualità dello sviluppo, della qualità dell’occupazione e della lotta alla precarietà, assieme al tema del rispetto dell’ambiente e del territorio, e di una non più rinviabile necessità di inversione di tendenza sull’approccio culturale al tema “sviluppo e territorio”.

 

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