Mentre tutto il mondo dava l’addio al 2016 e festeggiava l’arrivo del nuovo anno, è arrivata la notizia inaspettata della scomparsa di una persona cara e preziosa per tutti noi: è morto Monsignor Hilarion Capucci, arcivescovo di Gerusalemme in esilio: un altro simbolo e pezzo della storia della Palestina. Anche se era avanti con l’età, la notizia della sua scomparsa – padre e uomo di culto e guida spirituale, amico caro di tanti anni e di tante battaglie, simbolo di una causa giusta sicuramente vittoriosa anche se non ha ancora vinto - sconvolge tutti: palestinesi, arabi, e gli amici della causa palestinese. Silenzio, dolore, rabbia per la durezza e il tradimento di questo mondo. Tanti pensieri, tanti ricordi e tanti perché mi sono passati in mente in quell’attimo.

Monsignor Capucci è morto qui a Roma, capitale della sua seconda o terza... patria. Era nato nella martoriata Aleppo (Siria) il 2 marzo 1922. Dal 1965 è stato arcivescovo della chiesa greco cattolica a Gerusalemme fino al suo arresto da parte delle forze d’occupazione israeliana nell’agosto 1974, con l’accusa di trasporto di armi per i combattenti palestinesi di Al Fatah. Viene arrestato, torturato, processato e condannato a 12 anni di carcere. Il suo diventa un caso internazionale: il popolo palestinese in rivolta ovunque, manifestazioni di piazza in tutte le capitali del mondo, i governi si muovono e Israele è costretta a rilasciarlo dopo meno di 4 anni di carcere e consegnarlo al rappresentante dello Stato del Vaticano, del Papa Paolo VI, e portarlo a Roma, nel novembre 1977, a condizione di non più far ritorno in Palestina, alla sua amata Gerusalemme.

In quei giorni affermava: “Io non sono una straordinaria leggenda, sono un semplice uomo di questo grande popolo combattente. Ho visto violare il bene, la ragione, il diritto e la giustizia, ho semplicemente gridato e rifiutato il male e l’ingiustizia. Io santifico la terra di Palestina e la sua Gerusalemme che dovrà rimanere araba per sempre”.
Soffriva il suo esilio forzato di Roma, ringraziava l’Italia - presidente, governo e popolo - per l’ospitalità, la generosità e la solidarietà; però il suo cuore e la sua mente erano lì a Gerusalemme. Diceva sempre: “L’esilio è una grande sofferenza, è una tortura, e solo Dio sa della mia sofferenza” Tutti i giorni lo chiamava il presidente Yasser Arafat e tutta la Direzione palestinese; le masse palestinesi ed arabe continuavano a manifestare per la sua libertà e il suo ritorno a casa, a Gerusalemme, in Palestina.

L’ho conosciuto fin dal suo arrivo, l’ho accompagnato nei suoi vari scioperi della fame che fece nella sede della Lega degli Stati Arabi a Roma, contro i vari massacri israeliani contro il popolo palestinese. Mi chiamava figliolo e in lui ho trovato un padre, un maestro spirituale e un esempio di vita. Non ha mai perso una commemorazione della scomparsa del suo amico Arafat, l’11 novembre di ogni anno (dal 2004). Quando veniva a sapere di qualche anniversario o manifestazione, dove non era stato invitato o informato, chiamava e chiedeva il motivo: per lui eravamo una “boccata di vita e di ossigeno”. La sua telefonata era musica per il mio orecchio. Alla domanda, “Come stai siidna” (in palestinese, nostro nonno), rispondeva subito: “Cosa vuoi che ti risponda, figliolo, vedendo e sentendo le notizie provenienti dall’Iraq, dalla Siria, da Gaza, dallo Yemen, il mio morale è come il zeft (il catrame)...”.

Il sogno che ha sempre avuto era quello di poter tornare e vedere Gerusalemme, la sua chiesa, la sua gente, prima di lasciare l’inferno di questo mondo e tornare alla casa del padre, come diceva. Rispondevo subito che era ancora giovane, e che noi e la Palestina avevamo proprio bisogno di lui, specialmente dopo la scomparsa di Yasser Arafat.

Addio Monsignore, addio padre, maestro, simbolo, addio grande uomo di grandi ideali ed umanità. Ci mancherai, ma ti ricorderemo sempre per il tuo bel sorriso, il tuo ottimismo e il tuo spirito rivoluzionario. Sarai eternamente nei nostri cuori e nelle nostre lotte per una Palestina libera, laica e democratica, patria libera e rispettosa per tutti i suoi concittadini e per un mondo diverso, più giusto e più civile. Un giorno andrò a Gerusalemme e ti farò una lunga preghiera al Santo Sepolcro e alla moschea di Al Aqsa, caro siidna.

 

Sulla emme più famosa del mondo hanno fatto anche un film. In Italia uscirà a giorni, il protagonista è un attore di grande bravura, Micael Keaton, nei panni dell’uomo che ha ‘inventato’ il panino griffato più celebre del pianeta. McDonald’s. Chi più chi meno tutti ne abbiamo assaggiato uno, magari con le patatine fritte, senza pensare troppo a chi fa il big mac, il cheeseburger, e tutto il resto del menù.

Se esiste una multinazionale, McDonald’s lo è. Al pari della Coca Cola. L’esercito dell’hamburger è una sorta di Quarto Stato, con milioni di addetti in tutto il mondo. Spesso e volentieri giovanissimi, spesso e volentieri studenti-lavoratori, e tanti tanti immigrati. Succede perché il lavoro è quasi sempre part-time, la paga è bassa, e il turn-over elevato.

Giuseppe Augello fa eccezione, ha iniziato a lavorare per la grande emme nel 2008 e ci lavora ancora oggi. Sta resistendo da quasi dieci anni, un piccolo record in un’azienda che non fa solo fast food ma anche fast work. “Mi pagano circa 750 euro al mese, me le faccio bastare. E non ho mai rinunciato a protestare quando era il caso, e anche a scioperare». Augello, delegato sindacale di McDonald’s, è anche lui un personaggio da film. A parlarci capisci che ha coraggio da vendere, ed è sempre pronto a difendere i colleghi di lavoro che cuociono carne, friggono pesce, pollo e patatine, spillano coca e birra, battono scontrini ai quattro angoli del pianeta.

Augello è Rsa Filcams Cgil da quando ha cominciato a lavorare per la multinazionale del panino. McDonald’s ha cercato di liberarsi di un addetto ‘scomodo’ come lui, ma non ci è riuscita. “Prima mi hanno mandato a Bergamo, poi in due locali destinati alla chiusura, nel cimitero degli elefanti. Con quelli che vogliono mandar via fanno così”. Augello ha citato l’azienda davanti al giudice, per contestare un apprendistato lungo tre anni ma senza formazione. “Uno dei tanti escamotage per pagare meno gli addetti”. McDonald’s ha dovuto accettare la conciliazione, assumerlo a tempo indeterminato, e pagargli tutti gli arretrati.

Cappellino e uniforme di ordinanza, i ragazzi della grande emme sono stati fra i più flagellati dalla tempesta dei voucher. Sono finiti anche in televisione. Augello la vede così: “Mc Donald’s a modo suo è un’azienda dinamica, cambia continuamente strategie e modi di sfruttare il personale”. Il risultato è presto detto: trenta ore di lavoro settimanale, diviso tra cassa, cucina e all’occorrenza a fare le pulizie della sala, ricompensate con i voucher - i buoni dell’Inps con cui si pagano i lavoratori a chiamata, 7,5 euro netti all’ora. Con nessun diritto a ferie, permessi, trattamento di fine rapporto.

“Su questa brutta storia dei voucher - racconta ancora Augello - dopo lo scandalo andato in tv si sono dati una regolata. Ma lo sfruttamento resta. Al momento dell’assunzione fanno firmare clausole di flessibilità che permettono all’azienda di cambiare i turni a suo piacimento. Insomma, un lavoratore di McDonald’s deve aspettare che escano i turni anche solo per per organizzare una cena con gli amici”.

In alcuni punti vendita è stato sperimentato il franchising: con la cessione di ramo di azienda sono passati alla gestione di piccoli imprenditori privati.

Va da sé che l’industria del panino con la grande emme continua ad andare a gonfie vele. “L’azienda invece piange miseria, con gesti anche di cattivo gusto come quello di eliminare il tradizionale regalo di un panettone a Natale”. Grazie ai contratti di apprendistato l’azienda ha guadagnato parecchio. “L’età media dei lavoratori - spiega Augello - è piuttosto bassa, dai venti ai trent’anni. I pochi ‘anziani’ esistono grazie alle battaglie del sindacato. Qui a Milano, dove lavoro, i punti vendita sono una trentina. Io sono impiegato alla Galleria Fontana, ex Vittorio Emanuele”.

Augello potrebbe scrivere un manuale di sopravvivenza all’interno di una multinazionale come McDonald’s. “Un altro esempio della poca chiarezza dell’azienda riguarda le norme di sicurezza. Troppa poca formazione per un lavoro piuttosto complesso, che va dalle friggitrici allo scarico delle merci. E anche i tempi di lavoro sono asfissianti: i neo assunti sono costretti a tenere ritmi folli, quasi fossero pagati a cottimo. Molti dopo qualche settimana piantano il lavoro perché non ce la fanno”. Questo è il lato oscuro del panino più famoso del mondo.

Augello è fiero delle battaglie fatte contro trasferimenti e licenziamenti di lavoratori ‘scomodi’, delle assemblee organizzate di domenica, nonostante il divieto dell’azienda. “L’ho presa come una battaglia personale - dice con malcelata soddisfazione - mi hanno fatto scaricare camion, pulire bagni, trasferito a Bergamo. Grazie al tribunale di Milano e alla Filcams Cgil ne sono uscito vittorioso”.

 

Dopo un percorso aperto e partecipato, la Cgil Puglia ha lanciato una piattaforma per lo sviluppo regionale. 

Non ci può essere sviluppo della nazione se non si argina la crisi produttiva ed occupazionale del Mezzogiorno. Un’economia che viaggia a due velocità, e il divario tra le aree territoriali che ne deriva, fa da freno alla locomotiva paese. Forte di questa convinzione, la Cgil Puglia rilancia la sua azione sindacale elaborando una propria piattaforma politico-programmatica, nel solco già tracciato dalla Cgil nazionale attraverso la proposta sullo sviluppo del Mezzogiorno-Laboratorio Sud. Il documento ripercorre in modo puntuale le criticità esistenti nella nostra regione, aggiornandone l’analisi, e individua le proposte per favorire sviluppo e occupazione, e per contrastare le povertà crescenti.

L’obiettivo è quello di provare ad invertire il saldo negativo, rispetto al 2008, confermato in Puglia da alcuni indicatori: il tasso di disoccupazione al 19,7%, per le donne al 21,8% e giovanile (under 24) al 51,3%; i giovani Neet (15-34 anni) sono 338mila; gli individui a rischio povertà il 27,9%, e le famiglie nella fascia di povertà relativa il 18,7%; il Pil pro-capite è sceso a 16.973 euro (era 17.646).

Si evidenziano nel metodo di costruzione della piattaforma almeno due elementi innovativi. Da un lato la volontà di privilegiare il coinvolgimento ampio delle strutture, attraverso un percorso attento e condiviso con le Camere del lavoro, le categorie e anche il mondo accademico. Dall’altro, la scelta della Cgil di essere parte integrante di un processo decisionale più ampio - la consapevolezza di essere una parzialità aiuta la costruzione delle alleanze - esplorando nuovi terreni di confronto e promuovendo, dove possibile, percorsi di “governance”. L’idea è di mettere assieme tutti i soggetti impegnati nello sviluppo del territorio - settore dell’istruzione, della ricerca scientifica, imprese, istituzioni, parti sociali - con l’obiettivo di lavorare ad individuare nuovi settori economico-produttivi sui quali dirottare gli investimenti, e dai quali potrebbero nascere nuove opportunità lavorative.

Nella fase interlocutoria si è ragionato sulle problematiche esistenti nella nostra regione, su come fronteggiare le vertenze in atto, ma anche sul bisogno di approfondire una riflessione sulle novità intervenute nel mercato del lavoro, a partire dalle nuove tendenze dello sviluppo dell’economia, per favorire un ammodernamento del nostro sistema produttivo. Lo sviluppo tecnologico infatti incide sulla domanda di lavoro. E se da un lato appare drammaticamente vero che una quota considerevole di posti di lavoro persi durante la crisi non ritornerà ad essere disponibile, dall’altro apre a nuove opportunità occupazionali che possono generarsi proprio da quei settori interessati dalle innovazioni di processo e di prodotto. E’ nostro compito dotarci degli strumenti per riconoscerle.

Per questo si individuano alcune aree di intervento. L’economia digitale (Industria 4.0) ha già avuto alcune sperimentazioni anche in Puglia come la sharing economy, oppure l’innovativo progetto “Crescere in digitale” (nell’ambito di Garanzia Giovani), che agiva sulla formazione dei ragazzi alle competenze digitali con l’obiettivo di aiutare l’impresa a digitalizzarsi (le imprese digitalizzate aumentano di valore).

Le specificità del territorio, secondo il sempre valido assioma economico che suggerisce di “valorizzare ciò in cui potremmo essere davvero competitivi”, sono un altro terreno fondamentale. Sono le risorse primarie e il bagaglio di conoscenza ad esse legate, quindi per noi il turismo (all’interno di una visione strategica), l’industria culturale (è già in Puglia il 32,6% del totale della spesa turistica), la valorizzazione del nostro patrimonio archeologico, i nostri marchi e la manifattura di qualità, i prodotti tipici e l’organizzazione internazionale della loro commercializzazione. Siamo il paese dei Comuni, 258 in Puglia, dovremmo mettere a valore questa specificità unica in Europa.

Va rafforzato il ruolo dei servizi pubblici. La diffusa percezione della scarsa utilità sociale dei servizi pubblici è alla base della crisi in cui versano gli stessi settori del pubblico impiego. Perciò, per invertire questa tendenza abbiamo bisogno di avvicinare i servizi pubblici, il loro valore strategico, allo sviluppo dei territori e quindi dell’impresa (ad esempio con la digitalizzazione dei servizi e la sburocratizzazione delle procedure).

La green economy è un settore produttivo strategico, su cui la Puglia ha molto investito confermandosi al primo posto per la produzione di fonti eoliche e fotovoltaiche e al terzo posto per le bioenergie. Ed è in prima fila per il recupero di siti inquinati, per la raccolta differenziata, per la tutela e il monitoraggio del territorio, delle coste e dei mari, e infine per la bioedilizia. Rimane tanto da fare in termini di progettazione urbana sostenibile e di approccio da parte del mondo produttivo.

Alcuni economisti affermano: “L’Italia è forte se scommette su ciò che la rende unica e desiderata nel mondo: cultura, qualità, conoscenza, innovazione, territorio e coesione sociale”. Nella cosiddetta società delle competenze l’istruzione diviene fondamentale leva dello sviluppo, anche economico.
L’innovazione tecnologica, e la nuova organizzazione del lavoro che ne deriva, richiede al capitale umano lo sviluppo di un bagaglio conoscitivo più vasto. Serve una maggiore attenzione alla qualità dei saperi tradizionalmente intesi, quelli acquisiti sui banchi di scuola e dell’università, dove si apprende quella base scientifica che sottende le tecnologie e permette di accedervi anche quando queste mutano. E serve formare i giovani a nuove e ulteriori competenze, come l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la creatività, l’atteggiamento positivo nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, di saper stare in gruppo.

Nuove abilità queste, altrettanto determinanti per la crescita economica, che potrebbero essere garantite e affinate attraverso un ragionamento serio sull’utilizzo dello strumento dell’alternanza scuola lavoro; al contrario della tendenza che se ne fa oggi verso un impiego assai “povero”, voluto da una riforma fatta male, che ben che vada garantisce alle giovani menti l’apprendimento di una tecnologia magari dopo tre mesi già obsoleta.

Una piattaforma, quella elaborata dalla Cgil Puglia, dove le politiche contrattuali delle categorie e dei territori si intersecano, raccordandosi, con un’unica idea generale di sviluppo. Questo accade quando sono chiari gli obiettivi che si vogliono perseguire.

 

L’Istat ha presentato la quarta edizione del Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes). Il Bes è stato sviluppato dall’Istat a partire dal 2010, dopo un ampio e articolato dibattito – avviato da un gruppo di lavoro del Cnel - che ha coinvolto istituzioni, mondo della ricerca e società civile. Il quadro di misurazioni che ne è scaturito è orientato a supportare il dibattito pubblico e le scelte politiche, obiettivo rafforzato dalla nuova legge di bilancio, che prevede di misurare l’efficacia delle politiche pubbliche anche attraverso i loro effetti sugli indicatori di benessere, andando oltre il semplice dato economico rappresentato dal Pil. A partire dal 2017, governo e Parlamento saranno chiamati a valutare, insieme al tradizionale Documento di programmazione economico-finanziaria, il Def, proprio gli indicatori del benessere equo e sostenibile.

I centrotrenta indicatori del Bes sono articolati in dodici domìni: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi. Il rapporto propone anche misure sintetiche (indicatori compositi) di alcuni domìni che consentono l’aggregazione in un unico valore dei singoli indicatori.

Nel periodo 2015-16, gli indicatori compositi di soddisfazione per la vita, occupazione, istruzione, salute e ambiente danno segnali di miglioramento rispetto al 2013, che aveva costituito il punto più negativo delle precedenti rilevazioni. Una sostanziale stabilità si rileva per condizioni economiche minime, qualità del lavoro, relazioni sociali e reddito. Dal confronto con la situazione del 2010 emergono trend positivi per salute, ambiente, istruzione, e un recupero per l’occupazione; livelli lievemente inferiori si registrano per reddito, relazioni sociali e soddisfazione per la vita. I divari sono invece ancora rilevanti per condizioni economiche minime e qualità del lavoro.

Il quadro che emerge rispetto al 2013 è quindi di miglioramento o stabilità; il recupero è invece ancora parziale nel confronto con il 2010. E si conferma, per certi versi si amplia, il gap tra centro-nord e Mezzogiorno. Nell’ultimo anno, il nord e il centro registrano un miglioramento per ambiente, salute e istruzione, mentre negli altri domìni si è tornati vicini ai livelli del 2010, ad eccezione della qualità del lavoro. Nel Mezzogiorno permangono forti divari rispetto al 2010 per condizioni economiche minime, qualità del lavoro e soddisfazione per la vita, mentre si rilevano miglioramenti in tutti i domìni nel confronto con il 2013.

Non è possibile dar conto dell’insieme delle misurazioni. Ci limitiamo, quindi, a sottolineare alcuni aspetti, che confermano la criticità della situazione del nostro paese. L’Italia si conferma uno tra i paesi più longevi d’Europa, anche se la qualità della sopravvivenza (misurata con la speranza di vita senza limitazioni a 65 anni), resta sotto la media europea. Inoltre, nel 2015 la speranza di vita alla nascita è scesa da 82,6 a 82,3 anni.

Per quanto riguarda l’istruzione, l’Italia è riuscita a ridurre, ma non a colmare, il divario accumulato nei confronti degli altri paesi europei. La quota di 25-64enni con almeno il diploma è di oltre 16 punti inferiore alle media europea così come il tasso d’istruzione terziaria dei giovani 30-34enni è inferiore di oltre 13 punti e ancora molto lontano dall’obiettivo previsto da Europa 2020.

Per quanto riguarda l’occupazione, continuano ad ampliarsi le differenze intergenerazionali: il tasso di occupazione aumenta in modo sostenuto soltanto per gli ultra cinquantacinquenni (+2%), che tardano a uscire dal mercato del lavoro a seguito della legge Fornero.

I presunti segnali positivi sull’economia non coinvolgono quanti vivono in condizioni di forte disagio economico. Nel 2015 la quota di persone a rischio di povertà sale al 19,9%, dal 19,4% del 2014, e la povertà assoluta cresce a quota 7,6%, pari a 4 milioni e 598 mila persone. Il disagio economico è legato alla difficoltà a entrare e restare nel mercato del lavoro.

Permangono forti nel paese le differenze territoriali nei livelli di benessere economico. Nel Mezzogiorno il reddito medio pro-capite disponibile delle famiglie consumatrici è il 63% di quello delle famiglie residenti nel nord ed è maggiore la disuguaglianza del reddito. Il Mezzogiorno è anche l’area del paese con i livelli di povertà più elevati: il rischio di povertà coinvolge il 34% dei residenti, una quota tripla rispetto al nord.

 

Respingimenti, rimpatri di massa, riapertura dei Cie: l’illusione di bloccare i flussi migratori con la negazione dei diritti umani.

Nei giorni scorsi, con una circolare interna, trasmessa a tutte le prefetture e questure del paese e a tutte le forze dell’ordine, il nuovo ministro dell’Interno e il capo della Polizia hanno annunciato una stagione di tolleranza zero sul terreno dei respingimenti e rimpatri dei migranti. Per fare questo si annunciano nuove aperture di centri di identificazione ed espulsione, i cosiddetti Cie, in ogni regione d’Italia.

Come ministro e capo della Polizia dovrebbero sapere, in passato altri governi ci hanno provato: il risultato è stato fallimentare rispetto alle espulsioni di massa che si prefiggevano di realizzare. Molti Regioni, allora, si sono fortemente opposte, e anche in questi giorni si è alzato un coro di “no”, proveniente da esponenti del mondo politico, delle istituzioni, delle associazioni, dei sindacati. Le ferite derivate dall’esperienza dei Cie sono ancora aperte, e le coscienze profondamente turbate dalle gravi violazioni dei diritti umani e dai morti che questi centri di detenzione hanno provocato.

L’obiettivo del governo italiano e dei governi europei resta quello di fermare le persone che vogliono varcare le nostre frontiere. Prima con il governo Renzi, adesso con il governo Gentiloni, si vuole replicare il vergognoso accordo Ue-Turchia sulla gestione della migrazione, estendendo accordi per bloccare i migranti con i paesi africani di origine e di transito. Fuor di perifrasi, si tratta in realtà di deportare migliaia di profughi e di pagare gli stati africani per questo ignobile lavoro.

Il piano denominato “Migration compact” è simile a quello dell’accordo con Erdogan: si delega a paesi terzi la responsabilità di gestione delle frontiere, senza alcuna attenzione al rispetto dei diritti umani, reiterando la pericolosa equazione “sicurezza vs immigrazione, immigrazione-terrorismo. Tutto questo con la collaborazione con alcuni regimi e dittature africane.

Come si fa a siglare un accordo con il Sudan, paese detentore di un primato per gravi violazioni dei diritti umani? I fondi per la cooperazione devono servire allo sviluppo e al benessere dei popoli, e non possono essere utilizzati per fermare i flussi migratori: mentre da quello che si capisce dalle notizie, i soldi che oggi sono stati promessi al presidente del Sudan, e che ammontano a 175 milioni di euro, non aiuteranno il paese ma il governo a capo del quale c’è un dittatore che ha ricevuto due mandati di cattura internazionale per genocidio.

Il governo italiano e quelli dei paesi europei devono assumersi la responsabilità di raccontare la verità ai loro popoli, e dire che le migliaia di profughi e richiedenti asilo che approdano in Italia e in Europa non hanno via scampo, scappano da situazioni estremamente difficili, sia dal Medio Oriente che dall’Africa. A guerre, dittature, carestie si aggiunge il dramma ecologico: l’Onu prevede che entro il 2050 ci saranno 250 milioni di esiliati climatici, perché nelle loro terre non si potrà più vivere, ci sarà una situazione devastante.

Le politiche di chiusura non serviranno a nulla. Occorre mettere in campo politiche che favoriscano canali di ingresso regolare per coloro che fuggono da guerre, persecuzioni, fame, povertà; avviare per via diplomatica processi di pace nelle zone di conflitto; attuare serie politiche di cooperazione allo sviluppo centrate sulla dignità ed il benessere dei popoli; e fermare lo sfruttamento perpetuo senza scrupolo delle materie prime dei paesi africani, con l’espropriazione delle terre dai parte delle multinazionali – il cosiddetto “land grabbing” - che oltre a ridurre le popolazioni a povertà estrema sta distruggendo l’ambiente.

 

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