Il centenario della morte di Lenin cade in un clima culturale e politico non certo favorevole al libero confronto intellettuale e ben poco incline a valutare ragioni ed eredità di un evento che, qualunque possa essere il nostro giudizio, ha segnato un radicale cambio di passo nella storia dell’umanità, dal quale non si può prescindere.
In un quadro nel quale comunismo e nazismo sono presentati come fratelli gemelli, generati dalla stessa degenerazione totalitaria, il principale protagonista della Rivoluzione russa è generalmente considerato l’origine di ogni moderno fanatismo ideologico. Se il Novecento è stato archiviato come il secolo degli orrori, delle dittature e dei totalitarismi, secondo l’opinione oggi prevalente, Lenin è l’arcidiavolo cui vanno imputate tutte le calamità e gli orrori di un secolo insanguinato.
Che la storia apertasi con l’assalto al cielo nell’ottobre del ‘17 abbia vissuto contraddizioni e limiti è fuori discussione, altrimenti i nostri ragionamenti sarebbero diversi e tratterebbero altre problematiche, senza dover partire da un dato di fatto ineludibile: la sconfitta storica del socialismo. Anche tenendo conto di questo epilogo con le sue molteplici concause, tuttavia, una maggiore storicizzazione tanto del socialismo in generale quanto dei processi rivoluzionari che hanno infiammato l’Occidente nel Novecento aiuterebbe a comprendere meglio questo secolo segnato da grandi drammi, ma anche da conquiste epocali nella storia della lotta per l’emancipazione dell’umanità.
Il primo presupposto concettuale della rivoluzione di Lenin è che ogni Paese avrebbe raggiunto il socialismo a modo suo, secondo le proprie peculiarità economiche, storiche e culturali. Coerentemente con questa prospettiva, Lenin giunge alla conclusione che il percorso verso il socialismo del suo Paese avrebbe dovuto essere estremamente diverso da quello intrapreso, o immaginato, dai Paesi occidentali.
Alla base di una simile concezione dei processi di trasformazione troviamo il rifiuto dello schema fisso, unico, di modernizzazione e transizione del socialismo positivista, che prescindeva totalmente dalla realtà storico-territoriale del processo in atto e dal protagonismo del soggetto sociale dell’emancipazione. In altri termini il socialismo si sarebbe affermato non per l’azione concreta degli sfruttati con le loro lotte sociali e politiche, ma per il fatale andare delle cose, al termine di un processo il cui epilogo era già scritto nelle leggi dell’economia e nel quale, prima o poi, sarebbe arrivata la crisi finale del capitalismo.
Secondo gli schemi positivistici della II Internazionale, un Paese arretrato come la Russia non avrebbe nemmeno potuto pensare a un processo rivoluzionario socialista senza prima aver vissuto tutte le tappe della “via crucis del capitalismo” e gli stadi evolutivi della società borghese. Alla stessa maniera, si riteneva che l’europeizzazione forzata dei domini coloniali avrebbe accelerato i processi evolutivi di quei Paesi schiodandoli da strutture socioeconomiche arcaiche, da istituzioni dispotiche e feudali. In sostanza l’imperialismo avrebbe avvicinato il socialismo, così le ragioni dell’espansione coloniale, nella letteratura del tempo, erano legittimate con il dovere di tutela dei popoli “primitivi”, con la missione civilizzatrice dell’occidente.
Ecco, di fronte a questo panorama, che secondo Gramsci trovò in Italia un suo corrispondente nell’approccio errato con cui il socialismo nostrano si rapportò alla questione meridionale, Domenico Losurdo ha segnalato un aspetto di particolare importanza: tra i suoi tanti significati, la Rivoluzione russa ha rappresentato un punto di non ritorno nella storia mondiale, in primo luogo, per il suo contenuto e impegno anticoloniale, ed esattamente su questo snodo si colloca il discrimine tra il marxismo “orientale” e marxismo “occidentale” successivo a Marx.
Grazie a questa pulsione anticoloniale del comunismo di Lenin, il marxismo ha varcato i rigidi confini dell’Occidente divenendo in Asia, Africa, America Latina dottrina di liberazione per Paesi arretrati e periferici, in cui a prevalere era la questione agraria e non quella del proletariato. Proprio l’incomprensione, la sottovalutazione o il paternalismo verso la questione coloniale, e al suo interno il disinteresse verso la centralità della questione agraria, hanno prodotto letture contraddittorie che spiegano buona parte della subalternità ideologica, dell’inconcludenza e marginalità della sinistra nei Paesi a capitalismo avanzato.